Torno con la memoria al rapporto con i miei genitori. È importante che lo faccia spesso anche perché non sento la mia famiglia d’origine da anni. Il giorno che morì mio padre decisi di chiudere ogni relazione con loro. Non avevo altra possibilità di scelta che tagliare quel ramo molto contorto della pianta delle mie già troppe angosce, fatto di madre e fratelli carichi di fardelli generazionali di cui non mi andava assolutamente di raccogliere il testimone.
Detto questo, non posso negare che la maggior parte della mia esperienza, dei miei pensieri, dei miei modi d’esprimermi, d’essere, di presentarmi al prossimo sia comunque condizionata dai primi tre decenni della mia vita, da me quasi per intero vissuti in famiglia. Questo, naturalmente, nel bene e nel male.
Dopo arrivò il momento di mollare gli ormeggi, anche se forse era già un po’ tardi. Ho iniziato a vedere il mondo con i miei occhi, a fare i miei errori, a essere fiero dei miei successi. La fanciullezza e l’età giovanile restano però dentro di noi in filigrana, sempre più trasparenti con il trascorrere degli anni, come un livello di Photoshop di cui si gradui l’intensità per ottenere un particolare effetto sull’immagine che stiamo elaborando. Ecco, la vita di ognuno di noi è un file .psd costruito su vari livelli. Ogni volta che ce la rappresentiamo, vediamo alcune cose in primo piano, altre sullo sfondo; altre sono livelli nascosti che abbiamo disattivato, e magari dimenticato, però ci sono e appesantiscono l’immagine, anche se sono invisibili.
Come vede la sua vita Tommy? Che gerarchia hanno i suoi ricordi? Riesce a lavorare sulla trasparenza dei livelli o per lui è tutto copiato e incollato sullo stesso sfondo?
Non dovrei preoccuparmi di questo, perché è un ragionamento che nasconde un profondo egoismo. In realtà, il mio rovello è solo intuire in quale spazio della mente di Tommy siano depositati i ricordi che ci appartengono, cioè dove siamo io, sua madre, suo fratello. È un pensiero forse paradossale; a nessun genitore capita di farlo, a meno che non abbia un figlio insondabile tipo il mio.
La verità è che anche il più snaturato e insensibile dei padri ha la consapevolezza che, alla fine, solo un figlio può dare certezza di sopravvivenza. Il mio primogenito Filippo sembra un mio clone, sono convinto di avere con lui intrappolato la morte. Io stesso, pur avendo cancellato volontariamente l’idea di aver avuto un padre, spesso mi guardo allo specchio e vedo lui. Il vero metro della mia graduale senescenza è nell’emergere di parti di mio padre dai miei comportamenti, dai miei pensieri, addirittura dalle mie posture.
I caratteri genetici che determinano l’aspetto Tommy, invece, se li è presi tutti da lontani avi corazzieri di mia moglie. Ho una foto di un suo pro-pro-pro bisavolo in divisa da combattente della guerra d’Indipendenza che somiglia a Tommy molto più di me. Ne conserviamo in un soppalco le sciabole brunite e, sopra una mensola, dove nessuno lo vede, il medagliere. Per il resto, della sua memoria marziale non rimane altra traccia che, forse, il battere pesantemente i piedi a terra di Tommy. Anche la mia defunta suocera, come ho già detto, è la fotocopia di Tommy, io non l’ho mai conosciuta, ma mia moglie mi dice che aveva la stessa maniera di occupare lo spazio di questo nostro figlio, anche lei imponente gigantessa.
Alla fine, solamente una fossetta sul mento testimonia il mio contributo alla costruzione fisica di questo figliolo, ma poco mi importa.
Il dilemma per me insolubile è capire se mai riuscirò a trovare un pertugio di vita in cui mi sarà possibile vedere Tommy camminare per la sua strada, senza girarsi indietro come fa ora per dirmi: «Papà, vieni?». Ogni tanto m’illudo che questo stia accadendo, per strada rallento il passo e lo vedo avanzare bello spedito con lo zaino sulle spalle. Sembra un giramondo come tanti. Impettito e a testa alta come gli ho insegnato a camminare. In questo, l’evoluzione generazionale è veramente visibile, io cammino con un atteggiamento curvo, e sin da ragazzo mi sono sempre sentito ingiungere: «Sta’ dritto che ti viene la gobba!». Ora è anche peggio perché, per inventarmi una performance divertente, ma con una sua pretesa filosofica, negli ultimi due anni ho sollevato qualche centinaio di donne durante uno spettacolo che facevo in giro per le piazze, dove come un venditore di elisir di lunga vita invitavo signore di ogni età e censo a sottoporsi alla mia «Disciplina del sollievo di sollevar donne». Ho sollevato centinaia di sconosciute, mi son caricato sulla schiena qualunque femmina e di qualunque peso per dimostrare che ogni donna ha diritto di sentirsi donna leggera.
