Io lo chiamo cinematografo
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Io lo chiamo cinematografo

  1. 480 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Io lo chiamo cinematografo

Informazioni su questo libro

"Il cinema, allora, era una grande famiglia, è vero. C'era un rapporto di comprensione, anche di affetto. Poi ci sentivamo tutti parte di una grande avventura, far rivivere sullo schermo la vita. Il nostro è un mestiere particolare. Se lo fai con passione non te ne puoi liberare. Ti rimane dentro, non c'è niente da fare."
Proprio di "grande avventura" è il caso di parlare a proposito di Francesco Rosi, classe 1922, maestro indiscusso del cinema italiano che ha deciso di raccontare la propria vita e i segreti del suo mestiere a un altro straordinario regista, il suo amico Giuseppe Tornatore. È in famiglia, nella Napoli degli anni Trenta, "legata a doppio filo con il suo mare", che tutto comincia: papà Sebastiano, appassionato di cinematografo, lo riprende con la sua Pathé Baby a passo ridotto e gli scatta magnifici fotoritratti, ispirandosi anche a Jackie Coogan, il celebre protagonista del Monello di Charlie Chaplin. Poi ci sono zio Pasqualino, "capoclaque " nei teatri di rivista, e zia Margherita, che oltre a somigliare a Ginger Rogers, lo accompagna ogni giovedì al cinema, dove il piccolo Francesco scopre la magia dei primi film muti.
Nell'immediato dopoguerra Rosi si trasferisce a Roma dove, insieme a una spiccata passione per il teatro e per la letteratura, porta con sé lo stupore per quelle sagome di ombre e luci che si agitano su uno schermo bianco. E capisce che il cinema diventerà il suo mestiere. Allievo e aiuto regista di Luchino Visconti, esordisce dietro la macchina da presa nel 1958 con La sfida, ma è con capolavori come Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei e Lucky Luciano che conquista un posto di assoluto rilievo nel panorama del cinema internazionale, fino a essere riconosciuto il caposcuola di un'estetica della realtà che mai, prima di lui, aveva raggiunto vette di così vivida e concreta espressività.
Puntiglioso nell'approfondire il contesto storicodocumentario che doveva fare da ossatura narrativa ai propri film, attento alle evoluzioni del costume e alle oscure ambiguità della politica, Rosi ha lavorato accanto ai migliori talenti espressi dalla cultura italiana dell'ultimo mezzo secolo, qui tratteggiati in pagine felici e importanti: intellettuali, critici, giornalisti come Ennio Flaiano, Sergio Amidei, Raffaele La Capria, registi come Rossellini e Fellini, attori del calibro di Gian Maria Volonté e Sophia Loren.
In questo libro-intervista che è insieme autobiografia e saggio critico, Rosi ci svela una miniera di informazioni e aneddoti che riguardano i suoi film e la sua straordinaria carriera di regista, senza lasciare "fuori campo" gli aspetti più intimi e privati di una vita intensa e coraggiosa, trascorsa accanto all'amatissima moglie Giancarla.
Grazie al confronto con Tornatore, alle sue domande sempre curiose e penetranti, Io lo chiamo cinematografo è anche l'appassionato ed entusiasmante racconto di mezzo secolo di cinema italiano.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804613695
eBook ISBN
9788852031335

TERZO TEMPO

«Buongiorno professore!»

Tutto quello che ricordo di Giancarla mi dà grande gioia, d’altra parte mi fa soffrire, perché Giancarla non c’è più. Questo è il problema. Un trauma veramente molto forte. Quando mi si chiede: «Come stai?», e come devo stare? E quando ti dicono: «Scrivi qualcosa, un racconto. Distraiti...». Ma io non mi voglio distrarre. Perché mi devo distrarre? Certo, la sera quando vado a letto l’ultima immagine che ho negli occhi è Giancarla e ce l’avrò per tutta la vita, ed è pesante... è pesante.
Un ricordo divertente...
