
- 134 pagine
- Italian
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eBook - ePub
L'amore segreto
Informazioni su questo libro
Costruito come una Sinfonia, con un preludio, quattro movimenti e un finale, L'amore segreto narra la storia di un amore clandestino, di un sentimento che si è alimentato di silenzi, incontri fugaci e di intimità celata. Una giovane donna scopre l'adulterio del padre, violoncellista appena scomparso, trovando fra i suoi libri una scatola colma di lettere d'amore che non portano la firma della propria madre. Turbata, decide di andare a trovare l'anziana signora che ha rappresentato per tanto tempo l'immagine del desiderio per quel genitore improvvisamente sconosciuto. Dall'incontro delle due donne, dalle lettere conservate, dai ricordi, la storia d'amore riaffiora e rivive con il fascino struggente di una melodia d'altri tempi.
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Informazioni
eBook ISBN
9788852034299Secondo movimento
SABATO
L’alba. Occuparmi di Lucrezia mi avrebbe distratta dall’insana eccitazione che mi aveva accolta al risveglio. Il cielo era ancora scuro e scegliere l’abito da indossare sarebbe stata una temporanea salvezza. Accadeva anche con lui. I nostri incontri erano imprevedibili e scavare nei particolari del visibile, occhi, spalle, collo, capelli, era un espediente per invogliarlo. A prendersi cura di me.
Non è che volessi fare colpo su di lei, mia cara. So bene che anche il più tenace tentativo di competere con quella ragazza si sarebbe infranto di fronte all’invadenza dei suoi trent’anni. Delle nostre vecchiaie, sai, non amo le soluzioni estetiche, quel sentire la pelle che si ammorbidisce, giorno dopo giorno, fino a diventare trasparente. Floscia. Thierry non ci bada e tenta invano di convincermi che sono sempre la stessa. Per smentirlo mi basterebbe mostrargli le fotografie che mi scattò a Parigi, durante il nostro burrascoso fidanzamento. Ho impiegato tempo a capire che la seduzione si modula sul mistero. E che a quarant’anni mi ero innamorata di un uomo che metteva al di sopra di tutto il suo bisogno di solitudine.
Avevo voglia di un lungo bagno. Acqua tiepida e cannella muschiata, come allora. Il vetro della finestra è velato di un vapore di nostalgia. Gli scrivevo messaggi persino sugli specchi degli alberghi, parole transitorie che scomparivano dopo pochi istanti. Insieme ai miei appelli. Su quelle tele provvisorie rispondeva, senza accorgersi che l’alone delle sue parole sarebbe rimasto visibile fino a quando il cameriere, impietosito da tanto fervore, non avesse ripulito diligentemente lo specchio. Sporcato di frammentaria tenerezza.
L’armadio trabocca di abiti senza tempo, comodi maglioni, gonne lunghe fino alle caviglie, impeccabili camicie bianche. I vestitini strizzati che piacevano a lui stanno rinchiusi in un baule della soffitta. Insieme alla mia giovinezza. Ormai sono vecchia. E mi cullo felice in questa età fatalmente raggiunta senza affanni. Assumere con quella ragazza un contegno difensivo sarebbe stato inutile, meglio lasciare da parte ogni ritrosia e dominare la vergogna che con lo scorrere dei minuti si impadroniva di me. Tanto valeva indossare quel vestito viola lavanda intenso, scaramantico, che mi aveva più volte regalato lusinghieri successi. Sul velluto ho lasciato cadere una sciarpa color ghiaccio, che dava a quell’abbigliamento un’aria di intenzionale eleganza. Il tacco delle scarpe mi regalava cinque centimetri di rivalsa.
