
- 3,572 pagine
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La parte di Guermantes
Informazioni su questo libro
Ne La parte di Guermantes, edito tra il 1920 e il 1921, il Narratore fa il proprio ingresso nel "bel mondo" che, con i suoi riti e i suoi miti, le soirée, i pranzi, i palchi all'Opéra, occupa tanta parte del libro. È la storia di un disinganno, quello della snobistica attrazione per l'aristocrazia; un lungo, rarefatto racconto capace di esaltare la "poesia perduta" della nobiltà e svelarne insieme la sterile frivolezza. Ma anche di approdare, soprattutto grazie al personaggio del barone di Charlus che introduce in maniera vibrante il tema erotico, a una dimensione che trascende la mondanità per giungere a profonde rivelazioni esistenziali.
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
ClassiciLa parte di Guermantes
I

All’età nella quale i Nomi, offrendoci l’immagine dell’inconoscibile che vi abbiamo infuso, nel momento stesso in cui designano per noi anche un luogo reale, ci costringono in tal modo a identificare l’uno con l’altro, tanto che ci rechiamo in una città alla ricerca di un’anima di cui questa non può certo costituire l’involucro, ma che non è più in nostro potere espellere dal suo nome, non è soltanto alle città e ai fiumi ch’essi attribuiscono, come i dipinti allegorici, un’individualità, non è soltanto l’universo fisico ch’essi screziano di differenze e popolano di meraviglioso, ma anche l’universo sociale: ogni castello, allora, ogni famoso palazzo o residenza ha la sua regina o la sua fata, così come le foreste hanno i loro geni, e le loro divinità le acque. A volte la fata, nascosta in fondo al proprio nome, si trasforma seguendo l’evolversi della nostra immaginazione, che la nutre; allo stesso modo, l’atmosfera nella quale Madame de Guermantes esisteva dentro di me cominciava – dopo essere stata, per anni, nient’altro che il riflesso d’una lastra di lanterna magica o d’una vetrata di chiesa – a spegnere i suoi colori, quando ben altri sogni l’intrisero della schiumosa umidità dei torrenti.
Tuttavia, se ci accostiamo alla persona reale cui corrisponde il suo nome, la fata deperisce, giacché quella persona, allora, il nome comincia a rifletterla, e in lei non c’è niente della fata; questa può rinascere se ci allontaniamo da quella; ma se le restiamo accanto, la fata muore definitivamente, e con lei il nome, come quella famiglia Lusignano che avrebbe dovuto estinguersi il giorno in cui fosse scomparsa la fata Melusina. Allora il Nome, sotto le cui successive ridipinture potremmo finire col trovare il bel ritratto originario d’una straniera mai vista prima, si riduce a una semplice carta fotografica d’identità alla quale facciamo riferimento per sapere se conosciamo, se dobbiamo o no salutare una persona di passaggio. Ma basta che una sensazione di un anno lontano – simile a quegli strumenti musicali capaci di conservare, come li avessero registrati, la sonorità e lo stile dei vari artisti che li suonarono – consenta alla nostra memoria di farci riudire quel nome con il timbro particolare con cui s’offriva allora al nostro orecchio ed ecco che, immutato in apparenza quel nome, avvertiamo tutta la distanza fra l’uno e l’altro dei sogni di cui le sue sillabe identiche sono state per noi, in tempi successivi, portatrici. Per un attimo, dal riascoltato accento ch’esso aveva in quella certa, remota primavera, possiamo estrarre, come dai tubetti utilizzati per dipingere, la sfumatura giusta, obliata, misteriosa e fragrante dei giorni che ci era parso di ricordare quando, come i cattivi pittori, davamo al nostro passato disteso per intero su un’unica tela le tonalità convenzionali, e tutte simili fra loro, della memoria volontaria. Ora, ciascuno dei momenti che lo composero impiegava invece in un’armonia senza pari, per una creazione originale, i colori di quel tempo, che noi non conosciamo più e che, ad esempio, ancora mi rapiscono all’improvviso se, per combinazione, riacquistando per un istante, dopo tanti anni, il suono – oggi così diverso – con cui giungeva al mio orecchio nel giorno del matrimonio di Mademoiselle