Amava tantissimo giocare. Ricordo una volta, alle cinque del mattino. Io stavo a letto, mi sveglio, allungo la mano e non la trovo. E dico: «Ma dov’è?». Mi alzo, apro la porta della camera da letto che comunica con il soggiorno e vengo accolto da un coro: «Buongiorno professore!». Erano Giancarla, Guidino Sacerdote, Battistoni e il Moro, che giocavano a poker. Non avevano dormito manco un minuto. Avevano trascorso tutta la notte a giocare a carte. «Buongiorno professore!», senza neanche guardarmi. Incredibile. Poi i suoi orari si fecero impossibili per me. Era una nottambula incallita. Vedeva la televisione sino all’alba, e così negli ultimi anni non ho più dormito con lei.
Cosa ti manca di più di lei?
Lei, il suo sorriso, le sue incazzature, ma quello che mi manca è proprio la sua discrezione, la sua grande intelligenza e la sua caparbietà, perché quando voleva fare una cosa, nessuno era capace di non fargliela fare. Lei è stata a lungo senza uscire di casa. Continuava a leggere i giornali, a vedere la televisione, ma di uscire non le andava proprio. È uscita una volta per votare e una volta per andare dal dentista e poi niente. «Ma perché devo uscire? Ho il più bel panorama di Roma a disposizione, sono a casa mia, passeggio, cammino...»
Perché non volle più uscire?
Depressione. Una depressione tosta, dura. All’inizio era cominciata con dei piccoli insoliti comportamenti che mi rammarico di non avere interpretato subito come segnali sospetti. A un certo punto Giancarla ha cominciato a mostrare segni di insofferenza sull’uscire di casa, ecco. Sul consueto viaggio estivo in Sardegna. O, se ci andava, sulla sua tendenza a uscire poco, a non volere andare neanche alle cene della sorella, perché diceva che c’era troppa gente e non ne aveva voglia. Insomma, strani segni per una donna così dinamica, così attiva, così effervescente come lei. D’altra parte in quel periodo accadde qualcosa che mi diede molto fastidio. Mi riferisco al 2003, quando il regista Paolo Benvenuti fece un film che si chiamava Segreti di Stato, sulla strage di Portella della Ginestra, e mi attaccò brutalmente, sostenne che nel mio Salvatore Giuliano non avessi fatto i nomi dei mandanti della strage, trascurando il fatto che il giudice non aveva ritenuto di convocarli. Replicai ovviamente, ma avevo avuto la sensazione che quell’attacco così violento servisse in qualche maniera a procurare visibilità al suo film.
Niente di più verosimile. Oggi tutto è lecito pur di promuovere un film. L’ingenuità delle «lucherinate» fa parte di un’epoca ormai molto lontana.
È vero. Ma confesso di essere rimasto turbato da quell’attacco, così irrispettoso di tutta la mia filosofia del cinema. E in quel periodo, ecco, quando Giancarla cominciava a rinchiudersi in se stessa, senza accorgermene, cominciai a rinchiudermi anch’io in me stesso. Rileggevo tutti i documenti che avevo sulla lavorazione di Salvatore Giuliano, sul processo di Viterbo, ho riletto tutto, ripescando la chiave della serietà e della fondatezza del mio film. E in una delle mie repliche a quel regista, dissi che non avevo citato i mandanti perché i nomi che per sentito dire circolavano all’epoca, erano quelli di persone che il giudice del processo di Viterbo non aveva mai ritenuto di convocare. Se avessi fatto quei nomi mi sarei sostituito al giudice.
Un metodo estraneo al rigore che hai sempre seguito nei tuoi film.
