Triplo
eBook - ePub

Triplo

  1. 392 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

1968. Il servizio segreto israeliano viene a sapere troppo tardi che l'Egitto, con l'aiuto dell'Unione Sovietica, sta approntando un arsenale di armi nucleari: una fine prematura minaccia Israele, a meno che non riesca a sua volta a costruire bombe atomiche, reperendo una fonte di uranio in assoluta segretezza e all'oscuro perfino dei suoi alleati. Impossibile, naturalmente, a meno che qualcuno riesca a rubare l'uranio... Lavorando da solo, Nat Dickstein, agente israeliano sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, organizza il più grandioso e segreto dirottamento mai avvenuto nella storia: Contro di lui si schierano tre avversari: il Kgb, i servizi segreti egiziani e i Fedayn; al suo fianco una giovane donna mezza inglese e mezza araba, la cui lealtà appare incerta. Un thriller straordinario e una splendida storia d'amore in cui suspance e attualità si combinano perfettamente per mano di un Ken Follett magistrale.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804620020
eBook ISBN
9788852031199

VIII

Fu piuttosto penoso per Dickstein lasciare Suza al mattino e tornare al lavoro.
Era ancora… ecco, stordito… alle undici del mattino, seduto nel vano della finestra di un ristorante in Fulham Road ad aspettare che Pierre Borg si facesse vivo. Aveva lasciato un messaggio all’ufficio informazioni a Heathrow, in cui diceva a Borg di recarsi in un caffè di fronte a quello in cui era seduto adesso. Pensava che probabilmente sarebbe rimasto stordito a lungo, forse per sempre.
Si era svegliato alle sei, e aveva provato un momento di panico, chiedendosi dove fosse. Poi aveva visto la lunga mano bruna di Suza sul cuscino accanto alla sua testa, raggomitolata come un animaletto addormentato, e il ricordo della notte lo aveva sommerso, e a stento riusciva a credere alla sua fortuna. Pensava di non svegliarla, ma d’un tratto non aveva potuto tenere le mani lontano dal suo corpo. Lei aveva aperto gli occhi sentendosi sfiorare e avevano fatto l’amore con allegria, sorridendosi l’un l’altro, a tratti ridendo, e guardandosi negli occhi nel momento culminante. Poi avevano gironzolato per la cucina, mezzi nudi, preparando un caffè troppo lungo e lasciando bruciare il pane tostato.
Dickstein desiderava restare lì per sempre.
Suza aveva sollevato la sua canottiera con un grido di orrore. «Cos’è questa?»
«La mia canottiera.»
«Canottiera? Ti proibisco di portare canottiere. Sono fuori moda, non igieniche e mi impicciano quando voglio sentire i tuoi capezzoli.»
La sua espressione era così sensuale che lui era scoppiato a ridere. «Va bene» disse. «Non le metterò più.»
«Bene.» Aveva aperto la finestra e gettato la canottiera giù nella strada, e lui aveva riso di nuovo.
Disse: «Ma tu non devi indossare i calzoni».
«Perché no?»
Toccava a lui guardarla con occhi maliziosi.
«Ma tutti i miei calzoni hanno l’abbottonatura.»
«Non va bene» disse lui. «Non c’è spazio per manovrare.»
E così via.
Si comportavano come se fossero stati loro a inventare il sesso. Il solo momento leggermente penoso fu quando lei guardò le sue cicatrici e gli chiese dove se le era procurate. «Abbiamo avuto tre guerre, da quando sono andato in Israele» spiegò. Era la verità, ma non del tutto.
«Cosa ti ha spinto ad andare in Israele?»
«La sicurezza.»
«Ma è proprio esattamente il contrario di sicuro laggiù.»