La grande cucina bianca, smodatamente teatrale e romantica, era avvolta nel silenzio. Camminavo in punta di piedi, pure senza riuscire a zittire il familiare scricchiolio del parquet di pino a doghe ricche di nodi naturali, che avevo verniciato di bianco. Come le pareti e le sedie impagliate collezionate nel corso degli anni, l’una diversa dall’altra. In quella cucina avevo affastellato con apparente disattenzione mobili recuperati nelle botteghe che punteggiano la regione, a Saint-Rémy, a l’Isle, ad Apt, a Uzès, angoli scoperti con Thierry nelle passeggiate dei nostri primi mesi provenzali. I cuscini delle sedie sono stati rivestiti in tinte delicate con tela di cotone a disegni minuti. Niente di eccessivo, nulla a che vedere con i colori forti ed esuberanti della casa di André, fine musicologo e amico straordinario, acquistata qualche anno dopo la mia e arredata in tonalità sgargianti. Qui il decoro della tela – disegni di qualche secolo fa che prendono a modello l’antica tradizione degli artigiani di questa regione – non supera la soglia dell’écru, del beige, dell’azzurro pallido. Ho arredato la mia vita in modo anticonvenzionale. Persino il mio corpo, che pure non si presta a nessuna stravaganza. In questa bastide di campagna ho mescolato stili e materiali senza alcuna logica estetica, sottomettendomi alle richieste dei miei miraggi di giovinezza. Che avevano previsto la vecchiaia in questa terra generosa e ironica, abbagliante e ombrosa. Che mi somigliava. Gesso e legno sono i materiali prediletti. E il bianco. Marmoreo. Etereo. Invernale. Un tuffo nel candore. Allestire la tavola con cura è sempre stato un inevitabile impegno, utile ad allontanare un’adolescenza trascorsa davanti a tavole apparecchiate con disordinata negligenza e popolate di bambini litigiosi. Ero fiera di mostrare alla mia ospite le ricercate vettovaglie della mia credenza di fine Ottocento, recuperata da un rigattiere e decorata con invidiabile pazienza da Valeria durante la sua ultima vacanza qui. Le ceste, anch’esse raccattate un po’ ovunque, stavano relegate ai lati del camino. Inanimate. Panieri per fragole, per olive, per bottiglie. Contenitori di vite concluse sfruttati a mo’ di soprammobili. Ho steso sul tavolo una tovaglia di lino bianco, sommergendola di tazze e frivoli accessori di ceramica. Ho versato del latte nella mucca di porcellana che mi regalasti per il mio matrimonio. Non so più quale. Tutto doveva apparire idoneo a raccontarle di me con scuse gradevoli alla vista.
Si è affacciata sulla porta – strano, la porta di legno rubata da un casolare disabitato nella campagna qui intorno e installata come trofeo, non cigolava più – distraendomi da una rarefatta e innaturale solitudine. Era vestita di chiaro. Almeno così la ricordo ora, mentre ti scrivo. Pantaloni aderenti color vaniglia, un maglione sformato indossato con insensata eleganza, sotto il quale si intravedevano i polsini larghi di una camicia di taglio maschile. Certo non sua.
Il cestino del pane grondava dei freschi croissant che Pierre aveva consegnato di buon’ora insieme alle baguette. Di fronte a quell’abbondanza ha accennato un sorriso di gratitudine.
«Bonjour, madame.»
«Buongiorno, Lucrezia, dormito bene?»
Gliel’ho chiesto solo per spiare l’effetto della stanza di Carolina su di lei.
«Bene, grazie. Tutti quei pizzi, quei cuscini della nonna! Mi sentivo una bambola d’epoca. Qui è tutto così raccolto, ordinato, avvolto di dolcezza. Capisco che lei abbia scelto questo luogo per trovare un po’ di pace. Lo adotterò come rifugio e se me lo permetterà verrò spesso a trovarla.»
Effetto “romance” perfettamente riuscito, Gabriella. Anche grazie alla Sonata per violino e pianoforte di Debussy, scelta come informale accompagnamento musicale di quell’incontro mattutino.
«Sarà la benvenuta, Lucrezia. Io ho sempre vestito con ascetica sobrietà, eppure ho arredato questa casa con una frivolezza d’altri tempi. I miei figli mi deridono, anche se riconosco di aver esagerato con merletti, trine e pizzi, cuscini ricamati a piccolo punto, coperte di piqué bianco. È come se avessi voluto trasferire su mobili e oggetti la femminilità che il mio corpo ha preferito nascondere. Questa casa è una scatola protettiva per me.»