Esattamente. Avrei messo in pericolo la carica d’attualità che il mio film non ha mai smesso di avere, insomma. Nella mia vita ho fatto film duri, film coraggiosi, sono sempre stato uno che non ha mai avuto paura di niente, uno abituato agli attacchi di chi, magari, qualche volta non apprezzava il mio lavoro, come accade a tutti nel mondo del cinema. E durante quegli anni in cui Giancarla si è via via aggravata, anche io ho cominciato a uscire di meno, per fare compagnia a mia moglie, a rimanere a casa. Lei era spesso taciturna, chiusa in se stessa, salvo momenti in cui invece si rimetteva a parlare, e in quei momenti spesso tornava a essere lucida, intelligentissima ed energica come sempre. Vedeva le amiche che le volevano bene. Aveva un certo tipo di amicizie fisse, tipo Marta Marzotto, tipo Sandra Carraro, tipo Edda Lancetti, la sorella dello stilista, sua amica carissima da sempre. Seguitavano a venire la sera, trascorrevano la notte coltivando le abitudini di sempre. Giocavano a carte, chiacchieravano. Poi, pian piano Giancarla si è isolata. Parlava poco. Parlava solamente quando s’incazzava con qualcuno e lo mandava al diavolo. Però con gli amici, con le amiche, era formidabile. Le volevano tutti bene. Eppure in certi momenti sembrava normalissima. Quando è morto Alberto Ronchey ha fatto una telefonata alla figlia Silvia, che era una cosa... io l’ho sentita. E poi, invece, magari le capitava di non riconoscere la sua manicure. Orrenda cosa. Non si riesce a capire che mistero sia il cervello umano. Quando dissi al medico: «Ma guardi che Giancarla fa delle telefonate di una lucidità sconvolgente», mi rispose: «Eh, perché non è stata compromessa la parte più importante del cervello». Infatti non è che non fosse lucida, anzi lo era sempre, ma non era presente. Si assentava. Ed è così che a un certo punto non ha più voluto fare la vita che faceva prima. Nell’ultimo periodo la sua depressione si era aggravata. Cominciava a rendersi conto che non andava niente bene. Insomma, non era più lei. Finché un giorno... Io stavo al piano di sopra, in casa. Maria, la nostra governante, ha urlato: «Scenda giù, scenda giù!» e mi sono precipitato. C’era ancora fumo ma le fiamme si erano già spente. No, lei non si è resa conto. Sono saliti subito quelli del piano di sotto e il portiere. Poi hanno chiamato l’ambulanza, che è venuta subito. L’hanno trasferita all’ospedale per i grandi ustionati. Mentre la portavano via mi sono reso conto che non soffriva... Non l’ho vista più.

«Tu sei comunista e non lo sai»

Una volta Goffredo Lombardo volle affidarmi la direzione del doppiaggio di un film diretto da Nanni Loy, Le quattro giornate di Napoli (1962). Avevo appena terminato le riprese di Salvatore Giuliano. Nanni era sardo, non poteva trattare l’accento napoletano come avrei potuto fare io. E poi Lombardo sapeva che io conoscevo bene il doppiaggio fin dai tempi della mia collaborazione con Ettore Giannini. Dovevamo doppiare negli stabilimenti della Titanus alla Farnesina. E poiché Le quattro giornate di Napoli si svolgeva quasi tutto in esterni, lanciai una proposta a Lombardo: «Doppiamo la notte, nel cortile, quando non ci sono rumori». Così feci attrezzare una sala di doppiaggio in esterno e iniziai a lavorare all’aperto. C’era un’eco magica, un’aria intorno bellissima.
Mentre doppiavi, Loy assisteva?
No. Forse era impegnato in un altro film. So che poi rifecero alcuni pezzi per una questione di comprensibilità. Vollero alleggerire il dialetto troppo popolare, renderlo in quella lingua che parlano i borghesi napoletani quando vogliono farsi capire. In questo modo, però, imbastardirono la lingua, secondo me la forza del dialetto non andava persa, dovevi sentirla. In seguito, proprio Le quattro giornate di Napoli e Salvatore Giuliano si aggiudicarono il Nastro d’Argento ex aequo come miglior film.
Nel momento in cui esplode il successo di «Salvatore Giuliano» pensavi già al futuro, avevi in mente altri progetti?
Sai perfettamente che il nostro mestiere è fatto di progetti. A Le mani sulla città ho cominciato a pensare dopo la fine di Salvatore Giuliano, il cui successo fu decisivo. Non a caso, abbandonai definitivamente il film che avrei voluto fare prima, La nave morta. Mi venne invece l’idea di fare a Napoli quello che avevo fatto in Sicilia, far vivere la città come avevo fatto vivere la Sicilia. Mostrare i problemi dell’epoca di Lauro sindaco e dei protagonisti del saccheggio immobiliare che stava cambiando il volto della città. Ne parlai a Dudù La Capria, che aveva già pubblicato Ferito a morte, premio Strega e romanzo bellissimo: «Andiamo in giro per le strade» gli dissi «vediamo cosa ci suggerisce il ventre di Napoli». Sprofondammo subito nella questione più scabrosa, la speculazione edilizia che stava divorando la città, calpestando leggi e piani regolatori. Cominciai a frequentare il consiglio comunale, capii che tutto nasceva lì.
