Le fondamenta della città
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Le fondamenta della città

Come il Nord Italia ha aperto le porte alla 'ndrangheta

  1. 240 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Le fondamenta della città

Come il Nord Italia ha aperto le porte alla 'ndrangheta

Informazioni su questo libro

Perché la 'ndrangheta è arrivata in Lombardia? Come si è organizzata? Quali sono i settori in cui opera? Come è potuto succedere che la criminalità calabrese abbia avuto così tanto successo al Nord? È solo una questione di contagio sociale o sono stati i lombardi ad aprirle le porte?
Giuseppe Gennari, magistrato tra i maggiori esperti di criminalità organizzata, risponde a queste domande svelandoci una realtà solo parzialmente conosciuta attraverso le pagine di cronaca nera dei giornali, ma che invece ormai permea ampi settori dell'economia - si pensi al monopolio del movimento terra e al recupero crediti, all'acquisizione di importanti imprese impegnate nella realizzazione di opere pubbliche e al controllo dei venditori ambulanti di panini - e coinvolge un lunghissimo elenco di insospettabile gente "comune" (commercialisti, bancari, medici, impiegati, avvocati, carabinieri, poliziotti). Perché oggi sempre più spesso "la 'ndrangheta veste in giacca e cravatta e si nasconde dietro il volto di uomini d'affari apparentemente irreprensibili", non commettendo specifici reati ma moltiplicando le capacità di guadagno grazie ad aziende che si sono lasciate sedurre dalla prospettiva di facili introiti, all'omertà di tanti imprenditori compiacenti e delle impaurite vittime di usura e, come emerso di recente, agli stretti rapporti con alcuni politici che cercano o accettano voti dalle famiglie mafiose concedendo in cambio favori.
Per ricostruire la storia della penetrazione e il profilo della mafia calabrese al Nord, Gennari prende spunto da alcuni casi che ha seguito personalmente, dall'operazione "Parco Sud" a quelle "Tenacia" e "Caposaldo" - che si sono concluse con centinaia di arresti e hanno reso evidente la capillarità dell'infiltrazione mafiosa - alla vicenda di Lea Garofalo, la figlia di un boss diventata collaboratrice di giustizia e barbaramente assassinata nel 2009. E, tra interrogatori, pedinamenti e sentenze, ci spiega i meccanismi giudiziari all'interno dei quali i magistrati si trovano a operare, permettendoci di capire perché troppo spesso assistiamo ad assoluzioni apparentemente incomprensibili e perché i politici si salvano quasi sempre.
Le fondamenta della città è un monito a guardare sotto una nuova luce la realtà della criminalità organizzata, perché - ci dice Gennari - solo con un'assunzione di responsabilità collettiva potremo estirpare un male che rischia di minare la nostra società: sarebbe un errore pensare che la soluzione di questo problema possa essere delegata a giudici, pubblici ministeri e poliziotti. Un'efficace azione repressiva è, sì, fondamentale, ma non sufficiente, perché "oggi siamo in fondo al precipizio. Sino a quando non vincerà l'idea che il rispetto della legalità, il bene della collettività, la protezione delle generazioni future valgono più degli interessi personali nulla potrà veramente cambiare".

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IV

Ascesa e caduta di un’impresa mafiosa

La Perego Strade
Questa è la storia della triste morte di una impresa lombarda che decise di vendersi alla ’ndrangheta. Questa è la storia di un’alleanza criminale in cui non ci sono vittime. Solo colpevoli.
Perego, dall’omonimo Comune seduto sulle prime colline della provincia lecchese, è un nome che più brianzolo non si può. Sicuramente nulla, nel cognome Perego, richiama alla mente il sole della Calabria. E mai verrebbe in mente di associare un individuo che porta un simile cognome alla mafia. Eppure alla brianzola famiglia di imprenditori Perego è legato uno dei più spettacolari tentativi della ’ndrangheta di mettere le mani su un’impresa del settore edile, in grado di competere sul mercato non solo nazionale, ma anche europeo.