«Si vede» ha risposto, aggiungendo alla sua voce roca una vena di inattesa malizia.
«Se è vero che ereditiamo vite passate, io senza dubbio vissi nell’XI secolo, Lucrezia, quando in Linguadoca la rivoluzione copernicana dei sentimenti cambiò il mondo. La trasformazione della cultura occidentale iniziò allora. L’amore terreno approdò ai misteri dello spirito nelle corti feudali di Provenza, lasciando le tracce che con caparbia determinazione ho seguito sino a qui.»
Appariva incuriosita e attratta dalle pareti. Interamente occupate da foto incorniciate.
«Chi è tutta questa gente?»
«Parenti, amici, fantasmi. Colleziono cornici di ogni dimensione e foggia, Lucrezia. Mi piacciono vecchie e consumate. Ci metto le fotografie di zie ingiallite dall’invidia, dei miei ragazzi e dei nipotini temuti e adorati. Mi fanno pensare a quelle che arredano le tombe: antenati, trisnonni, bisnonni, nonni mai frequentati, seppiati o in bianco e nero. Solo i bambini sono a colori. Ho iniziato a raccoglierle da ragazza in Italia, sulle bancarelle dei mercati. Alcune sono state acquistate già incorniciate. Sono sconosciuti che mi seguono in ogni trasloco: uomini dai lunghi baffi risorgimentali, fanciulle in fiore vestite di pizzo, donne belle e altere, levigate dal pennello di ignoti pittori. È una specie di famiglia dell’immaginazione. Quella che non ho mai avuto. Sta lì, sui muri.»
Abbiamo sorseggiato tè al gelsomino, una delle rare concessioni di Annette alla cultura inglese. Ha divorato i miei croissant dopo averli farciti di marmellata alle more.
«Quanto a golosità non ha nulla da invidiare a suo padre!»
«È che non ingrasso, tutto qui.»
Non osavo, ma in realtà avevo solo voglia di parlare di lui. Da cosa cominciare? La notte era stata prodiga di ricordi, quella visita aveva iniziato a scioglierli e a riportare alla mente la sua immagine con chiarezza solare. Le sviste, gli incontri, persino il suo profumo premevano dentro di me. Era necessario liberarsene al più presto. Per anni avevo rinunciato alla memoria di quel corpo e di quel sorriso che incantava, nel timore di provare nuovamente quel dolore al centro del petto, tra le costole simmetricamente disposte ad accogliere quella che troppo spesso avevo subito come un’immeritata umiliazione. Gli avanzi del mio passato si fondevano in me a mano a mano che mettevo a fuoco il viso e il corpo di quell’uomo. La presenza di Lucrezia districava ombre che credevo seppellite per sempre.
La scatola era rimasta sul tavolino del salotto, dove Annette aveva ricomposto ordine e regolarità. Sono andata a prenderla, mentre Lucrezia si accendeva la prima sigaretta della giornata.
«Dovrei suonare per almeno due ore, signora. Ma preferisco stare qui ad ascoltare il suo racconto. Dalle sue parole filtra un ritratto inedito di mio padre. Penso sia questione di ruoli, ha continuato a trattarmi come una bambina anche quando sono andata a vivere da sola. I genitori sono diversi da come li immaginiamo, non pensa?»
«È così per tutti. Io non ho mai avuto il coraggio di chiedere ai miei figli cosa pensassero di me. Allora, accordare la mia vita di madre con quel sentimento era un equilibrismo complesso, Lucrezia. Bilanciare ciò che il sentire imponeva e la ragione frenava pareva un progetto irrealizzabile. A volte mettevo il mio cuore in aspettativa. Dalla famiglia. Glielo avevo scritto. Probabilmente speravo facesse altrettanto con voi.»