Non temevi d’essere riconosciuto? In fondo era la tua città e avevi appena fatto «Salvatore Giuliano»...
Quando andavo in giro nei vicoli mi riconoscevano, come era successo a Montelepre. Ma io mi mescolavo alla gente, non rimanevo mai fermo. Se mi facevano domande non dicevo chi ero, facevo finta di niente. Alle sedute del consiglio comunale andavo con Dudù, ci nascondevamo nella tribuna dei giornalisti per ascoltare e vedere ciò che, poi, avrei ricostruito nel film. A proposito, era la madre a chiamarlo così, Dudù. Lui aveva anche un fratello di nome Giuseppe che lei, donna d’inesauribile fantasia, chiamava addirittura Pelos. Né io, né La Capria, né credo tutti i napoletani avremmo mai immaginato ciò che accadeva in quell’aula dominata da una maggioranza schiacciante di laurini. Assistemmo agli interventi di Carlo Fermariello, un uomo del Partito comunista molto esperto. Proseguiva l’opera di Luigi Cosenza, un architetto e ingegnere molto famoso che in consiglio comunale, in passato, aveva osato opporsi a Lauro. A Napoli, se appartieni a un certo giro, conosci tutti. E io, Fermariello, lo conoscevo. Ma adesso lo vedevo tra quei banchi, impegnato contro gli speculatori. Quel modello di urbanizzazione era fondato sul principio che un metro quadrato di terreno dovesse moltiplicare il proprio valore anche fino al cinquemila per cento di quello originario. Il film prende avvio proprio da questo teorema, l’importante era spiegarlo. Sai, gli speculatori avevano assaltato i palazzi storici. Pensa che nel famoso «Miglio d’oro», quel tratto di costa che dal quartiere San Giovanni va fino a Torre del Greco, c’erano allora delle sontuose ville borboniche con cortili bellissimi e giardini affacciati sul mare.
Quei cortili, nel disastro immobiliare di quegli anni, finirono per ospitare palazzi e palazzine. Molte di quelle ville hanno perduto il loro stile, la loro storia. E quella era la storia della Napoli borbonica. Un delitto, un vero delitto. Fu violentata dal cemento anche la zona collinare della città. La fecero diventare una selva di grattacieli. Solo da lontano prevaleva la bellezza del panorama napoletano, col suo mare, il Vesuvio, le montagne dietro. Ma se andavi sul posto, la speculazione ti aggrediva, ti trovavi in una giungla di cunicoli e vicoli. E non parlo dei vicoli della Napoli povera. Era così dappertutto. Allora dicemmo: «Ecco il film che dobbiamo fare». Decisi di coinvolgere Carlo Fermariello, lui mi disse: «Devo prima chiedere al partito». Allora non si muoveva foglia che il partito non volesse, e quella volta si oppose: «E che facciamo, gli attori?». Seppi che pure Giorgio Napolitano era contrario, o almeno perplesso. Mentre sembravano favorevoli Giancarlo Pajetta e Giorgio Amendola. Puoi notare che è cambiato tutto, caro Peppuccio. Non sai più cosa pensano, i parlamentari attuali. Una sera andammo a cena con Giorgio Amendola a Torre del Greco, per smuovere la situazione, e lui ci disse: «Basta con questo perbenismo borghese, perché opporsi stupidamente a novità che possono essere utili, che possono aprire discussioni su ciò che accade a Napoli?». Carlo Fermariello diventò così il mio attore. Restava il problema di trovare tutti gli altri.
Quando sei andato a cena con Amendola, lui aveva visto «Salvatore Giuliano»?
Credo di sì. Del resto lo videro un po’ tutti. Con Salvatore Giuliano offrivo alla gente qualcosa di misterioso, una verità che nemmeno io conoscevo. Con Le mani sulla città era il contrario. Dovevo dimostrare che ciò di cui io ero convinto fosse la verità. Questa è la differenza tra i due film, anche dal punto di vista stilistico. La situazione napoletana era vissuta dalla gente attraverso una politica deformata, c’era una maggioranza schiacciante nelle mani di Lauro, dei monarchici. Se fai un film del genere, hai l’obbligo di essere chiaro, di far capire ciò che stai dicendo. Non puoi permetterti fraintendimenti.
