Vestivamo alla marinara
eBook - ePub

Vestivamo alla marinara

  1. 238 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Vestivamo alla marinara

Informazioni su questo libro

Gli Agnelli. I principi dell'industria italiana. Una famiglia in cui non è facile essere bimbi, adolescenti, giovani. Lo ricorda bene Susanna Agnelli in questo vivacissimo libro di memorie, che è, a un tempo, una suggestiva raccolta di memorie famigliari e un brillante affresco dell'alta società negli anni Trenta e Quaranta.

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SUSANNA AGNELLI

VESTIVAMO
ALLA MARINARA

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Vestivamo alla marinara

Ai miei figli


Maybe that’s all understanding
is: a terrific familiarity.

Avvertenza

Quando un editore inglese mi ha chiesto di scrivere un libro, non sapevo che chiede di scrivere un libro ad ogni donna che incontra.
In realtà, l’editore voleva un libro sul fascismo o sulla vita di una famiglia ricca durante l’Italia fascista.
Si dà il caso che sono nata nel 1922, l’anno in cui Mussolini è salito al potere, e che mi sono sposata nel 1945, anno in cui il fascismo è stato debellato con la fine della guerra e la morte di Mussolini.
Così il libro è diventato la storia della mia vita durante gli anni del fascismo. Ma credo che il mio editore inglese ne sia rimasto deluso.
Si aspettava più scandali, più pettegolezzi, più nomi.
Ho scritto quello che mi ricordavo, usando, nello scrivere, il linguaggio che mi è abituale nel parlare. Qualche volta ho raccontato episodi che mi erano stati riferiti, anche se, più tardi, ho scoperto che non corrispondevano alla realtà. Come, per esempio, che Axel Munthe aveva chiesto a mia nonna, Princess Jane, di smettere di bere. Non è vero, ma da bambina era quello che pensavo.
Mi hanno fatto osservare che non accenno mai al fatto che mio nonno abbia fondato la Fiat nel 1899. Su di lui sono stati scritti libri pieni di date e fatti. Per me era “il nonno” o “il Senatore”, come la principessa di Trabia era la nonna di Raimondo, e Malaparte era un uomo che voleva bene a mia madre.
Questa è la mia vita come la ricordo fino al giorno in cui mi sono sposata.