Amore,oggi ho chiesto a Guido e ai bambini di assentarmi da loro. Accovacciata sul divano bianco del salone, circostanziato angolo di pace, ascolto una Ballata di Brahms. A poche ore dal nostro ultimo incontro cerco di capire perché sono andata via da te ancora una volta. Perché si sono insinuati, nel chiarore di questo periodo così intenso, i primi dubbi? Non ho mai chiesto niente della tua vita fuori da me. Ti ho subito amato con incoscienza, ho censurato ogni possibile processo di selezione, ma qualcosa ha iniziato a non piacermi. Ho visto il tuo lato piccolo borghese. Per giustificarti ho pensato che anch’io ho una famiglia. Sono cresciuta in un melting pot degli affetti e delle eccezioni, in una famiglia ricca e poi indebitata e confusa; con un padre morto troppo presto e una madre che non trovo ragione per amare. Quando ho sposato Guido desideravo una famiglia senza steccati ideologici, un luogo dei sentimenti dove ridere e giocare, piangere ed emozionarsi, leggere e coltivare intelletto e spirito. Le tue proposte, un cinema, i giardini con le bambine, sono piccoli espedienti, scorciatoie che non riesco ad accettare. L’organizzazione del nostro quotidiano mi fa sentire un pesce fuor d’acqua. Ho raggiunto ciò che avevo programmato: un lavoro che adoro, un buon marito, dei figli. Il mio amore per te ha urgenze che il quotidiano non contempla. Non ho la stoffa dell’amante. E neanche dell’amica. Ho bisogno di appartenere a qualcuno. E voglio qualcuno che appartenga a me. Non divido niente. Tu hai trovato un settore nel quale collocarmi. Io eccedo. Ce l’ho, una famiglia. E non sai quanto li amo. Quanto sono straordinari, nella loro imperfezione. E quanto appagano la mia necessità di struttura. Un luogo da colmare di gesti, parole, tenerezze, serenità. Cerco di insegnare loro a sopportare la fragilità. Vorrei riuscire a non avere così bisogno di essere amata. È che in me l’amore crea dipendenza, vulnerabilità, esigenze. Le donne che hanno un amante gestiscono un tempo che è distante da noi. Sto male.C.
Mentre leggevo a voce alta quella lettera mi osservava assorta. Non lo ha ammesso, ma credo provasse a scrutare nella sua mente per trovare segni della mia presenza. Tentava di tornare a quegli anni per mettere a fuoco l’immagine di quel padre che era riuscito a non cambiare nulla della loro vita. Ero passata inosservata. Lucrezia sembrava non volermene.
«Solo più tardi capii che i nostri matrimoni ci avevano protetti. Dalla scelta.»
«C’è il sole, signora, facciamo una passeggiata nel suo bel giardino?»
Mi ha interrotta repentina, rompendo d’incanto la piacevole pigrizia che aveva colorato il preludio di quella seconda giornata insieme.
Ho temuto che si sentisse ferita dalle bugie del padre. Ma del resto, non avevo fatto anch’io lo stesso con i miei ragazzi?
«È un’ottima idea» ho risposto. Anche se uscire allo scoperto mi avrebbe sradicata dalla sicurezza di quella confortevole cucina spaziosa. E poi lo sai, quando parlo preferisco stare seduta. Credo sia per via dell’altezza.
Il giardino era a portata di mano, silenzioso e ovattato di neve. Per un attimo l’ho immaginato abitato dai bambini nell’aria luminosa dell’inverno. Mancavano pochi giorni alla mia festa.
«Tentavo continuamente di fuggire da lui.»
«Non capisco, signora.»
