Adorava i cimiteri. Sia che fossero piccoli universi carichi di sotterfugio addossati a chiese spoglie o agglomerati di tombe storiche, Olga amava trascorrere interi pomeriggi in quei luoghi della memoria e del mistero. Le chiamava “le sue pause riflessive” e diceva che una delle ragioni per cui si era trasferita a Parigi, dipendeva dal fatto che almeno qui i cimiteri venivano presi sul serio.
La mia amica sosteneva che per essere di conforto allo spirito, il luogo del riposo eterno deve apparire una perfetta sintesi tra il visibile e l’invisibile, tra il verosimile e il falso. Oscillare tra la vitalità dolente di chi ne percorre i viali alla ricerca di pace e la fiera immobilità di coloro che li abitano per sempre.
Come figli di un’unica, generosa madre.
Per lei la parola “sepolcro” riusciva ad assumere persino il significato di piacere. Un intimo godimento che la riscaldava quando sentiva freddo ed era pervasa da un’insana malinconia. O da qualche inconfessabile dolore. Una lapide ben scolpita qualificava il defunto come una sorta di indelebile biglietto da visita, la freschezza dei cespugli che agghindavano un’aiuola definiva l’affetto dei parenti e persino la loro condizione sociale.
Si domandava se i gerani fossero fiori di genere popolare. Le loro prudenti radici scomparivano nella terra smossa e concimata, mentre le foglie pelose e i fiori rosa, rosso vermiglio o bianchi come la schiuma di un oceano rabbioso, erano immobili. Tesi verso il cielo. Le rose dall’aria aristocratica stavano diritte e imperiose a significare ricchezza e opulenza, un eccesso di vanità agli occhi dei passanti che suscitava le invidie più affilate e sconvenienti. Ci si chiedeva a chi il defunto avesse devoluto i suoi beni. E se gli eredi avessero affrontato logoranti discussioni, o suddivisi fra loro immobili e denaro con rispetto e tenerezza.
I ciclamini tessevano i loro viola intensi con i bianchi lucenti come perle di fiume sulle tombe dei bambini. Spesso, queste innaturali dimore finali erano sguarnite di fotografia e, a segnalare la presenza dei delicati resti di quelle anime innocenti, restavano le loro date di nascita e di morte. Una manciata di mesi che lasciava udire l’eco del pianto soffocato di madri ancora giovani e senza più alcun indizio di speranza, il borbottio di padri ormai privi di audacia, il lamento di fratelli sopravvissuti in un destino più magnanimo.
E poi, le tombe dei personaggi celebri, di cui lei sapeva tutto. Si riconoscevano da subito, grazie ai fiori freschi di rugiada che ne svelavano le lapidi, merito di ignoti ammiratori o attivi membri di associazioni che, curando i sepolcri che li ospitavano, provvedevano a tenere vivo il loro ricordo.
In questa sconfinata città di morti, Olga cercava il profumo inebriante dei fiori che venivano adagiati da parenti e amici sulla terra ancora umida di pianto, corolle di petali colorati uniti al loro gambo da un lembo insicuro. Oppure le lapidi in marmo e granito, le targhe di metallo lucente sulle quali faceva correre i suoi occhi curiosi e rapaci. Alla ricerca di storie di famiglia che le apparivano come frammenti di eccitanti resoconti.
E le statue. Allegorie di pietà, compassione e mestizia, fede e fedeltà, ma anche simulacri rivestiti di irritante realismo, che facevano appello alla fantasia dei visitatori con eteree vedovelle riprodotte in formato naturale, intente a piangere, il viso tuffato in piccole e candide mani. E quelle erotiche dai seni gonfi e anelanti, quasi che si potesse morire di piacere, come eros e thanatos, in un girotondo di amore e morte che si chiamano l’un l’altro.
Ossessionati dal bisogno di sedursi.
Il desiderio trova nella nostalgia la tensione verso un paradiso perduto, una nuova rappresentazione dell’aldilà. Che, come scriveva Yeats, “era una terra che il cuore dell’uomo bramava”.
Fu la nostra prima vacanza da sole. Olga, Cecilia ed io, senza genitori e governanti al seguito. Finalmente indipendenti, dopo settimane di insistenze e di secchi “no” da parte delle famiglie, dinieghi che avrebbero scoraggiato anche i caratteri più caparbi, noi tre ottenemmo il sospirato permesso di un viaggio a Parigi.
Tutto sembrava possibile, allora. Sogni e impazienze si annunciavano disposti a diventare realtà. Un cenno e una mano felice li avrebbero manipolati a nostro piacere. Quel giorno, per una forma di trasgressione inconsapevole ma assai divertente, scegliemmo come luogo per una passeggiata il Père-Lachaise, il cimitero più antico di Parigi, di cui avevamo letto nei libri di letteratura francese. Un luogo storico che rappresentava uno dei monumenti più emblematici di quella città. Camminando al nostro fianco, Olga dissertava con aria provocante e sentenziava – il tono leggero – sulla voluttuosa attrazione tra amore e morte.
