«Mi manda Hamok, io sono Peter» dissi all’emaciato spilungone con occhi febbricitanti e la fronte bagnata di sudore. Avvisato da un cameriere, m’era venuto incontro quasi un’ora dopo l’appuntamento fissato per la mezzanotte e mezza. Causa del ritardo era stata una baraonda furiosa scoppiata nel Plavi Gavran, da un momento all’altro, proprio al seguito dell’esibizione del mio collega ballerino.
Io ero arrivato con un certo anticipo nel locale già rigurgitante di clienti rumorosi e allegri. Avevo potuto cogliere così per la coda il numero di Angel Kamber di cui, fra tante persone, certamente nessuna conosceva l’imbarazzante nome in codice datogli dall’Oms. Lo spettacolo, poi brutalmente interrotto dalla rissa, non era stato per me privo di qualche interesse. Un danzatore assai magro, abbigliato in costume spagnolesco, con aderenti pantaloni di raso platinato, fascia scarlatta alla vita, bolero verdognolo tempestato di lustrini, si stava esibendo in una specie di flamenco di fantasia. Piroettava su una pedana di legno, circondata da lampadine accese, percuotendola a colpetti serrati ed eleganti coi tacchi di due appuntite scarpe di lacca. Ogni tanto spiccava un balzo verso l’alto, intrecciava e sbatteva nell’aria due gambe velocissime, lunghe e sottili, come volesse far intendere al pubblico che proveniva dalla migliore danza classica. Ancorché agile, destro, sicuro di sé, sudava abbondantemente e in certi momenti dava l’impressione di reprimere un fastidioso rigurgito di tosse. I musicanti, una mezza dozzina, che ruotavano ai margini della pedana circolare con violini, tamburelli e trombe, evocavano nell’aspetto e nelle mosse un drappello d’insinuanti zingari transilvani piuttosto che gitani andalusi. D’un tratto, sbucata non so da dove, comparve sulla scena una giovane figurante, molto truccata, che con movimenti eccessivi andò ad affiancarsi allo strano e saltellante Trakavica. Unica allusione a una Carmen improbabile era una parrucca fibrosa e luttuosa, color antracite con riflessi metallici, che le ricopriva la testa fino ai sopraccigli. Però non scrocchiava nacchere, non agitava gonne fastose, non esibiva scarpe col tacco alto: era scalza e il suo corpo traspariva da sotto un peplo roseo e svolazzante.
Quando dal girotondo zingaresco si levò, di soprassalto, una vorticosa rapsodia di congedo, la giovane si avvicinò al ballerino e, sorridendo, gli offrì con due dita un lembo del velo. Il ballerino subito l’afferrò e, lanciandosi in un ultimo salto acrobatico, lo tirò e portò con sé nell’aria. L’urlo istantaneo del pubblico, rafforzato da uno scoppio d’applausi e vetri infranti, ne accompagnò il moto volante come se egli stesse sciogliendo e liberando dal telo il simulacro di una divinità pagana. La donna interamente svelata – seni illuminati da un riflettore violento, ombelico popolano un po’ sporgente, perizoma confuso tra i peli del pube – saettò uno sguardo di sfida all’indirizzo della folla urlante e irrequieta nella penombra; poi, di colpo, strappò dalla testa quella parrucca nera e la scagliò con sprezzo invitante, come un feticcio dionisiaco, fra i tavoli in subbuglio. I clienti più adulti ammutolirono, quasi abbagliati da una cascata d’oro corrusco sulle spalle bianche della giovane che appariva ora giovanissima; nello stesso istante i meno adulti, al pari di scapestrati cani da caccia, si precipitavano a rintracciare la parrucca carponi sul pavimento buio.