I

Il corridoio era lungo, a destra e a sinistra si aprivano le camere da letto. A metà corridoio c’era la camera da gioco dove stavamo quasi sempre, piena di scaffali e di giocattoli. Noi eravamo tanti e avevamo molte governanti che non si amavano fra di loro: sedevano nella camera da gioco e si lamentavano del freddo, del riscaldamento, delle cameriere, del tempo, di noi. D’inverno le lampadine erano sempre accese; la luce di Torino che entrava dalle finestre era grigia e spessa.
Vestivamo sempre alla marinara: blu d’inverno, bianca e blu a mezza stagione e bianca in estate. Per pranzo ci mettevamo il vestito elegante e le calze di seta corte. Mio fratello Gianni si metteva un’altra marinara. L’ora del bagno era chiassosa, piena di scherzi e spruzzi; ci affollavamo nella camera da bagno, nella bagnarola, e le cameriere impazzivano. Ci spazzolavano e pettinavano i capelli lunghi e ricci, poi li legavano con enormi nastri neri.
Arrivava Miss Parker. Quando ci aveva radunati tutti: «Let’s go» diceva «e non fate rumore.» Correvamo a pazza velocità lungo il corridoio, attraverso l’entrata di marmo, giravamo l’angolo appoggiandoci alla colonnina dello scalone e via fino alla saletta da pranzo dove ci fermavamo ansimanti. «Vi ho detto di non correre,» diceva Miss Parker «one day vi farete male e la colpa sarà soltanto vostra. A chi direte grazie?»
Ci davano da mangiare sempre quello che più odiavamo; credo che facesse parte della nostra educazione britannica. Dovevamo finire tutto quello che ci veniva messo sul piatto. Il mio incubo erano le rape e la carne, nella quale apparivano piccoli nervi bianchi ed elastici. Se uno non finiva tutto quello che aveva nel piatto se lo ritrovava davanti al pasto seguente.
Il dolce lo sceglievamo a turno, uno ogni giorno. Quando era la volta di Maria Sole noi le dicevamo «Adesso, per l’amor del cielo, non scegliere “crème caramel” che nessuno può soffrire». Invariabilmente Miss Parker chiedeva: «So, Maria Sole, che dolce, domani? It’s your turn». Maria Sole esitava, arrossiva e sussurrava: «Crème caramel».
«Ma perché continui a dire “crème caramel” se non ti piace?»
«Non mi viene in mente nient’altro.»
Ancor oggi non ho scoperto se quella dannata “crème caramel” le piacesse davvero e non osasse ammetterlo o se fosse troppo grande lo sforzo di pensare a un altro dolce.
Dopo colazione facevamo lunghe passeggiate. Attraversavamo la città fino a piazza d’Armi, dove i soldati facevano le esercitazioni. Soltanto se pioveva ci era permesso camminare sotto i portici (i famosi portici di Torino) e guardare le vetrine dei negozi. Guardarle senza fermarsi, naturalmente, perché una passeggiata è una passeggiata e non un trascinarsi in giro che non fa bene alla salute.
Torino era, anche allora, una città nota per le sue pasticcerie. Nella luce artificiale delle vetrine apparivano torte arabescate, paste piene di crema, cioccolatini, marzapani, montagne di brioches, fondants colorati disposti in tondo sui piatti come fiori, ma noi non ci saremmo mai sognati di poter entrare in un negozio a comprare quelle tentatrici delizie. “Non si mangia tra i pasti; it ruins your appetite” era una regola ferrea che mai ci sarebbe venuto in mente di discutere.
Così camminavamo dalle due alle quattro, paltò alla marinara e berrettino tondo alla marinara con il nome di una nave di Sua Maestà Britannica scritta sul nastro, Miss Parker in mezzo a due di noi da una parte e uno o due di noi dall’altra finché non era l’ora di tornare a casa.
Guardavamo con invidia i bambini a cui era permesso giocare sui viali di corso Duca di Genova o ai giardini pubblici. C’erano gruppi di balie con la sottana colorata, il grembiule di pizzo e il fazzoletto di seta lucente tenuto in testa con gli spilloni di filigrana d’oro. Portavano tutte la stessa giacchetta di coniglio nero che faceva parte del corredo cui avevano diritto quando entravano in una famiglia a dare il latte al nuovo bebè; poi finivano col fare la balia asciutta. I bebè stavano seduti in carrozzina, i bambini più grandi giocavano tra di loro, avevano il cerchio, le biglie, il monopattino; avevano amici, bisticciavano, parlavano, saltellavano, gridavano. Noi camminavamo.