«È un tipo diverso di sicurezza.» Lo disse in tono definitivo, non volendo spiegarlo, poi cambiò idea, perché desiderava che sapesse tutto di lui. «Doveva esserci un posto in cui nessuno potesse dire: “Tu sei diverso, non sei un essere umano, sei un ebreo”, dove nessuno potesse rompere le mie finestre o fare esperimenti sul mio corpo solo perché sono ebreo. Capisci…» Lei lo fissava con quel suo sguardo limpido e franco, e lui dovette lottare per dirle l’intera verità, senza sotterfugi, senza cercare di abbellirla. «Non mi importava che scegliessimo la Palestina o l’Uganda o l’isola di Manhattan; ovunque fosse, avrei detto “Questo posto è mio” e mi sarei battuto con le unghie e con i denti per tenerlo. Ecco perché non ho mai cercato di discutere i diritti morali e i torti della costituzione di Israele. Giustizia e lealtà non c’entrano. Dopo la guerra… bene, l’accenno al fatto che il concetto di lealtà avesse un ruolo nella politica internazionale mi sembrava una barzelletta macabra. Non pretendo che sia un atteggiamento ammirevole, sto solo dicendoti come la penso. Qualunque altro posto in cui vivano gli ebrei – New York, Parigi, Toronto – non importa quanto bello sia, come si siano integrati, non sanno mai quanto tempo potrà durare, quando arriverà la prossima crisi di cui si getterà praticamente la colpa su di loro. In Israele so che qualsiasi cosa accada, non sarò una vittima di questo fatto. Così, tolto di mezzo questo problema, possiamo andare avanti e occuparci dell’insieme di cose concrete che fanno parte della vita di ognuno: piantare e raccogliere, comprare e vendere, lottare e morire. Ecco perché ci sono andato, penso… Forse non l’ho capito così chiaramente allora – in effetti, non ho mai cercato di spiegarlo a parole come adesso – ma ecco cosa sentivo, ad ogni modo.»
Dopo un momento Suza disse: «Mio padre ritiene che Israele stesso oggi sia una società razzista».
«È quello che dicono i giovani. Loro lo hanno capito. Se…»
Suza lo guardava, aspettando.
«Se tu e io avessimo un bambino, si rifiuterebbero di considerarlo ebreo. Sarebbe un cittadino di seconda classe. Ma non credo che questo genere di cose durerà per sempre. In questo momento i fanatici della religione sono potenti nel governo: è inevitabile, il sionismo era un movimento religioso. Mentre la nazione matura, scomparirà. Le leggi razziali sono già controverse. Noi le combattiamo, e alla fine vinceremo.»
Lei gli andò vicino e appoggiò la testa sulla sua spalla, e si tennero stretti in silenzio. Sapeva che a lei non interessava la politica israeliana: era l’accenno a un figlio che l’aveva commossa.
Seduto nel vano della finestra del ristorante, ripensandoci, sapeva che voleva per sempre Suza nella sua vita, e si domandava cosa avrebbe fatto se lei avesse rifiutato di andare nel suo paese. Cosa ci toccherà, Israele o Suza? Non lo sapeva.
Osservava la strada. Era una tipica giornata di giugno: pioggia persistente e abbastanza fredda. I familiari autobus rossi e i taxi neri frusciavano su e giù, gettandosi nella pioggia, schizzando nelle pozzanghere lungo la strada. Un paese suo, una donna sua: forse avrebbe potuto avere entrambi.
Dovrei essere così fortunato.
Un taxi si arrestò davanti al caffè di fronte, e Dickstein si irrigidì, chinandosi verso la finestra e sbirciando attraverso la pioggia. Riconobbe la figura corpulenta di Pierre Borg, con un corto impermeabile scuro e un cappello floscio, che scendeva dal taxi. Non riconobbe il secondo uomo, che scese e pagò l’autista. I due entrarono nel caffè. Dickstein guardò su e giù per la strada.
Una Jaguar Mark II grigia si era fermata sulla doppia riga gialla a cinquanta metri dal caffè. Adesso faceva un’inversione ed entrava in retromarcia in una strada laterale, parcheggiando sull’angolo, da cui si poteva vedere il caffè. Il passeggero scese e si avviò verso il caffè.
Dickstein lasciò il suo tavolo e andò nella cabina telefonica nell’ingresso del ristorante. Poteva sempre vedere il bar di fronte. Formò il suo numero.
«Sì?»
«Mi faccia parlare con Bill, per favore.»
«Bill? Non lo conosco.»
«Vuole chiedere, per favore?»