L’atmosfera scarsamente illuminata (i riflettori non agivano più) parve offrire una complice copertura a quei primi sintomi di un’imminente mischia balcanica. Anche la musica, come i riflettori, aveva cessato di funzionare; i suonatori zingari, sapendo quello che stava per succedere, s’erano prudentemente dileguati. Cercai invano di scoprire l’alato Trakavica in mezzo alle sagome che si stagliavano oscure, sempre più minacciose, fra sedie e tavoli rovesciati. Udii rinnovarsi un forte spicinìo di bottiglie o bicchieri frantumati, vidi poi emergere, dal groviglio, per un attimo, la testa insanguinata di un uomo d’una certa età che cercava di tamponare la ferita con un tovagliolo. Sentii un grido esultante, un grido di vittoria, e spostai immediatamente lo sguardo sulla pedana di legno, che con le lampadine accese tutt’intorno risaltava come un’oasi luminosa al centro del locale. Scorsi allora un trentenne vestito alla moda, il quale, brandendo la parrucca nera, rincorreva per la pedana rimbombante la ragazza ignuda nel tentativo di catturarla come una preda di guerra. Il bellimbusto si fermò ebbro e incerto, con la parrucca dondolante dalla mano, allorché vide la figurante piegarsi e accasciarsi, in un gemito rabbioso, su un orlo della pedana tempestata da un tritume di schegge di vetro. La giovane non si rialzò. Furente rigirò il corpo svestito, alterò il volto truccato in una grinta d’odio e, scagliando una bestemmia atroce, alzò un piede arrossato di sangue e lo puntò verso l’ubriaco che l’aveva inseguita. Impressionato dalla vista del piede squarciato, nonché dalla brutalità con cui la donna l’aveva maledetto, l’inseguitore buttò in un gesto di resa la parrucca all’indietro e fuggì bestemmiando a sua volta.
Qualcuno, dal fondo semibuio, tirò un bicchiere contro l’uomo in fuga. «Vergognati vigliacco! Lasciarti insultare così! Scappare via così da una puttana serba da quattro soldi!» Un’altra voce sovreccitata rispose: «Ma quale serba mai? Non vedete ch’è troppo bionda?». Intervenne una terza voce dubbiosa e aggressiva insieme: «Allora è una delle solite kurbe27 slovene ipocrite? Di quelle che preferiscono farsela coi serbi piuttosto che con i croati?». Obiettò una quarta voce meno esclamativa e più sapiente: «Non sprecate il fiato, uomini di Dio. Una slovena, anche se puttana, è sempre una cattolica e non infangherebbe a quel modo Gesù Cristo. Può darsi che sia musulmana o ebrea. Comunque croata non può essere: anche la peggiore delle croate rispetta il figlio del nostro Signore...». Un’ultima voce pietosa osò suggerire: «Ma che importanza ha se quella povera ragazza, che si guadagna il pane con sudore e sangue, è serba o slovena o musulmana? Non vi accorgete che è ferita e soffre? Diamole una mano e portiamola al pronto soccorso...».
Non so cosa accadde di preciso in quell’istante; la semioscurità diffusa, che avvolgeva il pubblico, non consentiva di distinguere bene i movimenti delle persone. Rammento però che quella voce isolata e stonata, troppo misericordiosa, venne subito sommersa da una canea d’insulti contro i serbi e da certi tonfi sordi e sinistramente regolari: come un ritmato miscuglio di pugni, ansiti, pedate invisibili, che induceva a pensare alla ferocia di un linciaggio sotterraneo.
D’improvviso, in anticipo sulla Polizeistunde28, s’accesero tutte le luci del locale rivelandomi, con abbacinante crudezza, il minuetto teppistico che andava svolgendosi in un angolo della sala sconvolta. Potei vedere, nel fascio proveniente da un riflettore, un gruppuscolo di studenti poco più che ventenni, abbigliati con cura, che ansimando e ridendo calpestavano a calci sincopati un signore dai capelli grigi steso per terra. Cadenzavano i colpi sulla schiena e sui fianchi della vittima, ormai immobile, sgambettando qua e là in una specie di balletto lento e grottesco. Ogni tanto aggiungevano al calcio uno sputo disgustato: il bagliore incandescente, che li centrava in pieno, anziché disturbarli sembrava stimolarne la crudeltà.
S’appalesò d’un tratto, a passi soldateschi, una ronda di quattro tutori dell’ordine richiamati forse dalle urla o da qualche cliente uscito nella strada. Non erano poliziotti ordinari. Bensì gendarmi, di fatto militari serbi o serbizzati col fucile in spalla, il pendrek29 in mano, il kepì alla francese rigido e grigio, con la visiera calata sugli occhi. Li seguiva uno stuolo di camerieri trafelati. Il capo della ronda, un baffuto sergente, si diresse verso i giovinastri eleganti che, vedendolo arrivare, avevano smesso di percuotere l’uomo anziano.