Percepied, il nome Guermantes mi restituisce quel mauve così dolce, troppo brillante, troppo nuovo, che vellutava la cravatta mollemente rigonfia della giovane duchessa e, simili a una pervinca inattingibile e rifiorita, i suoi occhi soleggiati da un azzurro sorriso. Ed è anche, il nome Guermantes d’allora, come uno di quei palloncini in cui è stato immesso dell’ossigeno, o un altro gas: quando riesco a farlo scoppiare, a farne uscire il contenuto, respiro l’aria di Combray in quell’anno, in quel giorno, mista a un profumo di biancospini trasportato dal vento che veniva dall’angolo della piazza ad annunciare la pioggia e, alternativamente, faceva sparire il sole o lasciava che si stendesse sul tappeto di lana rossa della sacrestia rivestendolo d’un incarnato acceso, quasi roseo, da geranio, e di quella dolcezza, che si potrebbe dire wagneriana, nell’esultanza, grazie alla quale le feste conservano tanta nobiltà. Ma anche prescindendo da questi rari minuti, durante i quali sentiamo l’entità originale trasalire bruscamente e riprendere la sua forma e la sua cesellatura all’interno di sillabe ormai morte, se nel turbine vertiginoso della vita quotidiana, dove si sono ridotti a un’utilità puramente pratica, i nomi hanno perduto ogni colore, come una trottola prismatica che prilla così vorticosamente da sembrarci grigia, in compenso, quando nelle nostre fantasticherie, nelle nostre meditazioni, ci sforziamo, per recuperare il passato, di rallentare, di sospendere il moto perpetuo che ci trascina, vediamo a poco a poco riaffiorare, giustapposti ma perfettamente distinti l’uno dall’altro, i colori che un medesimo nome ci ha via via presentati nel corso della nostra esistenza.
Certo, quale forma si profilasse ai miei occhi nel nome Guermantes quando la mia balia – che sicuramente ignorava, come io stesso oggi ignoro, in onore di chi fosse stata composta – mi cullava con la vecchia canzone Gloria alla marchesa di Guermantes, o quando, alcuni anni dopo, ai Champs-Élysées, il vecchio maresciallo di Guermantes, colmando d’orgoglio la mia domestica, si fermava a commentare: «Che bel bambino!» e, tratta di tasca una bomboniera, mi offriva una pastiglia di cioccolato, questo non lo so dire. Gli anni della mia prima infanzia non sono più dentro di me, mi rimangono esterni, non posso apprenderne nulla, come di ciò che è avvenuto prima della nascita, se non dai racconti degli altri. Ma più tardi, nella durata in me di quello stesso nome, trovo disposte in successione sette o otto figure diverse; le prime erano le più belle: a poco a poco, spinto dalla realtà ad abbandonare una posizione indifendibile, il mio sogno veniva via via attestandosi un po’ più in qua, finché non fosse costretto a ripiegare ulteriormente. E, con Madame de Guermantes, si trasformava in pari tempo la sua dimora, generata anch’essa dal medesimo nome che questa o quella parola, il cui ascolto sopraggiungeva a modificare le mie fantasie (riflesse dalla dimora nelle sue stesse pietre, fattesi specchianti come la superficie d’una nube o d’un lago), d’anno in anno fecondava. Un torrione privo di spessore, nient’altro che una striscia di luce aranciata, dall’alto del quale il signore e la sua dama decidevano della vita e della morte dei loro vassalli, aveva ceduto il posto – ai confini estremi di quella “parte di Guermantes” dove, in tanti pomeriggi sereni, seguivo con i miei genitori il corso della Vivonne – al territorio ricco di torrenti dove la duchessa mi insegnava a pescare la trota e a dare un nome ai fiori dai grappoli violacei e rossastri che ornavano le basse recinzioni delle tenute circostanti; poi era stata la volta della terra ereditaria, del poetico dominio dove la razza altera dei Guermantes, simile a una torre che, biondeggiante di rosoni, avanzi attraverso i secoli, svettava già sulla Francia quando ancora il cielo era vuoto là dove, in seguito, sarebbero sorte Notre-Dame di Parigi e Notre-Dame di Chartres; quando sulla cima della collina di Laon la navata della cattedrale non s’era ancora posata come l’Arca del Diluvio sulla cima del monte Ararat, gremita di Patriarchi e di Giusti