Già, e mentre io facevo il cazzone a sollevar signore e signorine, in cerca di una vertigine momentanea, Tommy zitto zitto mi preparava la sorpresa di diventare un omone. Come per sfidarmi: «Volevi continuare a tirar su signore a gambe all’aria? Volevi accollarti il peso delle femmine per fare il provolone? Adesso prendi su i miei ottanta chili, che presto cresceranno, mio caro, ho solo quattordici anni, hai voglia a salire di peso!».
Adesso che faccio? Dovrò gettare alle ortiche ogni mia curiosità, folle infantilismo, istinto vorace? Tutto questo per tirarmi dietro quel figliolone che guarda avanti e cammina come se il mondo per lui si aprisse all’istante come le acque del Mar Rosso nella ricostruzione indimenticabile di Cecil B. DeMille? Quando finisce il marciapiede, però, c’è una strada dove passano macchine veloci, bisognerebbe tener conto di un semaforo… Tutte accortezze che non sono sicuro che per Tommy siano considerate importanti.
Lo guardo camminare un po’, mi beo dell’immagine e del pensiero che ci costruisco sopra, ma poi mi devo mettere a correre a perdifiato per raggiungerlo prima che finisca sotto il 30 express, l’autobus lunghissimo che pare un missile e, quando passa, tremano i vecchi palazzi di viale Mazzini.
Tommy sarà il dilemma su cui dovrò arrovellarmi per tutta la vita, ma mica perché lo consideri un problema dei peggiori che possano capitare a un essere umano, solamente perché è un problema che sento di dover risolvere io, inutile pensare ancora che possa farlo qualcun altro. Nell’automatismo familiare che assegna i ruoli a seconda della capacità di ognuno di prendersene carico, è sin troppo chiaro che la palla Tommy è stata messa nelle mie mani. Che può fargli più una madre, ormai? È poi anche giusto che lei, che se lo è sciroppato in silenzio e rassegnazione nei primi dodici anni di vita, ora lo molli a me e pensi al nostro figlio maggiore. Io non ce la farei a portare Filippo in giro per musei come sta facendo egregiamente Natalia. Di me, Filippo si ricorderà quando a sette anni lo portavo a fare kung fu, e seguivo la lezione pure io perché era troppo piccolo per essere lasciato solo. Si ricorderà dei primi videogame a cui l’ho iniziato, ma la pratica è durata poco perché a nove anni era già molto più bravo di me. Per il resto, mi vedrà soprattutto come il badante del suo fratellone cresciuto di testa, ma non di cervello. Spero che un domani, forte dei suoi innumerevoli successi, non mi venga a fare il discorso del fratello secchione e sfigato del Figliol Prodigo. E magari potrà vedermi far più festa se Tommy imparerà ad allacciarsi le scarpe da solo che per la sua terza laurea. Ma il mondo va così, figlietto mio, tu puoi camminare con le tue gambe e andrai lontano, lui resterà sempre nel posto dove qualcuno lo metterà.
Per questo vorrei, finché mi assiste la sorte d’esser lucido, pensarci io a come dovrebbe essere quel posto. La conquista d’Insettopia sarà la più importante battaglia della mia vita. Anche se, per combatterla, dovrò nascondere con l’elmo la canizie, come fecero i compagni di Enea. Penso che sarà compito dei padri costruire la città dei loro figli balzani, perché, se non lo faranno, quelli finiranno in un contenitore per raccolta differenziata di umanità poco produttiva.
Mi sono fatto qualche conto e ho concluso che – tra quello che spende ogni famiglia e quello che, inutilmente, spende lo Stato in assistenti svogliati e sostegni inadeguati – ce ne sarebbe a sufficienza per fondare la nostra Insettopia senza questuare e senza piangere. Ci serve, però, un posto. In ogni città, in ogni quartiere ci sarebbe una sede adatta, solo che in genere ci fanno altre cose, magari utilissime, ma pure noi vogliamo essere utili. Se non altro a lasciare sistemate le nostre patate bollenti a vantaggio di chi ci sopravvivrà.