Miss Parker disapprovava le balie che tiravano giù le mutandine ai bambini e facevano “Pss, pss”, tenendoli per le gambe contro un albero.
Qualche famiglia aveva la signorina inglese. In questo caso Miss Parker non voleva che giocassimo con bambini i cui genitori non erano ricevuti a casa nostra. «Don’t forget you are an Agnelli» aggiungeva.
Alle quattro tornavamo a casa, facevamo i compiti, giocavamo. Mentre aiutavo Gianni a sistemare la locomotiva a vapore o il treno elettrico mi veniva il terrore del buio e della notte che si avvicinava.
Vedevamo i nostri genitori finito il nostro pranzo, mentre si preparavano per il loro. Qualche volta, se non avevano troppi invitati, sedevamo con loro in biblioteca finché il pranzo non era servito. E qualche volta ci veniva perfino permesso di sedere intorno alla tavola. Ma siccome giocavamo con la cera delle candele e diventavamo noiosi ci mandavano subito via. Di ritorno in camera da gioco Miss Parker ci leggeva ad alta voce un racconto, o facevamo un gioco, finché: «Time for bed now» diceva Miss Parker «lavatevi i denti e verrò tra dieci minuti a darvi la buona notte; ricordatevi di piegare i vestiti e di dire le preghiere» .Mi inginocchiavo in camera da letto e pregavo disperatamente. Baciavo il Crocifisso e la Madonna accanto al mio letto e chiedevo soltanto di non avere troppa paura e di poter dormire senza svegliarmi durante la notte.
Entravo nel letto. Avevamo una camera per uno, e quando Miss Parker entrava le buttavo le braccia intorno al collo, la stringevo e la supplicavo di lasciare la mia porta aperta “soltanto un pochettino”, così che potessi vedere la luce. «No, no,» rispondeva calma «devi imparare a dormire al buio, è silly avere paura.»
Quando se ne andava, per un po’ vedevo la luce della camera da gioco spuntare dallo spacco al fondo della porta. Poi quando la luce si spegneva ero agghiacciata all’idea di essere al buio. Mi alzavo, entravo nelle camere dei miei fratelli e li guardavo dormire; era come se non ci fossero perché non ci potevamo parlare e non mi vedevano; era come se io fossi morta; e avevo ancora più paura. Tornavo a letto e facevo pipì per avere una sensazione di calore e di vita. Qualche volta gridavo. Nessuno mi sentiva, o, se mi udivano, facevano finta di non sentirmi.
Quando mi svegliavo al mattino mi importava soltanto che fosse giorno e che la gente intorno fosse viva.
Durante il giorno dimenticavo.
Vigiassa era per noi un grande divertimento. In casa la disprezzavano perché suo marito l’aveva lasciata con una bambina piccola e se n’era andato in America. Aveva i capelli rossi ed era coperta di lentiggini. Voleva essere chiamata la “balia Vigia”, anche se non era venuta da noi per allattare, ma solo come balia asciutta per Cristiana. Poi era diventata cameriera dei bambini e litigava continuamente con le signorine e con le nannies. Rispettava solo la Miss Pack perché Miss Pack era giusta, anche se era protestante. Aveva terrore di nostro padre. Così, quando papà era di buon umore, lo convincevamo a chiamare Vigiassa in camera sua prima di pranzo, come se volesse sgridarla. Vigiassa appariva, più rossa che mai, sudata fradicia, guardandosi intorno con gli occhi tormentati e atterriti finché non ci scopriva nascosti dietro una tenda a ridere e papà diceva «Va bene, Luisa, volevo solo sapere come stavi». Dopo piangeva e ci diceva: «Non dovete fare così, ho paura, sudo e dopo la mamma dice che “spusso”. È vero, “spusso”, ma è perché ho i capelli rossi; non è colpa mia, non c’è niente da fare, anche se mi lavo molto più delle altre». Ridevamo. Si sedeva vicino al tavolo del piccolo guardaroba dove stiravano i vestiti di mia madre e finiva col cantarci una lagna monotona che diceva “È andato in Merica, è andato via”.