che ansiosamente si sporgono dalle finestre per vedere se la collera divina si sia placata, carica di tutti i tipi di vegetali destinati a moltiplicarsi sulla terra, straripante di animali che sbucano persino dalle torri dove qualche bue, passeggiando tranquillamente sulla copertura dell’edificio, contempla dall’alto le pianure della Champagne; quando il viaggiatore che, sul finire del giorno, lasciava Beauvais, non vedeva ancora le ali nere e ramificate della cattedrale seguirlo volteggiando, spiegate contro il sipario d’oro del tramonto. Era, il Guermantes d’allora, come la cornice d’un romanzo, un paesaggio immaginario che tanto più desideravo di scoprire quanto più duravo fatica a rappresentarmelo, incuneato fra terre e itinerari reali che tutt’a un tratto, a due leghe da una stazione ferroviaria, s’impregnavano di particolarità araldiche; ricordavo i nomi delle località contigue come se queste si fossero trovate ai piedi del Parnaso o dell’Elicona, e mi sembravano preziose come – nell’ambito della scienza topografica – le condizioni materiali legate al prodursi di un fenomeno misterioso. Rivedevo gli stemmi dipinti sui basamenti delle vetrate di Combray, i cui quarti s’erano riempiti, secolo dopo secolo, di tutte le signorie che l’illustre casata aveva fatto volare a sé, per via di matrimoni o acquisizioni, da ogni angolo di Germania, Italia e Francia: immensi territori del Nord, potenti città del Mezzogiorno, venuti a congiungersi e combinarsi in Guermantes e ad iscrivere allegoricamente nel suo campo azzurro, perdendo la propria materialità, un torrione verde smalto o un castello d’argento. Avevo sentito parlare dei celebri arazzi di Guermantes e li vedevo, medievali e turchini, un po’ grezzi, stagliarsi come una nube sul leggendario amaranto del nome, ai piedi dell’antica foresta dove così spesso cacciò Childeberto, e quella misteriosa profondità delle terre, quella lontananza dei secoli, mi sembrava che avrei potuto penetrarne, come viaggiando, i segreti, se solo mi fosse riuscito d’avvicinare un istante, a Parigi, Madame de Guermantes, sovrana del luogo e signora del lago, quasi che il suo volto e le sue parole dovessero necessariamente possedere lo specifico incanto delle fustaie e delle rive e le medesime, secolari particolarità dell’antica raccolta di norme consuetudinarie conservata nei suoi archivi. Ma, a quel tempo, avevo conosciuto Saint-Loup; da lui avevo saputo che il castello si chiamava Guermantes soltanto dal XVII secolo, quando la famiglia l’aveva acquisito. Prima, essa aveva avuto la propria residenza lì vicino, e il suo titolo non veniva da quella regione. Il villaggio di Guermantes aveva preso nome dal castello presso il quale era stato costruito, e una servitù rimasta in vigore regolava il tracciato delle strade e limitava l’altezza delle case per non alterarne le prospettive. Quanto agli arazzi, erano di Boucher, li aveva comprati, nel XIX secolo, un Guermantes appassionato d’arte, e stavano appesi, accanto a mediocri scene di caccia da lui stesso dipinte, in un orripilante salotto drappeggiato di raso rosso e di peluche. In seguito a queste rivelazioni, con cui Saint-Loup aveva introdotto nel castello elementi estranei al nome Guermantes, non mi fu più possibile continuare ad estrarre unicamente dalla sonorità delle sillabe la muratura degli edifici. Scomparso in fondo al nome il castello riflesso nel lago, intorno a Madame de Guermantes m’era apparsa come sua dimora la residenza di Parigi, il palazzo Guermantes, limpido come il suo nome, senza nessun elemento opaco e materiale che ne interrompesse e offuscasse la trasparenza. Come “chiesa” non designa solo il tempio, ma anche la comunità dei fedeli, così “palazzo Guermantes” comprendeva tutti coloro che partecipavano della vita della duchessa; ma questi intimi, che non avevo mai visti, non erano per me che nomi celebri e poetici, e dal momento che conoscevano unicamente persone le quali erano, a loro volta, semplici nomi, non facevano che ampliare e proteggere il mistero della duchessa, stendendole tutt’intorno un vasto alone che, al massimo, andava gradatamente sfumando.