Da qualche tempo ho allertato i miei pochi e fidi amici a guardarsi attorno. Li ho convinti a far loro il mio motto, trendy al punto che una mia amica newyorchese un giorno me l’ha mandato su un foglio di caratteri trasferibili da attaccare al muro e ora campeggia al centro del mio studio/casa di Tommy: «A noi piace giocare con le visioni, con sguardi laterali, con pregiudizi gloriosi e sventatezze ardite».
I nostri sguardi laterali arrivano ovunque e precedono quelli dei nostri figli, che laterali lo saranno sempre per fantastica, quanto cruda, fatalità.
Ci stiamo rendendo conto che, ovunque guardiamo con attenzione, c’è una potenziale Insettopia. Stiamo adocchiando palazzine disabitate, depositi inutilizzati, enormi giardini dove passeggiano preti e suore, villini con piscina costruiti illecitamente, messi sotto sequestro e assegnati a un nuovo uso sociale, persino abbondano le caserme abbandonate.
Accanto a casa mia ce n’è una superba che sembra la fortezza Bastiani, ma presidiata solo da un paio di vecchi marescialli al posto del tenente Drogo… Non ci faranno certo paura! Guardiamo la piazza d’armi, le camerate, i grandi spazi che potrebbero diventare quartieri della nostra «città dei ragazzi». Addirittura, c’è cresciuto un boschetto dentro. Qualcuno avrà già in mente di farci un centro commerciale, un parcheggio, degli uffici… ma fa i conti senza i nostri poderosi supereroi. Quando ne parliamo tra noi, sogniamo un grande progetto che, oltre a risolvere il nostro problema, potrebbe ridare senso a interi quartieri, dove nessuno più riesce a lanciare sguardi laterali. Dove nessuno più è capace di coltivare visioni e sventatezze ardite. E la nostra, ardita lo è davvero…
Immaginiamo di costruire la città felice che manca in ogni luogo, felice proprio perché chi l’abita è disinteressato alla competizione, a schiacciare il prossimo, a sopraffare, scavalcare, insidiare. Felice perché ci vive chi è contento di far le cose che a lui piacciono, e mentre gli scontenti ammorbano chi sta loro vicino, chi è leggero di pensieri regala un sorriso a chiunque lo sfiori. Mi piacerebbe che pure chi, come i nostri ragazzi, non ha più un posto e un ruolo, perché il mondo non sa che farsene di lui, ritrovasse in questa città qualcuno che dia un senso al suo esistere. Vigili in pensione, falegnami, decoratori, artigiani di ogni tipo troverebbero a Insettopia formiche capaci di fare qualcosa, o almeno che ci proverebbero. A Insettopia si ballerebbe, si farebbe musica, si mangerebbe e respirerebbe allegria, perché sarebbe come una fessura aperta sul mondo che non c’è. Ci andrebbero anche i ragazzi con il cervello tutto in regola, ma solo perché farlo diventerebbe più figo che passar le serate in piedi davanti a un locale, con in mano il bicchiere di plastica del mojito annacquato.
Nella mia compulsiva fulminazione per luoghi urbani da trasformare in città per autistici, mi sono pure innamorato di un rudere abbandonato tra alberi e cespugli al centro del bioparco di Roma, quello che una volta era chiamato giardino zoologico. Non so nemmeno come ci sono arrivato, ma ho pensato anche in quel caso alla mia Insettopia. Ho scoperto che da decenni nessuno si è più curato di dare una destinazione a due grandi edifici semicircolari, che sembrano due fagioloni di mattoni, progettati negli anni Venti da Raffaele De Vico: un ottimo esempio di architettura funzionalista, immaginati per ospitare uccelli rari, ma perfetti per essere adattati a fabbrica di felicità per umani rari.
Al momento giacciono semicadenti di fronte a una grande voliera a forma di pallone; tra i rovi che abbracciano quelle antiche mura si vedono passeggiare pavoni, sembra uno di quei templi abbandonati in mezzo alla giungla che improvvisamente appaiono nei film alla Indiana Jones. Anche in questo caso ho precettato splendidi amici di buona volontà per progettare, pianificare, immaginare. Le due case baccellone potrebbero diventare il modello più avanzato di città felice che ogni genitore di autistico, o neurodiverso in genere, immagina per farci emigrare suo figlio ed essere finalmente alleggerito dello struggimento quotidiano di consumarsi la vita senza poter far nulla per lui e il suo futuro.
