«Devo» e la bottiglia è sul tavolo quasi vuota, con l’etichetta aurata leggibile a metà e più giù, inutile, la smorfia rossa di un leone mansueto. Ha esitato a lungo prima di dire «devo» e poi ha svuotato la bottiglia con un gesto di scherno, l’ha svuotata nel cuore, fissando le labbra viola di Lisa, che si scollano e incollano a fatica: «Penso che sia la scelta giusta. Se non lo fai, questo benedetto concorso, perderai l’occasione della tua vita». Certo, l’occasione della sua vita, glielo aveva ripetuto anche suo padre nell’ultima telefonata, con la consueta enfasi, naturalmente: «Giuseppe, è un’occasione d’oro. Ti sistemi per sempre!».
Tutta quella saggezza che ha visto traboccare con disinvoltura dalle labbra viola di Lisa, lo ha infastidito un poco. Avrebbe preferito che gli dicesse: «No, tu non vai, altrimenti ti lascio», o: «Ma a me non pensi?». Sarebbe stato più facile arrabbiarsi apertamente. Ma stavolta lei non c’è cascata. Se ne è stata zitta zitta, l’ha lasciato decidere in pace e solo alla fine gli ha esposto la sua opinione, con calma. Con dolcezza distaccata. Come se la decisione riguardasse solo Giuseppe. Poi però ha colto la vacuità del sorriso di lui, in apparenza ironico, le fa male questa sua reazione, gli dice, non vorrebbe essere fraintesa, si sente in dovere di aggiungere, «perché io voglio che tu resti, ci mancherebbe altro! Ma obiettivamente la decisione che hai preso è la più giusta. Segui il tuo istinto. Finora ti è andato tutto okay, no?».
Così ora lui si raschia la gola e si copre metà fronte e l’occhio destro con il palmo della mano, bloccando sul nascere il solito gesto di stizza ingiusta, la reazione accalorata di lei, il sicuro litigio a vuoto, di cui alla fine non si ricordano mai la causa.
I primi tempi della loro relazione, i litigi erano stati così rabbiosi che spesso erano sfociati in combattimenti corpo a corpo con continui acuti di schiaffoni, graffi e calci sotto la cintura. Giuseppe non riusciva a sopportare che Lisa, nata e cresciuta in Germania, ma pasciuta, diceva lui, in una famiglia calabrese, con una montagna di capelli ricci e neri e due occhi caldi da araba, si atteggiasse a tedesca. «Ma quale tedesca!» sbottava lei con voce e occhi rabbiosi. «La devi smettere di appiccicarmi etichette! Io me ne frego dell’essere tedesca o italiana, io sono io.» Però a fare la pace, a letto, era lei: gli cercava la mano e lui la irrigidiva di proposito, tentennando un poco prima di stringerla a sé. Gioiva il suo smisurato orgoglio, ma insieme alle loro salive Giuseppe deglutiva anche certe scelte, certe idee, certi punti fermi di Lisa, come quello assolutamente indigeribile che lei gli ha ripetuto poco prima: «Al tuo paese mai. Solo per le ferie, se vuoi. Ma per sempre non potrei. Mi ci vedi tu a fare la calza con le vicine di casa, seduta su un muretto del vicolo, col sugo sul fuoco, aspettando che tu ritorni dal bar? Mi ci vedi?».
Lui non ha risposto, ma è evidente che non riesce a immaginarla con addosso un grembiule di nylon dalla mattina alla sera, come sua madre. Solo che. Insomma, non è la prima volta che si sente smarrito di fronte a quel taglio netto. «Al tuo paese mai.» Dunque, sempre in Germania. Allora il futuro che lui voleva rimuovere gli si apriva davanti come un baratro: un grigio futuro straniero, anonimo e scontato, un lavoro che gli va bene solo in parte, una città che gli piace solo in periferia, dove il fiume incontra il mare, una lingua parlata a metà , delle illusioni sempre più sbriciolate. Lei non c’è in questo futuro grigio, lei dov’è? Eppure lui ripeteva, nei momenti più lucidi, che sarebbe rimasto in Germania solo per lei, lei dov’era? e che solo per lei avrebbe rinunciato al paese, anche se lì si fosse presentata una buona occasione di lavoro.
Lei gli è di fronte, ora, con i gomiti puntellati alle ginocchia. Sembra aver seguito il corso dei pensieri di lui attraverso i tuffi violenti o morbidi delle sue dita nei capelli e il cupo dilatarsi delle sue pupille torbide. Dunque il «devo», esploso con tanta decisione, era un semplice «devo» liberatorio, ma poco convinto. Forse per questo lei non ne è turbata. Non riesce a immaginarsi senza Giuseppe al suo fianco, le pare impossibile vivere senza di lui, malgrado la sonorità di quel «devo».
Fin dall’inizio, la storia del concorso, lei non l’aveva presa sul serio, anche se il padre di Giuseppe aveva cominciato a tempestarlo di telefonate, cercando di convincerlo prima con le buone, «perché vedi, figlio mio, è un posto con i fiocchi, è un posto tuo, di diritto, dato che prima è stato mio, e me l’hanno assicurato, quelli, che il posto è tuo, che al comune vogliono impiegati fidati, e tu dai affidamento perché sei mio figlio», e poi con le cattive: «Ma che cazzo c’hai in testa? Merda? Al paese darebbero il culo per questo posto e tu dici non so, mo’ vediamo. Cosa vuoi vedere? La minchia?»
Per sei mesi o sette, queste telefonate che non la impensierivano minimamente, nemmeno dopo che il padre aveva presentato la domanda di partecipazione al concorso, falsificando la firma del figlio; nemmeno quando la madre lo supplicava «per tutto il bene che ti voglio, fallo», e dalla cornetta straripavano singhiozzi e sospiri.
Giuseppe soppesava i pro e i contro di questo posto in paese, li soppesava con Lisa, ogni sera, fino a farla addormentare: come lavoro sarebbe meglio quello in paese, più leggero e soprattutto più sano del limare pezzi d’auto nella Firma; e inoltre in paese non si pagherebbe più l’affitto, non si comprerebbero l’olio, il vino, il pane, il… «Basta! Lì, tu non ci verresti mai. Perché non ci vieni?» Ma che noia, al bar ogni sera, a giocare a carte immersi nel grigiore del fumo delle sigarette. Qui invece la noia fa parte della vita quotidiana, quasi quasi non te ne accorgi, è una noia tranquilla, grigioverde, come il cielo sopra le ciminiere della città . Ma fosse solo questione di cielo e di colori non ci sarebbero dubbi. Al mare ci si può ...