«Chi è il più vecchio di voi?» domandò il sergente deciso e gelido. «Sono io» disse il più spavaldo del gruppo, avvicinandosi al militare e lisciandosi una barbetta biondiccia sotto il mento sporgente. «Se la cosa può interessare» aggiunse con insolenza, «vi dirò che mio padre è un noto avvocato e io stesso sto per prendere la laurea in Legge.» Il silenzio s’era talmente esteso da farmi giungere ogni parola distinta alle orecchie. Vidi il gendarme accennare al corpo immoto ai piedi del laureando, poi lo sentii scandire adagio: «Eccoti un anticipo di laurea per quello là». Pronunciata la frase, puntò in uno scatto fulmineo il pendrek verso la faccia lentigginosa dello studente e gli vibrò un colpo alla gola e un secondo sulla testa bionda. Il giovane nazionalista, barcollando sorpreso e inviperito, prese a inveire contro la Serbia, ma ricevette quasi subito un terzo colpo risolutivo sulla bocca: ammutolì all’istante, vomitando nella mano un fiotto di saliva rosea e alcuni denti spezzati.
«Così imparerà a sputare sulla Serbia e sui serbi» commentò in terza persona il sottufficiale, ripulendo compiaciuto il manganello sull’avambraccio della giubba grigioverde; quindi impartì con calma un paio d’ordini e di osservazioni ai subordinati: «Ammanettatelo, quell’ottimo figlio di avvocati. Porteremo soltanto lui in caserma. Lo metteremo in cella di punizione e, con la nostra testimonianza, lo faremo processare per istigazione politica all’omicidio: il verdetto servirà da esempio anche a questi suoi compagni e complici che, vedete?, tremano e non aprono bocca». Dopodiché si rivolse all’Ober dei camerieri che avevano assistito frastornati e mansueti alla scena: «Smettetela di starmi addosso come statue inutili. Muovetevi, su, muovetevi!». Agitò sbrigativamente il pendrek sopra l’uomo per terra, quello calpestato dagli studenti, che aveva già lanciato con una mano tremante due deboli segni di vita. «Raccoglietelo, non sembra ancora morto, poi pensate a quella là che rischia di finire dissanguata.» Si girò con energia indicando all’Ober, quasi assente, la ragazza nuda e sempre aggattata sulla pedana col piede strisciante in una pozza di sangue. «Su, alzatela, e almeno disinfettatela. Vi farò mandare d’urgenza un’ambulanza militare per il trasporto del vecchio e della giovane all’ospedale. Ma ora, svelti, correte ad aiutare i feriti!»
Gli studenti superstiti, lasciati chissà perché liberi, ma privati del caporione dal mento spavaldo, saltarono sulle poche sedie rimaste in piedi e, in spregio ai gendarmi, intonarono un inno tratto dall’opera Zrinski. I militari serbi non diedero molto peso a quel coro decapitato; il sergente, prima di andarsene, convocò per l’ultima volta l’Ober per dirgli che gli elettricisti potevano riabbassare le luci e lo spettacolo poteva continuare. Tornarono le mezzeluci usuali. Il flebile coro dopo un poco cessò, gli animi si placarono, come se niente fosse accaduto: come se il tumulto, esploso in quella fulminea rissa, fra patriottarda e orgiastica, non fosse stato che una consueta turbolenza meteorologica nel clima instabile della città. Risentii nella penombra avvolgente echeggiare brindisi e risate. Nulla, davvero nulla, sembrava accaduto.
Fu allora che mi trovai difronte, quasi emerso da un dipinto di Goya, il Trakavica sudato in costume di torero settecentesco. Alla mia parola d’ordine («Mi manda Hamok, io sono Peter») rispose con una voce stanca, imperturbabile, lievemente acida: «Il mio vero nome, che si può leggere nella bacheca con foto all’ingresso, è Angel Zoran Kamber. Suona straniero, ma sono montenegrino; basterà d’ora in poi che mi chiami Angel, o Anđeo. M’hanno avvertito che sei qui dalla mezzanotte. Scusami il ritardo, ma hai visto quello che è successo sulla fine del mio numero: questo, per nostra fortuna, è il clima di Zagabria ed è su questo che dovremo operare».
Mi sforzai di conferire ai miei occhi uno sguardo inespressivo, come se l’incomoda questione di nomi e soprannomi mi fosse ignara o del tutto indifferente. Il ballerino si portò alle labbra una mano affilata, molto pallida e, volgendo educatamente la testa di lato, emise un misurato colpetto di tosse. «Siamo già oltre l’una e non vorrei farti restare un’altra mezz’ora in piedi. Mi spiace presentarmi in questo ridicolo costume di lavoro, adesso vado a cambiarmi. Tu intanto aspettami qui, nel bar, non scendere fra i tavoli scompigliati attorno alla pedana. Non ti conoscono e potrebbero attaccare briga.» Con un cenno m’indicò un angolo, a lato del bar sopraelevato, che una breve scalinata marmorea separava dalla pedana e dalla sala del pubblico. «Ho riservato quel tavolino appartato per noi due. Siedi e ordina pure. Ho già detto ai camerieri di mettere tutto sul mio conto.»