«A volte volevo strapparmi di dosso quell’amore con violenza. Era un peso che mi occupava intera, l’anima, il petto, la pelle. Mi invadeva, non riuscivo a liberarmene. Provavo di continuo a essere “leggera”, ma era come se la vita mi ordinasse di respirare a metà. Mi disperavo per la mancanza di informazioni. Non avevo dati. Ero come un veliero costretto a navigare a vista con il solo ausilio dell’intuito. Vivevo col fiato sospeso. Mi sentivo una sorta di zona franca in cui lui liberava se stesso. Per poi andarsene. Per sopportare gli interminabili minuti che passavo senza di lui, inspiravo, lasciavo entrare ossigeno nei polmoni, mi ripetevo con ostinazione che era assolutamente necessario imparare a trattenermi, mi imponevo distrazioni che per lo più si rivelavano inutili. A volte camminavo fino a stancarmi e una volta a casa annegavo nel sonno. Sfinita, aspettavo che quel malessere passasse. Senza orgoglio. Sognavo di risvegliarmi con l’animo libero. In alcuni momenti è stato atroce, mi creda.»
«Mio padre era un uomo pigro che andava eternamente di fretta. È rimasto così anche da vecchio. Un violoncellista in pensione che rincorre il tempo senza capirne lui stesso la ragione.»
«Capitava che dopo averlo aspettato tutto il giorno si materializzasse davanti ai miei occhi in un’ora qualunque. Gli bastava un veloce saluto. Aveva impegni d’ogni sorta, doveri, commissioni da fare, violoncelli da accordare, bambini da scarrozzare. A me restava la sete. Il cuore era appesantito, avrei voluto strapparlo e poggiarlo in un luogo diverso dal mio petto affannato. Qualche goccia di calmante sedava l’ansia, placava la frenesia di toccarlo, di stringergli le mani. Gesti semplici, innocenti. La normalità in pubblico non era concessa. La sensualità, per lui, aveva bisogno della notte. Eravamo sposati, lo si sapeva. Con lui mi sentivo privata del bisogno di ascoltare.»
Passeggiavamo sotto il grande porticato. A piccoli passi, come formiche che avessero temporaneamente accantonato la loro solerzia. Le mostravo con orgoglio il vecchio pavimento in cotto di cui Thierry andava fiero.
«Ho ordinato delle piastrelle in Toscana» mi aveva detto un giorno tornando da un viaggio in Italia, felice di quell’implicito omaggio alla mia terra.
La conoscevo da poche ore eppure il nostro dialogo aveva già la semplicità che solitamente riserviamo ai rapporti consolidati. La sottile maschera che avevo indossato la sera del suo arrivo, per celarle quelle che credevo inguaribili ferite, stava perdendo il suo contorno protettivo. Le impressioni erano nitide. Non preoccuparti, Gabriella, non ho perso il controllo, so bene che l’avresti giudicato di cattivo gusto. È che dal giorno in cui avevo ricevuto la lettera di quella ragazza, solo mentre le mostravo il giardino prendevo coscienza che non avrei mai più rivisto quell’uomo. Era come se dopo anni di segregazione mi avessero concesso di rovesciare torti e ragioni, episodi, volontà, desideri, collere e risate. Sarebbe stato terapeutico. Per una morte meno solenne e più decorosa. Con quel provvidenziale viaggio all’indietro, avrei avuto la grazia di andarmene nel sonno. Non avrebbero detto: “È morta con passione”.
«Capisco cosa intende, signora, anch’io mi sono innamorata di un uomo sposato. Suonavo nella Filarmonica di Monaco, in Germania.»
Lo ha sussurrato, perdendo per qualche attimo la sua aria diffidente e aprendosi quanto bastava per prolungare quella inaspettata confidenza che asciugava l’ansia iniziale del nostro incontro. Non ha aggiunto altro e io non sono stata in grado di fare domande. Frugavo nei suoi occhi nel tentativo di scorgervi un qualunque sentimento.
«Ci piaceva partire in tournée. Erano gli unici momenti in cui potevo considerarlo mio. Con licenza di irresponsabilità.»
Gabriella, non ci crederai. Aveva preso a parlare con un tono appassionato, qua...
Indice dei contenuti
- Copertina
- L'amore segreto
- Preludio
- Primo movimento venerdì
- Secondo movimento sabato
- Terzo movimento domenica
- Quarto movimento lunedì
- Finale
- Copyright