«L’intima unione tra eros e thanatos si compie nella morte, paradiso degli amori terreni impossibili, cui gli amanti confidano il loro destino.»
Cecilia la ascoltava incantata e riconoscente. Olga era l’unica persona al mondo di cui si fidava perché era la sola a non trattarla come una sciocca e viziata signorina di buona famiglia.
Io ero decisamente più critica.
«Parli come un manuale! Se ti infili in testa un cappello e ci bacchetti le mani con un giunco puoi persino spacciarti per guida turistica.»
Cara amica mia! Solo il teatro, con le sue magnifiche finzioni, ha dato vita all’ideale di bellezza e armonia a cui lei aspirava già da quei primi anni di audace indipendenza. Da famiglie e pregiudizi. Le piaceva fare l’erudita, con noi. Non le era difficile. Io mi dedicavo con entusiasmo solo alla geografia, fino a quando mi colse una sfrenata predilezione per l’astrologia. In tutto il resto sono stata un raro esempio di pigrizia e inettitudine. Ho sempre pensato che se non fossi nata ricca mi sarei guadagnata da vivere accompagnando turisti in giro per il mondo.
Sono diventata un’incantevole e petulante compagna di viaggi.
«La musica, l’opera lirica, una stoffa colorata, la morbidezza di un tessuto sono la mia fuga dalla morte» ripeteva Olga con traboccante fervore. Aveva trovato, lei, la fortunata terra in cui rifugiarsi, l’universo privato nel quale nascondersi, il modo di essere se stessa senza essere ferita. Non sarebbe mai stata un bravo medico. Né veterinaria, biologa, astrofisica, commessa di negozio. Aveva un bisogno vitale di fantasia.
Passeggiavamo lentamente. Olga a tratti si fermava; come se sulle sue labbra indugiassero parole di straordinaria importanza, il nostro sguardo riverente contribuiva ad eccitarla e la esortava a mettersi bene in vista di fronte a noi. Devota platea riconoscente. In quei momenti l’amicizia era solo una gioia cristallina. Un intreccio di attimi e di pause indimenticabili, nei quali il mondo ruotava intorno a noi, e io galleggiavo felice, dimentica di ciò che si nascondeva nel mio animo impaurito. In loro sapevo trovare fiducia e oblio, la nostra unione sembrava proteggerci da ogni possibile male terreno. Presente e futuro.
Fu durante quella prima passeggiata al Père-Lachaise che ci trovammo, più per gioco che per reali turbamenti esistenziali, a parlare della morte. Pronunciando sottovoce la promessa “per sempre”, a significare un’amicizia che non avrebbe mai avuto un punto finale. Non so dirvi se abbiamo tenuto fede a quel patto. Perché anche tra noi si insinuò, subdolo e ingannevole, il tradimento.
«Per me l’idea di romantico corrisponde a un paesaggio come questo. Le statue ne riflettono il carattere. Si crea un vincolo indissolubile tra le anime di chi ha vissuto una passione. Nemmeno la morte “li separa”...»
«Dovrai farti seppellire con un amante, Olga! E farti scolpire una statua su misura: tu e lui distesi su di un letto di pietra, le dita intrecciate o cose simili.»
«Quasi tutti i soggetti delle statue sono femminili...»
«Visione profana o idealizzata, carnale o eterea, ragazze mie la statua è donna...»
«Anche al cimitero i maschi scarseggiano! E ci deliziano solo questi muscolosi giovanotti caduti in guerra. Al massimo possiamo contare su qualche artista dal volto sofferente.»
Bastava un niente per farci scoppiare a ridere come tre stupide ragazzine.
«Le donne, invece, sono sfacciatamente sensuali.»
«Questo significa che siamo degne di starcene appoggiate su queste dimore eterne. Secondo voi è un privilegio o una condanna?»
Le nostre conversazioni erano tanto più appassionate quanto futili e a fondo perduto. Sedevamo nell’erba, sulla collina più alta dalla quale si domina questa estesa foresta pietrificata. Parlavamo a ruota libera. Senza dimenticare nulla.
«C’era un poeta, non ricordo più chi fosse... descriveva gli uomini come angeli in esilio che, incapaci di sopportare la felicità, vengono precipitati in uno stato simile alla morte. Che secondo lui era poi la vita.»
«Per chi ama, la morte è una notte di nozze.»
«Scusa Cecilia, cosa significa?»