Penso che i ragazzi non potrebbero trovare un luogo ideale più adatto alla loro dignitosa esistenza che l’ex zoo di Roma. Anche loro vivono in gabbie mentali e, per essere liberati, e liberare le loro famiglie, non potrebbero star meglio che nel grande giardino al centro della città.
In un posto mentalmente delocalizzante, sembra uno stargate aperto su una foresta incantata e nascosta in un universo parallelo sotto uno dei quartieri più incasinati dal traffico del centro. Come si entra, cambiano la dimensione del tempo e ogni percezione acustica. È una zona sensorialmente alleggerita, l’ideale per chi soffra dello stress di fastidiose distorsioni nella percezione dei rumori, per esempio, o entri in crisi ansiose per la folla o le improvvise sollecitazioni che impone muoversi tra le auto che a Roma non seguono mai regole e buon senso. Soprattutto in un posto dove ancora possono vivere serenamente tigri, leoni e giraffe, anche i ragazzi speciali troverebbero un’occasione che non sia il semplice parcheggio in aree di sopravvivenza. Con gli animali non avrebbero bisogno di doversi per forza adeguare a parlare, scrivere, leggere, misurare il mondo con le nostre regole infallibili.
Potrebbero organizzare le loro giornate, imparare a rendersi utili nei lavori di quotidiana gestione del parco, essere protagonisti di attività che possano attrarre anche le persone meno problematiche, far loro conoscere la propria straordinaria capacità di mostrarsi come un laboratorio vivente di vita possibile, angeli silenziosi e alleggeriti dal tedio della socializzazione forzata.
Ancora una volta sto pensando di coinvolgere architetti e specialisti del cervello, esperti nella formazione e contorsioniste e danzatrici del ventre. Avvocati, atleti, poeti, facoltosi zii d’America e chi più ne ha più ne metta.
Qui mi fermo. Alla fine – temo – non se ne farà nulla... Continuerò a guardare ogni edificio inutilizzato come un possibile fortino da espugnare per farne la nostra città. So che continueranno a regalarne a circoli sportivi, associazioni culturali, comunità religiose. Se ne faranno lussuosi scannatoi per i potenti della politica, oppure centri conferenze per raccogliere sbadigli, in appalto alle brave persone che per mestiere si occupano di sociale. Non contesto ad altri il diritto ad avere spazi, ma ne resterà qualcuno disponibile per un progetto concreto che risolva la vita dei nostri ragazzi?
Continuerò a chiederne per noi, che siamo centinaia di migliaia in tutt’Italia, perché non ci servono per coltivare hobby o futili passioni, ma per poter finalmente tornare a vivere e permettere ai nostri figli di sopravvivere dopo di noi. Già prevedo che otterrò qualche promessa, molti sorrisi, molti sguardi equivalenti alla solita detestabile frase: «Se il Signore ti ha dato un peso del genere, significa che hai la forza per sostenerlo!».
Eh sì, pare vero… Avrei preferito nascere deboluccio e leggero, giuro! In realtà le premesse non mi fanno pensare a un futuro molto piacevole: «Gli atti n’en belli…», come dalle mie parti dice il maiale destinato alla porchetta, quando vede il contadino far la punta a un palo.
Andrà a finire che taglieranno sempre di più le risorse per i disabili e Insettopia la guarderemo a loop solo nel vecchio cartoon, sul dvd DreamWorks del 1998, esattamente l’anno in cui è nato Tommy, e io non c’ero.
Ora mi vien da dire chi se ne frega, sopravvivremo comunque fino al giorno che sarà proprio Tommy a portarmi sulle spalle, come dovette fare Enea con il vecchio Anchise.
Io mi attaccherò al suo capoccione bislacco e gli dirò per la miliardesima volta di fermarsi ai semafori e camminare sulle strisce. Mi consolerà pensare che, a quel tempo, gli altri figli efficienti e produttivi avranno già sbattuto i loro genitori a far la muffa in qualche ospizio.
Noi ci faremo qualche bella passeggiata ancora assieme. Quando io non ci vedrò quasi più, forse passeremo col rosso.
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Una notte ho sognato che parlavi
di Gianluca Nicoletti
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788852035081
COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER: GAIA STELLA DESANGUINE | FOTO ©CONEYL JAY/GETTY IMAGES
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