La Perego Strade dei fratelli Perego nasce all’inizio degli anni Novanta e in breve tempo diventa leader nel settore demolizioni, scavi e costruzioni. Come tutte le aziende che lavorano in quel campo, anche la Perego deve subire la presenza arrogante dei padroncini calabresi. Le indagini svolte nell’operazione «Tenacia» raccontano di diversi personaggi un po’ «particolari», che da sempre bazzicano i cantieri Perego con i loro camion. Personaggi che, fra un carico di terra e l’altro, si dedicano a omicidi, usure, estorsioni, droga, armi.
Tra questi, un abituale frequentatore è Antonino Belnome, quel motociclista in tuta di pelle che, in un afoso pomeriggio estivo, mette fine alla vita di compare Nunzio Novella con quattro colpi di pistola ben assestati. Quello stesso Belnome che, dopo il suo arresto nel 2010, passa alla storia come uno dei pochissimi appartenenti alla ’ndrangheta che hanno deciso di pentirsi e collaborare con lo Stato.
Un altro è Pasquale Varca, capo del «locale» di Erba. Varca, tanto per farsi un’idea, dispone di armi a volontà nascoste in una buca nel bel mezzo di un maneggio, gestisce la latitanza di pezzi da novanta della cosca calabrese Arena-Nicoscia, recupera crediti per conto terzi ricordando al debitore che è meglio che collabori perché «... Mi innervosisco... non riesco a prendere i soldi, vengo e ti spacco la testa». E poi ci sono cognomi come Cristello, Facchineri, Panajia, Verterame: tutta gente che sa come farsi rispettare.
Insomma, ai Perego non mancano frequentazioni impegnative. Il clima che si respira in azienda è di quelli che non ti fanno dormire bene la notte. C’è da barcamenarsi tra equilibri da rispettare e suscettibilità che non devono essere urtate. Ma, almeno in questa fase, le redini dell’impresa sono ancora saldamente in mano ai fratelli fondatori. I Perego convivono con la presenza della ’ndrangheta, accettando di dividere la torta. Insomma, fanno quello che devono fare tutti gli imprenditori che vogliono scavare un buco in Lombardia e poi tirarci su qualcosa.
La crescita dell’azienda è costante fino alla metà dell’anno 2000. Prima si parte con una società di persone, poi si crea una società di capitali a responsabilità limitata, poi una holding per azioni che controlla tutte le società – ormai diventate tante – che appartengono al gruppo Perego. I nomi in «pancia» alla holding sono Iris srl, Perego Strade srl, Costruzioni Alpe srl, Perego Real Estate srl, Perego Group snc. Insomma, i fratelli Perego, gente di iniziativa e buona volontà come tanti imprenditori lumbard, riescono a creare un piccolo impero familiare.
Ma i tempi cambiano e la crisi non risparmia nessuno.
Quando le difficoltà iniziano a premere e i conti peggiorano rapidamente, le società operative vengono piano piano messe in liquidazione. Oppure le si abbandona, di fatto lasciandole inattive.
Poi, nel 2008, un’improvvisa inversione di tendenza: nasce la nuova creatura Perego General Contractor srl (Pgc).
Il motore di questa iniziativa è Ivano Perego, il più attivo dei fratelli e il più compromesso nei rapporti con i mafiosi calabresi. Tanto attivo da trovarsi oggi in carcere con l’accusa di partecipazione all’associazione mafiosa. Ivano ama la bella vita, le belle macchine e – dice chi lo frequenta – la cocaina. Chissà perché, racconta il suo socio, aveva sempre il raffreddore e quel naso che gli colava perennemente. Specialmente al mattino. Bisogna ammettere, tutti vizi più milanesi che calabresi.
La Pgc presenta da subito una caratteristica tutta particolare per un’impresa che dovrebbe fare scavi e buche, non finanza strutturata: quasi il 50 per cento del capitale è in mano a fiduciarie. Scatole dentro scatole. E dietro le scatole soggetti innominabili.
Fino a questo momento tutte le società con marchio Perego sono nell’orbita di controllo dei soli membri della famiglia.