Ritornò, prima del previsto, in un modesto abito marroncino con camicia scura e cravatta d’indefinibile tinta unita. Fumava, tossicchiando, una sigaretta bruna di tipo francese. Non v’era più traccia del ballerino andaluso con bolero e lustrini. Aveva assunto le sembianze di un generico e scontento intellettuale di sinistra; lo si sarebbe potuto immaginare benissimo, anziché in un cabaret mitteleuropeo, in qualche storico ritrovo bohémien della Rive Gauche. Io, dopo aver rifiutato lo champagne di marca suggeritomi in un bisbiglìo dal cameriere, stavo sorseggiando una birra e finendo una zuppa carica di paprika e grumi di carne tenera e scura. Angel, invece, appena seduto ordinò una bottiglia di Vugava, rinomato vino bianco dell’isola di Lissa.
La sua età, piuttosto sfumata, poteva aggirarsi fra i trenta e i trentacinque. Il viso tagliente, molto stretto, nel quale gli occhi febbrili non sembravano trovare spazio adeguato per muoversi, mi riappariva senza cerone ancora più emaciato che nei primi istanti dell’incontro. Un pomo d’Adamo appuntito gli fuorusciva dalla camicia, accentuando l’estrema magrezza di un corpo in cui, non a caso, gl’insolenti burocrati di Mosca avevano intravvisto il lavorìo di un inestirpabile verme solitario. Un ennesimo colpo di tosse, rafforzato dal fumo, doveva però indurmi al sospetto e, di lì a poco, alla certezza che il verme non s’annidasse nelle budella, bensì nei polmoni dell’agente montenegrino. La tubercolosi era allora molto diffusa in diverse plaghe balcaniche.
Seppi dalle sue parole ch’era nato sulla costa adriatica, nella cittadina portuale di Bar, la fortificata Antivari veneziana, da un padre militare proveniente dall’interno e una madre cattarina, quindi dalmata come me. «Sì, Cattaro, con le sue Bocche famose» precisò, «più Dalmazia che Montenegro o, se vuoi, più Montenegro che Dalmazia: dovresti saperne qualcosa anche tu.» In verità ne sapevo più di “qualcosa” e, tacendo un po’ turbato, pensai ai leggendari capitani bocchesi di Perasto e al mio bisnonno materno che fra l’altro era stato nonno dello “zio Milan”. Angel vuotò un bicchiere di Vugava, e con disinvoltura strana, assai insolita per un cospiratore, come se parlasse di qualcuno che non era più lui, si lasciò andare a ulteriori pennellate autobiografiche. M’informò che la madre cattarina, invece di seguire il marito dedito alle armi, aveva preferito restare a Bar dove, un anno dopo la sua nascita, aveva aperto una fortunata scuola di danza classica. Agli inizi del secolo era stata addirittura chiamata a Cetinje ad insegnare il ballo alle figlie del re. «Mi condusse ragazzo con lei, in quella rustica corte montanara, sperando che l’aria d’altitudine potesse giovare ai miei polmoni. Assieme alle giovani principesse facevo lunghe escursioni fra dirupi, cascate, foreste, aquile maestose. Visioni degne del poema del grande Njegoš! Il cui spirito, la cui indomita epica omerica, puoi immaginare, permeava ogni angolo della reggia modesta, arricchiva ogni pensiero della generosa famiglia reale. Il paesaggio duro, l’aria pura, le salutari gite con le principesse, in effetti irrobustirono la mia salute almeno fino ai tempi della vita parigina.»
Trangugiò di colpo, sospinto dal ricordo, un bicchiere di vino. Nella pausa mi sfuggì di bocca una domanda spontanea quanto banale: «Ma come sei potuto passare da quella affabile e accogliente famiglia reale al comunismo?».
Il “compagno Trak”, chiamato così, con indulgente ironia, da Hamok, estrasse dal pacchetto azzurro la terza o quarta Gauloise; l’accese, trattenne il fumo in bocca, poi adagio lo esalò insieme con poche parole: «Non correre troppo. Allora ero soltanto un ragazzo. Il bello e il brutto dovevano ancora venire».
«Anche il brutto?» feci con aria discreta ma partecipe.