«Certo. Ehi, c’è nessuno che si chiami Bill?» Una pausa. «Sì, sta venendo.»
Un momento dopo Dickstein sentì la voce di Borg. «Sì?»
«Chi è il tizio con te?»
«Il capo della sezione di Londra. Pensi che possiamo fidarci di lui?»
Dickstein ignorò il suo sarcasmo. «Uno di voi due è seguito. Due uomini su una Jaguar grigia.»
«Li abbiamo visti.»
«Seminateli.»
«Naturale. Ascolta – tu conosci questa città – quale è il modo migliore?»
«Rimanda il capo della sezione all’ambasciata. Questo dovrebbe seminare la Jaguar. Aspetta dieci minuti, poi prendi un taxi per…» Dickstein esitò, sforzandosi di pensare a una strada tranquilla non troppo distante. «Redcliffe Street. Ti vedo lì.»
«Okay.»
Dickstein guardò attraverso la strada. «Il vostro inseguitore sta entrando nel bar.» Riattaccò.
Tornò al suo posto accanto alla finestra e osservò. L’altro uomo uscì dal caffè, aprì l’ombrello, e si fermò sul bordo della strada cercando un taxi. L’inseguitore aveva riconosciuto Borg all’aeroporto oppure stava seguendo il capo della sezione per qualche altro motivo. Non faceva nessuna differenza. Arrivò un taxi. Quando ripartì, la Jaguar grigia uscì dalla strada laterale e lo seguì. Dickstein uscì dal ristorante e chiamò un taxi per sé. I tassisti guadagnano bene con le spie, pensava.
Disse al conducente di andare in Redcliffe Street e di aspettare. Undici minuti dopo un altro taxi entrò nella strada e ne scese Borg. «Lampeggi» disse Dickstein. «È l’uomo che aspetto.» Borg vide le luci e fece un segno di intesa. Mentre pagava, arrivò un terzo taxi e si fermò. Borg se ne accorse.
L’inseguitore sul terzo taxi aspettava di vedere cosa succedeva. Borg lo capì, e cominciò a camminare, allontanandosi dal suo taxi. Dickstein disse al tassista di non lampeggiare più.
Borg li superò. L’inseguitore scese dal taxi, pagò e si mise a camminare dietro a Borg. Quando il taxi dell’inseguitore se ne fu andato, Borg si girò, tornò verso il taxi di Dickstein, e salì a bordo. Dickstein disse: «Okay, andiamo». Si allontanarono, lasciando l’inseguitore sul marciapiede a cercare un altro taxi. Era una strada tranquilla: non l’avrebbe trovato per cinque o dieci minuti.
Borg disse: «Liscio come l’olio».
«Facile» rispose Dickstein.
L’autista domandò: «Cosa è successo?».
«Non si preoccupi» gli disse Dickstein. «Siamo agenti segreti.»
L’autista rise. «Dove andiamo, all’MI5
«Museo della Scienza.»
Dickstein si appoggiò allo schienale. Sorrise a Borg. «Allora, Bill, vecchio mio, come va?» Borg lo guardò accigliato. «Cosa ti prende, che sei così allegro?»
Non si parlarono più in taxi, e Dickstein si rese conto che non si era preparato abbastanza per questo incontro. Avrebbe dovuto decidere in anticipo cosa voleva da Borg e come ottenerlo.
Pensava: “Cosa voglio?”. La risposta gli venne dal fondo della sua mente e lo colpì come uno schiaffo. Voglio dare a Israele la bomba, e poi voglio andare a casa.
Guardò fuori. Come lacrime, le gocce di pioggia rigavano i finestrini. D’un tratto si sentì contento che non potessero parlare a causa del tassista. Sul marciapiede c’erano tre hippy senza impermeabile, bagnati fradici, con la faccia e le mani rivolte in alto, a godersi la pioggia. Se potessi farlo, se potessi portare a termine questo incarico, potrei riposare.
Il pensiero lo rese inspiegabilmente felice. Guardò Borg e sorrise. Borg si girò verso il finestrino.
Arrivarono al museo ed entrarono. Stavano davanti a un dinosauro ricostruito. Borg disse: «Sto pensando di toglierti questo incarico».
Dickstein annuì, reprimendo l’ansia, riflettendo velocemente....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Triplo
  4. PROLOGO
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. XI
  16. XII
  17. XIII
  18. XIV
  19. XV
  20. XVI
  21. XVII
  22. XVIII
  23. EPILOGO
  24. POSCRITTO
  25. Copyright