«È come se racchiudesse in sé il mistero.»
«Anche il lutto può trasformarsi in un’ossessione.»
«Certo, un’ossessione dilatata dall’assenza. E dalla nostalgia. Sono d’accordo con te, Virginia.»
«Non trovate che queste statue siano terribilmente erotiche?»
«Sei proprio fissata, Olga!»
«La morte può rimettere ordine nella confusione amorosa...»
«Spiegati meglio.»
«Questi reliquiari parlano di amori legittimi. Come se grazie alla morte gli uomini potessero reintegrarsi nel nucleo familiare. E le donne, anche se in vita sono venute meno ai doveri coniugali di fedeltà e obbedienza, qui si riappropriano del loro legittimo ruolo di spose.»
«Leggete: “À mon époux. Il était parfait, je l’amais trop. Dieu me l’a pris”.»
«Sfido chiunque a credere che quest’uomo sia stato uno sposo irreprensibile e soprattutto fedele alla donna che lo ha seppellito. Ma questa poveretta non può che piangere un uomo eccezionale. Maggiore è la pena manifestata, più deve esserne degna la creatura cui è rivolta.
A volte si ha l’impressione che queste tombe non siano altro che accoglienti tane di falsità! Mai un Don Giovanni, una prostituta, un delinquente o un mascalzone.»
«Qui riposano solo mariti meravigliosi e mogli sottomesse.»
«Sei la solita piccolo-borghese, Cecilia!»
«Cosa pensi, allora, della tomba di Abelardo ed Eloisa?»
«Erano sposati!»
«Non ti vuoi arrendere al fatto che questo sia un luogo adatto a rappresentare la schiavitù amorosa.»
«Basta una frase appropriata incisa su una lapide di marmo perché un legame socialmente inaccettabile diventi legittimo.»
«Oppure possa offrire originalità a un destino banale e mediocre.»
Quella prima vacanza divenne uno dei momenti fondamentali della nostra amicizia: due settimane di confidenze e spese sfrenate, di cui non dimenticherò mai l’epilogo, con due miseri franchi in tasca e un’ultima baguette divorata sul Pont-Neuf. Morivamo di fame e la commozione, incoraggiata dalla facciata di Notre-Dame che stava lì davanti ai nostri occhi, non contribuiva certo a rifocillarci, e il cibo era l’unica cosa di cui sentivamo il bisogno prima di prendere il treno che ci avrebbe ricondotte in Italia. Nel trasandato scompartimento di seconda classe ci vennero in aiuto le occhiate supplici con le quali impietosimmo una giovane coppia di sposi che divorava panini imbottiti al prosciutto e peperoni. Capirono al volo e ci offrirono di dividere con loro anche delle gustose mele renette.
Ogni volta che tornavamo a Parigi la nostra passeggiata al Père-Lachaise era un austero e personalissimo rituale. Certo, avremmo potuto scegliere il Louvre o qualche elegante caffè del centro, ma questo augusto cimitero, nella sua straordinaria unicità, ci aiutava, persino quando non ve ne sarebbe stato più bisogno, a ritrovarci trasgressive rispetto alle abitudini e alle convenzioni. In questo luogo così insolito – che scoprimmo a vent’anni ed è rimasto fino ad oggi un luogo eletto – chissà perché ci siamo sempre sentite senza lacci. Libere di esprimere pensieri e convinzioni, talvolta così divergenti da trasformarsi in salutari e corroboranti litigate. In questi viali dei passi perduti le nostre personalità, così dissimili fra loro, si mostravano come su un indulgente palcoscenico, lontane da genitori invadenti e regole di comportamento soffocanti. Così, negli anni, questi giardini disegnati dal tempo sono stati lo scenario di decisioni e annunci di un certo rilievo. Come quella volta in cui Cecilia, innamorata di un violoncellista, confessò di dover partire da Parigi di nascosto da suo marito per incontrarlo.
È una fresca giornata di maggio. Nulla può distrarmi da questa sobria e toccante cerimonia. Certa che Olga, oltre alla esemplare coreografia eseguita sul copione che aveva predisposto per tempo, apprezzerebbe l’affetto sincero delle lacrime che rigano i volti dei presenti, i loro petti che sussultano discreti, gli occhi gonfi nascosti dietro moderni occhiali scuri che sembrano dare a tutti noi il senso di appartenere ad un’unica specie.
Olga ha vissuto circondata dall’amore ed è morta sicura di averne conservato l’essenza, le deviazioni, i deliri. Anche se ormai non poteva più contare su molti amici in Italia, sapendo di farle cosa gradita prima di partire ho dettato un necrologio per il “Corriere della Sera”. Ultimo capitolo di un romanzo scritto per chi resta. Lo spazio della morte sublimato in poche...