«Sì, anche quello.» Quindi si lasciò trascinare da altri ricordi. «Il Montenegro tribale, guerriero, più legato alla Serbia, venerato da mio padre, che negli ultimi Petrović vedeva una dinastia da operetta, non piaceva invece per niente a mia madre dedita al culto della musica e del ballo. Subito dopo il conflitto, nei primi mesi del ’19, aveva divorziato e raggiunto i Petrović, che la consideravano ormai di famiglia, nel loro dignitoso e muto esilio a Parigi. Agli occhi dei francesi, abbagliati e come accecati dall’epopea di Salonicco, la Serbia e il Montenegro erano tutt’uno; non andavano troppo per il sottile; non distinguevano, o non volevano distinguere, ciò che nella guerra contro gli austriaci aveva affratellato i montenegrini ai serbi da ciò che nel dopoguerra, ingiusto e umiliante, aveva diviso la piccola monarchia di Cetinje da quella egemone di Belgrado. Petrović era diventato sinonimo di Karadjordjević. Fu così che la Francia di Versailles, levatrice daltonica della nascente Jugoslavia, dimenticò il sangue versato dai montenegrini riducendo la loro terra, privata del suo re, a un buco sperduto nel letamaio balcanico. I presuntuosi letterati del Quai d’Orsay non riuscirono a percepire nell’incrinatura fra le due dinastie gemelle, quasi indistinguibili l’una dall’altra, il primo atto nefasto e preludio dell’immane disastro jugoslavo. Consideravano il trasloco forzato, in terra francese, del destituito Nicola Petrović come un gesto di reverenza e sottomissione stoica al giudizio della storia che aveva decretato, nei luoghi strappati all’Austria e all’Ungheria, il trionfo solitario di Pietro Karadjordjević. Non a caso, pur accogliendo l’esule montenegrino, i francesi decisero d’immortalare l’eroico alleato serbo dedicandogli uno dei più importanti boulevard di Parigi.»
«Ma tu, a quell’epoca, non eri più un ragazzo. Quanti anni avevi?»
Disse mesto e indifferente: «All’incirca la tua età. Non avevo però seguito i desideri del padre, già in crisi matrimoniale anche per causa mia. Il colonnello filoserbo del dissolto esercito montenegrino, decorato al valore dopo Salonicco, promosso generale nel nuovo esercito jugoslavo, avrebbe voluto sottrarre il figlio alla danza ch’egli disprezzava e metterlo all’Accademia militare di Belgrado. Io, consigliato dalla mamma, rifiutai e perseverai con successo nel balletto sui palcoscenici croati e sloveni. Mio padre ci ripudiò entrambi, sentenziando: “Un montenegrino che non usa le mani per sparare ma i piedi per ballare non è più un vero montenegrino: è soltanto uno zingaro”».
Lo interruppi incuriosito: «Cosa c’entra tutto questo con la tua vita parigina?».
«C’entra, abbi pazienza, eccome se c’entra! Ti ho detto che la mamma, divorziata, era espatriata in Francia ove si dava da fare pensando al mio futuro. Il giorno in cui un principe della corte di Cetinje in esilio, che vedeva in mia madre quasi una parente, mi scrisse invitandomi a prendere il treno per Parigi, non potei certo tirarmi indietro. Influenti protettori francesi dei Petrović, sollecitati dal principe, erano riusciti ad assicurarmi un ruolo nel corpo di ballo dell’Opéra. Fu per me una delle stagioni teatrali più fortunate e più intense. Mi specializzai nella Carmen di Bizet come partner della sigaraia gitana, il mio nome apparve sui cartelloni, ottenni perfino la cittadinanza onoraria per meriti artistici.»
Qui s’arrestò, dando al suo volto lungo e stretto un’espressione sdoppiata tra la nostalgia e l’amarezza. Rifletté a lungo, con la sigaretta in bocca, prima di mormorare lentamente: «Ma la svolta decisiva, la svolta esistenziale, si compì quando persi la testa per una ballerina comunista che aveva un paio d’anni più di me: indottrinato e influenzato da lei, entrai nel partito francese appena fondato a Lione. Quel mio strappo estremistico, quella rottura, diciamo pure, al tempo in cui la Čeka sterminava gli aristocratici e perseguitava perfino i menscevichi, non poteva che suscitare stupore e scandalo nella cerchia conservatrice dei Petrović e dei russi bianchi che frequentavano. Il principe che mi aveva chiamato a Parigi non volle vedermi più. Mia madre, già in età e in difficoltà con la salute, subì il colpo più cocente allorché venne a sapere...