Anche dentro a Pgc il timbro personale dei Perego c’è ancora. Si chiama Perego Group snc, ennesima società nata apposta per portare a termine l’operazione Pgc. Perego Group si intesta il 51 per cento del capitale di Pgc. Ma poi, nella stanza dei bottoni, troviamo anche Carini società fiduciaria e Comitalia compagnia fiduciaria che detengono il restante 49 per cento. Quasi la metà del capitale è in mano a soggetti che hanno come unica ragione di esistere quella di schermare la partecipazione degli investitori effettivi. E questi investitori mascherati altro non sono che la stessa ’ndrangheta. La rappresenta l’abile carpentiere in giacca e cravatta Salvatore Strangio, strettamente legato alla potentissima famiglia Pelle di San Luca e già condannato in primo grado per associazione mafiosa.
Strangio è un signore che ha la brutta abitudine di raccontare troppe cose tra le mura di casa sua. Non sa, l’uomo dei Pelle, che alle sue conversazioni partecipa anche il Ros, che ha imbottito l’appartamento di microspie. Strangio parla di acquisti di mitragliette e granate come se fossero banali ordini su Amazon. E pianifica operazioni «da niente», come l’importazione di droga dalla Colombia grazie a contatti con la sorella del defunto Pablo Escobar, storico boss mondiale della cocaina con base a Medellín. (Gente che non scherza, i colombiani. In un’indagine del 2012 sul traffico internazionale di stupefacenti, due calabresi parlano del fornitore sudamericano, detto «lo zio». Gli avevano rubato 15 milioni di dollari di cocaina, ma uno dei responsabili era stato trovato: lo avevano allora appeso nudo a non si sa che, gli avevano tagliato le mani e poi lo avevano massacrato fino a quando non aveva parlato. Si scandalizza uno dei due calabresi: «Quando è successa una cosa del genere nelle nostre zone... una fucilata, ma no quelle torture!».)
Queste sono le abitudini e le frequentazioni del nuovo socio che Ivano Perego fa entrare dentro le società di famiglia.
E così accade, per la prima volta in Lombardia, che una società delle dimensioni della Pgc sia tecnicamente partecipata dalla ’ndrangheta spa. Imprenditori per professione e criminali per professione siedono allo stesso tavolo.
Dentro la società viene riversato tutto quello che è rimasto di buono del «mondo» Perego. Al momento della sua costituzione, la Pgc appare in ottima salute. La società assume dipendenti. Ha circa sessantaquattro cantieri aperti contemporaneamente.
I colorati camion con le vistose insegne Pgc lavorano a Erba (dove si sta costruendo un metanodotto per Snam Rete Gas), al nuovo centro congressi del Portello a Milano, sulla strada statale Paullese, in Valtellina per la realizzazione della strada statale Passo dello Stelvio, a Como per la realizzazione dell’ospedale Sant’Anna, nell’area del Comune di Milano «ex Ansaldo», nella riqualificazione del quartiere Mazzini sempre a Milano... Tutti cantieri per opere pubbliche e private di notevoli dimensioni.
Anche nella zona del palazzo di giustizia di Milano sono presenti i mezzi pesanti targati Pgc. Tutti impegnati nella realizzazione di un parcheggio per l’accesso ai nuovi tribunali ancora in costruzione. E fa un certo effetto vedere i dipendenti della ’ndrangheta lavorare davanti agli uffici della Direzione distrettuale antimafia e appena dietro alla caserma del Ros dei carabinieri che sta indagando. Per fare i pedinamenti basta sporgersi dalla finestra e scattare qualche foto!
La Pgc ha inoltre una caratteristica un po’ particolare: un impressionante numero di contratti di leasing per auto di lusso che nulla hanno a che fare con cantieri edili e montagne di terra. L’elenco comprende una Ferrari 430, una Bmw M3, una Audi Rs6, una Mercedes R320, una Bmw M6, un Hummer H2, una Lamborghini Gallardo, una Porsche Cayenne Magnum, una Bmw 525 Tdi Touring. Ai soci e agli amici calabresi piace trattarsi bene.