Com’è nata la trama del film, come l’hai costruita?
In giro per Napoli, cercando di capire quello che avveniva. Nella zona di fronte al porto, dove mio padre aveva l’ufficio, c’era un grattacielo costruito da poco. Proprio di fianco, rimaneva la parte vecchia del vicolo. Quando il costruttore aveva ottenuto l’appalto per edificare il grattacielo, cominciò con le demolizioni causando il crollo accidentale di un vecchio palazzetto. Demolivano con il battipalo e scuotevano le fondamenta di tutte le vecchie case intorno. Trovai sui giornali notizie del crollo che aveva provocato feriti. Poi parlai con gli abitanti della zona. Mi raccontarono che le demolizioni avevano messo a rischio tutte le vecchie abitazioni costruite senza criteri di sicurezza. Pian piano veniva fuori la storia di un’inchiesta, che si apriva per far luce sulle ragioni di un disastro che nessuno poteva prevedere.
Insomma crollò ciò che non doveva crollare.
Esattamente. Era la fatale conseguenza di quanto avveniva nel consiglio comunale, il luogo in cui si decideva il destino della città. Accompagnati da Carlo Fermariello, io e Dudù andammo da Luigi Cosenza, un personaggio magnifico. Comunista, legatissimo alla città e alla sua condizione urbanistica che conosceva bene perché era ingegnere, costruttore e architetto. Gli proposi di collaborare alla sceneggiatura e lui disse: «Non ne ho il tempo. Ma venite quando volete e parliamo di tutto». Un giorno tornammo da lui. Mentre salivamo le scale che portavano al suo studio, Fermariello si trovò improvvisamente davanti un leone.
Intendi dire un leone vero?
Verissimo, vivo. Un leoncino, ma nemmeno così piccolo. Carlo s’incollò al muro paralizzato: «Luigi, Luigi, chiama il leone!». «Nooo» rispose una voce dall’alto «tu accarezzalo, quello è come un cane, non ti fa niente.» Era Luigi Cosenza, teneva in casa un leone. Lo portava anche a spasso. Un giorno, per strada, una signora con un bambino gli si avvicinò: «Scusate, ’o piccirillo po’ accarezzà nu poco ’o cane?».
Che i comunisti mangiassero i bambini me l’avevano detto, ma che si facessero aiutare dai leoni...
Eh... Ma Cosenza era un tipo ingegnoso. Fu lui a spiegarci quegli assurdi meccanismi della politica napoletana che poi hanno fatto parte della struttura del film, basata sulla storia di un’inchiesta parlamentare spinta dalla sinistra antilaurina. Per mostrare al pubblico la violenza delle discussioni, la violenza con cui la destra si opponeva alla sinistra, scelsi persone che conoscevo a Napoli, giornalisti, professionisti, commercianti. Composi così gli schieramenti del consiglio comunale del film con personaggi che davvero appartenevano alla sinistra e alla destra. Le discussioni che riproducevo nella pellicola diventavano vere e proprie battaglie. Gli uomini che le sostenevano si odiavano veramente. Questo è stato decisivo per la riuscita del film, come tutto il percorso dell’inchiesta che via via svela risvolti spesso paradossali. Faccio un esempio. I pennini in dotazione agli uffici tecnici urbanistici non erano abbastanza sottili da disegnare in scala sulle cartografie certi elementi architettonici che venivano quindi omessi. Ciò creava margini di arbitrio edilizio inimmaginabili. Tutto grazie alla punta di un pennino. Dico sul serio. E guarda che follie del genere ce n’erano tante.
Stavi già pensando alla figura protagonista del film?
Avevo visto Il grande coltello (1955) di Robert Aldrich, in cui Rod Steiger impersonava Hoss, un prod...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Io lo chiamo cinematografo
  3. Primo tempo
  4. Secondo tempo
  5. Terzo tempo
  6. Quarto tempo
  7. Fuori programma
  8. INSERTO FOTOGRAFICO
  9. Copyright