II

Il lato della casa che guardava su via Papacino era nostro, dei bambini. Finiva in una terrazza coperta che più tardi fu trasformata in palestra. Le camere dei nostri genitori davano invece sul corso Oporto dove gli ippocastani bordeggiavano il viale al centro della strada. Sul corso guardavano anche la biblioteca, il salotto e il salone che si aprivano sull’entrata di marmo e lo scalone.
Il terzo lato della casa dove erano le cucine, l’office e le camere delle persone di servizio guardava sulla via Avogadro. Nel mezzo c’era uno studiolo dove ci davano lezioni private; era allegro e pieno di libri. Forse era allegro perché era in mezzo ai camerieri e le cameriere e si sentiva ridere e lavorare. I tre lati della casa abbracciavano un cortile con una fontana di marmo bianco. A primavera con la bicicletta giravamo intorno alla fontana rotonda.
Quando avevamo dieci anni e incominciavamo il ginnasio andavamo alla scuola pubblica, ma prima studiavamo a casa, in privato. Studiavamo con la signorina Corsi. La signorina Corsi era nevrotica e complicata, e Miss Parker se avesse potuto non l’avrebbe certo scelta come nostra insegnante. Intanto perché la Corsi insisteva che alle dieci e mezzo le fosse servito un cappuccino, e questo era contrario a tutti i princìpi di Miss Parker. Non passava giorno che la signorina Corsi non ci ricordasse il cappuccino. Lei aveva specificato che non avrebbe accettato di darci lezione se non le fosse stato servito il cappuccino: senza il cappuccino, aveva spiegato, sarebbe svenuta. Così, a malincuore, le sue condizioni erano state accettate e ora aveva diritto al suo cappuccino che, non mancava di dirci ogni mattina, era fatto di caffè leggero e tiepido, latte bollito con la pelle dentro e, anche se servito su vassoio d’argento da un cameriere in livrea, era un cappuccino proprio cattivo, ripeteva, proprio cattivo.
La signorina Corsi levava tutte e due le mani verso il soffitto e le sventolava in aria, come bandierine, per asciugare il sudore. Era molto sensibile e doveva portare i sottobracci di gomma sotto le camicette per proteggerle alle ascelle. Aveva grandi cerchi mauve sotto gli occhi e una lunga faccia, triste e pallida. Si sentiva l’odore del suo sudore. Quando mio padre, eccezionalmente, entrava nella stanza per chiedere notizie dei nostri studi, prendeva con le mani il davanti della camicetta e la staccava dal corpo due o tre volte per dare aria alle ascelle. Mio padre se ne andava subito.
“Povera Anna”, diceva la signorina Corsi parlando di se stessa. Di quando in quando alludeva con tono misterioso a un capitano che era nella sua vita.
Un pomeriggio Vigiassa entrò in camera da gioco e mormorò qualcosa a proposito della signorina Corsi. Miss Parker fece “Tch, tch”, come rivolgendosi a un uccello che fa troppo rumore in una gabbia, poi scuotendo la testa con disapprovazione si mise il paltò e uscì. A quell’ora del giorno una cosa inaudita.
Dalle cameriere venimmo a sapere che la signorina Corsi aveva tentato di suicidarsi: “per il capitano”. Per un settimana non venne a darci lezione, poi ricomparve più pallida, gli occhi ancora più cerchiati, sempre più simile a un pesce morto dietro una lente di ingrandimento. Nessuno parlò mai di quello che era successo.
I suicidi a quel tempo erano molto alla moda. Le cameriere che si innamoravano del maggiordomo, gran seduttore, prendevano continuamente, lassù in quelle stanze dove abitavano, troppi sonniferi.
«È tutta colpa tua, Virginia,» diceva nonna Jane a mia madre «tu non fai che regalare a quelle ragazze la tua biancheria di seta. Che cosa t’aspetti? Bisogna pure che la facciano vedere a qualcuno.»
Eleganti e raffinate, le cameriere di mia madre guardavano dall’alto in basso le altre che andavano a letto coi camerieri e gli autisti. Queste, se litigavano coi loro amanti arrivavano a dirsi cose tremende ma non tentavano di suicidarsi. Il suicidio era al di sopra del loro livello sociale.
In cima alla scala di servizio che partiva dal cortile alcune camerette erano affittate ad altra gente: in una di queste viveva la Pignolo. Faceva la sarta per bambini.
Si saliva per gli scalini sporchi e fumosi, si faceva girare il campanello a mano, come quello di una bicicletta, inchiodato sulla porta di legno, e si aspettava. Quando la Pignolo apriva, si veniva arrestati dall’odore di cucina che saliva dalla pentola sotto la finestra, poi attratti dai vestitini ricamati appesi tutt’intorno nella stanza. C’erano stoffe di ogni gradazione, sete, taffetas, ricami inglesi, nastri di tutte le misure. In mezzo stava la Pignolo, fatta come una ghianda con due piccole gambe che uscivano da sotto; quando sedeva sullo sgabello davanti alla macchina da cucire era in tutto simile alle figure disegnate sulle carte del “happy families” con cui giocavamo di sotto prima di andare a dormire. La Pignolo cuciva e cuciva. E quello che toccava diventava così bello, che si dimenticava l’odore di minestra lasciata lì che riempiva la piccola soffitta.
Anche la portineria puzzava di cibo. L’odore si infilava dalla porticina quando Guglielmo apriva la vetrata a chi scendeva dalle automobili che entravano sotto il portone. Mia madre odiava l’odore di cipolla e di aglio e non permetteva che fossero usati in cucina. Ma Giuseppina era stata la sua cameriera personale per molti anni, prima di sposare Guglielmo, e Giuseppina continuava a cucinare aglio e cipolla a cuor contento. Alle sgridate di mia madre, gli occhi neri scintillanti come “jais”, rispondeva che a un uomo bisogna dare il cibo che gli piace.
Quando eravamo sicuri che Miss Parker non ci avrebbe scoperti, Giuseppina ci lasciava assaggiare i suoi piatti appetitosi pieni di pomodori e gusti strani. Guglielmo era alto, gentile, stupido e bello nella sua livrea. Giuseppina era piccolina, graziosa, svelta come può essere soltanto una “madamin” piemontese. Rispondeva al telefono, e sapeva tutto quello che succedeva in casa.

III

A metà giugno ci portavano a scuola a pochi isolati da casa, per fare, insieme agli altri bambini, gli esami di ammissione alla classe successiva. L’odore di inchiostro, di matite, dei capelli degli scolari si mescolava con l’aria fresca delle aule e dei larghi corridoi. Gli altri bambini, che aveva...

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