Per la ’ndrangheta il salto di qualità rispetto al tradizionale controllo del movimento terra è fortissimo. Fino a questo momento le famiglie mafiose avevano gestito il business attraverso piccole ditte individuali o poco più, che imponevano la loro presenza all’impresa titolare dei lavori in cantiere. Esattamente come era accaduto alle società dei Perego prima della loro metamorfosi mafiosa.
Ora la ’ndrangheta si trova anche dall’altra parte del tavolo. Dalla parte di chi si aggiudica gli appalti, privati e pubblici, e poi smista il lavoro a cascata sui quei padroncini che passano giornate intere alla guida dei loro bestioni a due assi. Perché è vero che sono ’ndranghetisti, ma sono anche lavoratori che non si tirano indietro quando c’è da sudare.
La Pgc diventa una stazione appaltante mafiosa a due direzioni: da una parte acquisisce lavori con metodi mafiosi, dall’altra ridistribuisce i lavori subappaltandoli alle famiglie di ’ndrangheta dell’intera Brianza. E poi, essendo una società pulita e presentabile, il nuovo gioiellino brianzolo è un formidabile veicolo per entrare dalla porta principale di Expo 2015. E Strangio lo capisce benissimo: «La volete sapere? Il primo lavoro dell’Expo, al novantanove per cento, lo prende la Perego...».
Ci sono vantaggi per tutti. Anche per la parte di azienda che pretende ancora di essere «sana». Che vorrebbe rappresentare il successo della laboriosa imprenditoria nordica.
Con i soci calabresi si abbatte la concorrenza, si controllano i prezzi e si ha protezione assicurata nei cantieri, aspetti che a Ivano Perego non sfuggono: «C’è ancora quella dittarella là che rompe i coglioni... m’ha portato via un altro lavoro»; c’è questo che «è andato a rompere i coglioni a un altro cantiere a... anche a Carpiano... là dove son là io... un altro capannone vogliono darglielo a lui... perché sbassa i prezzi...»; oppure c’è quell’altro che «non deve... non deve venire dentro nei miei cantieri». La paziente risposta di Strangio è sempre la stessa: «Okay, vabbè, ho capito, ci penso io».
La Pgc è arrivata persino ad aggiudicarsi un appalto per realizzare una superstrada a Locri. E non si va a lavorare a Locri se non si hanno le giuste coperture!
E poi non ci sono mai problemi di soldi. Sempre Ivano Perego: «Sono entrati quei soci qua, è stata una fortuna trovarli, io che sono stato bravo... e loro, anche se arriva l’insoluto, loro lo coprono... non c’è problema, loro hanno più liquidità».
La squadra sembra invincibile. Ma alla fine il castello si sgretolerà da solo.
Liti di famiglia
La ’ndrangheta è un po’ come un brand. È un marchio di qualità mafiosa che raggruppa diverse famiglie confederate. I metodi sono gli stessi per tutti, ma gli interessi non sono sempre convergenti. E così il conflitto è immancabilmente dietro l’angolo. Soprattutto quando c’è da accaparrarsi commesse fra cantieri e tutti i padroncini vorrebbero lavorare con i propri camion. Be’, bisogna dire che fino a quel maledetto 21 novembre 2007, fin quando c’era lui a decidere chi lavorava e chi non lavorava, le cose non erano andate poi male. Sì, perché il giovane Pasquale Barbaro da Platì, detto «u Zangrei», non solo veniva da una famiglia «di peso», ma aveva diplomazia da vendere, sapeva mediare e accontentava tutti. Lui riusciva a mettere d’accordo tutte le famiglie della «Lombardia» nella distribuzione del lavoro ed era in grado di mantenere gli equilibri tra le cosche originarie della «ionica» e quelle della «tirrenica». Dice un compare: «Io facevo conto a lui... io, signori miei, finché c’era lui non c’era nessuno. Le cose si sistemavano, se c’era compare Pasquale». «U Zangrei» aveva raggiunto i vertici della «Lombardia». Proprio a fianco di compare Nunzio Novella.