Nelle feste che dava Madame de Guermantes, poiché non immaginavo per gli invitati né corpo, né baffi o stivaletti, né frase pronunciata che fosse, non dico banale, ma nemmeno originale nel senso umano e razionale del termine, il turbinio dei nomi – non raccogliendo, intorno a quella statuetta di porcellana di Saxe che era la duchessa, più materia d’una cena di fantasmi o d’un ballo di spettri – conservava al suo palazzo di vetro la trasparenza d’una bacheca. In seguito, dopo che Saint-Loup m’ebbe raccontato alcuni aneddoti relativi al cappellano, ai giardinieri di sua cugina, il palazzo Guermantes era diventato – così come, un tempo, poteva esserlo stato un Louvre – una sorta di castello circondato, nel centro stesso di Parigi, dalle sue terre, posseduto a titolo ereditario in virtù d’un antico diritto bizzarramente sopravvissuto, e sulle quali la duchessa esercitava ancora privilegi feudali. Ma quest’ultima dimora era a sua volta svanita quando eravamo venuti ad abitare vicinissimo a Madame de Villeparisis, in uno degli appartamenti confinanti con quello di Madame de Guermantes, in un’ala del suo palazzo. Era una di quelle vecchie dimore come, forse, ne esiste ancora qualcuna, il cui cortile d’onore – si trattasse di detriti accumulati dall’alluvione della democrazia o di lasciti di tempi più antichi, quando i diversi mestieri gravitavano intorno al signore – aveva spesso, sui lati, dei retrobottega, dei laboratori, se non addirittura qualche botteguccia di calzolaio o di sarto, simili a quelle che si vedono addossate ai fianchi delle cattedrali che l’estetica degli ingegneri non ha ancora “ripulite”, o un portiere ciabattino che allevava polli e coltivava fiori – e in fondo, nella parte della costruzione che “faceva palazzo”, una “contessa” che quando usciva nel suo vecchio calesse a due cavalli (col cappellino ingentilito da qualche nasturzio appena scappato, si sarebbe detto, dal giardinetto della portineria e, accanto al cocchiere, un lacchè incaricato di distribuire biglietti da visita con l’angolo ripiegato in tutti i palazzi aristocratici del quartiere) elargiva indistintamente sorrisi e lievi cenni di saluto ai figli del portiere e ai locatari borghesi dello stabile che passassero in quell’istante e di cui lei, nella sua sdegnosa affabilità e nel suo sussiego egualitario, faceva un sol fascio.
Nella casa dove ci eravamo trasferiti, la gran dama in fondo al cortile era una duchessa, elegante e ancora giovane. Era Madame de Guermantes – e, grazie a Françoise, non tardai a entrare in possesso di informazioni sul palazzo. Infatti i Guermantes (cui Françoise si riferiva spesso con le locuzioni “di sotto”, “da basso”) costituivano la sua costante preoccupazione dal mattino, quando – pettinando mia madre – lanciava un’occhiata proibita, irresistibile e furtiva in cortile, per poi commentare: «To’, due suore; vanno sicuro “di sotto”», oppure: «Che belli quei fagiani alla finestra della cucina! Inutile chiedere da dove divengono, il duca sarà stato a caccia», fino alla sera, quando, se nel portarmi l’occorrente per la notte sentiva un rumore di pianoforte, un’eco di canzonette, ne deduceva: «“Da basso” hanno gente, c’è allegria»; allora nel suo viso regolare, sotto i capelli ormai bianchi, un sorriso della sua giovinezza, animato e dignitoso, metteva ben a posto, per un istante, ciascuno dei suoi tratti, armonizzandoli in un ordine fine e un po’ affettato, come per una contraddanza.

Compiuti gli ultimi riti, Françoise – che era ad un tempo, come nella chiesa primitiva, il celebrante e uno dei fedeli – si versava un ultimo bicchiere di vino, si slacciava dal collo il tovagliolo, lo piegava tergendosi dalle labbra una traccia d’acqua tinta e di caffè, l’infilava in un anello, ringraziava con sguardo dolente il “suo” giovane lacchè che per fare lo zelante le diceva: «Suvvia, signora, ancora un po’ d’uva; è schisita» e s’affrettava...
Indice dei contenuti
- Copertina
- di Marcel Proust
- La parte di Guermantes
- Nota introduttiva
- I Guermantes, o il fascino dell’inautentico di Luciano de Maria
- Breve nota sulle allusioni e i preannunci del tema omo-erotico nei “Guermantes”
- LA PARTE DI GUERMANTES
- La parte di Guermantes I
- La parte di Guermantes II
- Argomento del volume a cura di Giovanni Raboni
- Copyright