Poi un infarto se l’è portato via. Pasquale Barbaro è morto all’ospedale di Casorate, in quell’hinterland compreso tra Milano e Pavia che era la sua casa e il suo regno.
Il suo funerale, nella piccola Platì, in pieno Aspromonte – poiché quando si muore si torna alle origini – è un evento di quelli che rimangono nella memoria. Ci sono tutti gli esponenti di vertice dei «locali» della Lombardia. E tutti i potenti della Calabria. Come sempre, nella ’ndrangheta, matrimoni e funerali sono occasioni per contarsi. Per vedere chi c’è e chi non c’è.
E c’è anche Peppe Romeo a rendere omaggio al caro estinto e alla sua famiglia. Non in quanto mafioso, ma per rispetto. Con Pasquale aveva condiviso due mesi di cella a Locri, e non era stato neppure facile: il povero Pasquale era ben grasso e russava tutta la notte. E forse per questo è morto di cuore ancora quarantenne.
D’altronde, il rispetto è una cosa seria per un calabrese. «Noi lo usiamo tanto, noi calabresi, il rispetto» mi dice Romeo durante un interrogatorio di garanzia. «Rispetto verso chi mi sta vicino, questo per noi è il rispetto. Noi, in gergo calabrese, quando usiamo quest’espressione “rispetto” noi diciamo che bisogna rispettare anche la terra dove noi ci passiamo sopra...» Anche la terra, se non la rispetti, può pretendere la sua vendetta.
Senza le mediazioni del compianto Pasquale, il criterio di ripartizione della grande torta Perego, gestita dall’emissario dei Pelle Salvatore Strangio, non piace a tutti. Soprattutto non piace a quelli che già prima lavoravano con Perego – come Pasquale Varca e i suoi compari di «locale» – e che ora si trovano nuovi concorrenti che bussano alla porta. Anzi, sono già entrati.
E, a fianco del coriaceo Varca, a manifestare insoddisfazione per il nuovo assetto ci sono anche i giovani cugini Michele (classe 1970) e Michele (classe 1969) Oppedisano. I ragazzi non sono personaggi qualsiasi perché sono imparentati con don Micu Oppedisano. Il vecchio Oppedisano dovrebbe essere niente di meno che una specie di capo dei capi della ’ndrangheta in Calabria. Almeno così ce lo racconta l’operazione «Patriarca». All’ombra del suo agrumeto, don Micu organizza riunioni ’ndranghetiste e istruisce le nuove leve sui valori dell’onorata società.
Il dissidio nasce sulla gestione dell’impresa.
Strangio ha messo, di fatto, al vertice di Pgc l’amico e socio pugliese Andrea Pavone. Pavone, abilissimo creatore delle più strambe ingegnerie societarie e di funamboliche scalate, è l’ex titolare di un bar ristorante nella centralissima zona San Babila di Milano. (A quei tempi era caduto tra gli artigli di una banda di zingari usurai e Strangio gli aveva risolto il «problema», convincendo gli zingari a non presentarsi più a chiedere il conto.)
A Varca e agli Oppedisano Pavone non piace e vorrebbero dei loro rappresentanti nel consiglio di amministrazione della Perego. Dice uno degli Oppedisano: «O fanno come diciamo noi – che caccia quello [Pavone] da tutte le cose – o quelli devono andarsene... Noi abbiamo persone che possono amministrare... noi dobbiamo mettere un amministratore da parte nostra». Più chiaro di così! Neanche a dire che i Perego sulla carta continuano a essere gli amministratori e, nella realtà, non contano più nulla.
Quando nascono problemi ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le fondamenta della città
  3. Introduzione
  4. I. Che cos’è un’organizzazione mafiosa
  5. II. La colonizzazione
  6. III. Lombardia, terra di conquista
  7. IV. Ascesa e caduta di un’impresa mafiosa
  8. V. L’omertà
  9. VI. Un’agenzia di servizi
  10. VII. Fantasmi dal passato
  11. VIII. Panini, panini!
  12. IX. L’incredibile storia di un corriere espresso
  13. X. Il «capitale sociale»
  14. Copyright