L'avvocato di strada
eBook - ePub

L'avvocato di strada

  1. 378 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'avvocato di strada

Informazioni su questo libro

Michael Brock ha sempre saputo quello che voleva, da Yale al prestigioso studio legale dove ha intrapreso una promettente carriera. Ma quando un barbone fa irruzione nello studio e poco dopo viene ucciso dalla polizia, Brock, sconvolto, comincia a indagare su quello sconosciuto, fino a scoprire qualcosa che lo spinge ad abbandonare tutto per difendere le cause degli homeless, anche contro i suoi ex colleghi.

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Informazioni

1

L’uomo con gli stivali di gomma entrò in ascensore dietro di me, ma io non lo vidi subito. Ne sentii l’odore, però, l’aspro odore di fumo e vino scadente e vita di strada senza sapone. C’eravamo solo noi nella cabina e quando finalmente gettai uno sguardo dalla sua parte vidi gli stivali, neri, sporchi e molto, troppo grandi. Un trench cencioso gli scendeva fino alle ginocchia. Sotto, vari strati di indumenti sudici lo infagottavano al punto da farlo sembrare grosso, quasi corpulento. Ma non era certo pasciuto; a Washington, d’inverno, gli homeless indossavano praticamente tutto quello che avevano a disposizione.
Era di pelle nera, avanti negli anni. Capelli e barba erano brizzolati, incolti e non lavati da molti mesi. Guardava diritto davanti a sé attraverso le lenti di un paio di occhiali da sole, ignorandomi del tutto e spingendomi a domandarmi perché mai mi fossi messo a scrutarlo in quel modo.
Faceva a pugni con l’ambiente. Quello non era il suo palazzo, non era un luogo che lui potesse permettersi. Su tutti gli otto piani gli avvocati lavoravano per compensi orari che, anche dopo sette anni, a me sembravano un sacrilegio.
Un barbone come tanti che cercava di sfuggire al freddo. Una situazione ricorrente nei quartieri centrali di Washington. Ma per casi del genere noi avevamo il nostro servizio di sicurezza.
Ci fermammo al sesto e soltanto allora mi accorsi che lui non aveva premuto alcun pulsante, non aveva selezionato un piano. Mi stava seguendo. Uscii in fretta dall’ascensore ed entrando nello splendido atrio di marmo della Drake & Sweeney mi guardai alle spalle per un attimo. Era ancora nella cabina, fissava il vuoto e continuava a ignorarmi.
Madame Devier, una delle nostre scafatissime receptionist, mi accolse con il suo tipico atteggiamento sprezzante. «Attenta all’ascensore» l’ammonii.
«Perché?»
«C’è un barbone. Forse è meglio avvertire la sicurezza.»
«Che gente!» mormorò lei nel suo vezzoso accento francese.
«E si procuri del disinfettante.»
Mi allontanai e mi sbarazzai del cappotto, dimenticandomi dell’uomo con gli stivali di gomma. Avevo riunioni importanti per tutto il pomeriggio, colloqui delicati con persone di riguardo. Svoltai l’angolo ed ero sul punto di dire qualcosa a Polly, la mia segretaria, quando udii il primo sparo.
Madame Devier era in piedi dietro la sua scrivania, e fissava pietrificata la canna orribilmente lunga della pistola impugnata dal nostro amico barbone. Poiché fui il primo ad accorrere, lui fu tanto cortese da puntare l’arma su di me, che mi paralizzai a mia volta.
«Non spari» esclamai alzando le mani. Avevo visto abbastanza film da sapere che cosa fare.
«Zitto» borbottò lui senza scomporsi.
Alle mie spalle, in corridoio, si alzarono delle voci. Qualcuno gridò: «Ha una pistola!». Subito dopo le voci svanirono, sempre più lontane. I miei colleghi se la stavano dando a gambe. Quasi mi pareva di vederli buttarsi dalle finestre.
Alla mia sinistra c’era la porta in legno massiccio di una sala riunioni che al momento era occupata da otto dei nostri avvocati, otto impavidi mastini con il compito specifico di sbranare la gente. Il più coriaceo era un piccolo siluro bellicoso di nome Rafter. Quando spalancò i battenti della sala riunioni gridando: «Che diavolo c’è?» la canna si spostò da me a lui e l’uomo con gli stivali di gomma ottenne esattamente ciò che desiderava.
«Metti giù quella pistola» ordinò Rafter e un attimo dopo nell’ingresso risonò un altro sparo. Il proiettile andò a conficcarsi nel soffitto, ben al di sopra della testa di Rafter, riducendolo a un comune mortale. Quando il barbone spianò di nuovo la pistola su di me, annuendo, fui lieto di soddisfare la sua richiesta entrando nella sala riunioni alle spalle di Rafter. L’ultima cosa che vidi all’esterno fu Madame Devier che tremava terrorizzata dietro la sua scrivania, con le cuffie intorno al collo e le scarpe dai tacchi alti parcheggiate di fianco al cestino.
L’uomo con gli stivali di gomma sbatté la porta dietro di me e agitò in aria la pistola, tenendola bene in vista perché tutti e otto i nostri avvocati potessero ammirarla. Senza dubbio funzionava bene: l’odore degli spari era più forte di quello del barbone.
La sala era dominata da un lungo tavolo coperto di documenti che solo qualche secondo prima erano sembrati terribilmente importanti. Su un lato una fila di finestre si affacciavano sul parcheggio. Due porte davano in corridoio.
«Contro il muro» disse usando la pistola come una sottolineatura. Poi me la puntò molto vicino alla testa e aggiunse: «Chiudi a chiave».
Ubbidii.
Senza fiatare, gli otto avvocati si addossarono alla parete. Senza fiatare, sprangai in fretta e furia le porte cercando con gli occhi l’approvazione del barbone.
Per non so quale ragione continuavo a pensare all’ufficio postale e alla spaventosa sparatoria provocata da un dipendente rancoroso che dopo la pausa pranzo era rientrato armato di un autentico arsenale e aveva fatto fuori quindici colleghi. E pensavo ai massacri nei campi di gioco. E a quelli nei fast-food.
In quei casi le vittime erano bambini innocenti e cittadini perbene. Noi invece eravamo un branco di avvocati!
A forza di grugniti e pressioni con la canna della pistola, il barbone allineò gli otto avvocati contro il muro e quando si ritenne soddisfatto di come li aveva sistemati, rivolse a me la sua attenzione. Che cosa voleva? Era in grado di fare domande? In tal caso avrebbe avuto tutto quello che voleva. Non vedevo i suoi occhi per via degli occhiali scuri, ma lui vedeva i miei. La pistola era puntata a quell’altezza.
Si tolse il lurido trench, lo ripiegò come se fosse nuovo e lo posò al centro del tavolo. Sentivo di nuovo il cattivo odore che mi aveva infastidito in ascensore, ma ora non era più importante. Si piazzò a un’estremità del tavolo e si sfilò lentamente lo strato successivo, costituito da un voluminoso cardigan grigio.
Sotto, all’altezza della vita, c’era una fila di candelotti rossi, che il mio occhio inesperto giudicò fossero di dinamite. I cavi elettrici che come spaghetti colorati uscivano da sopra e sotto ciascun candelotto erano tenuti insieme da pezzi di nastro adesivo argentato.
Il mio primo istinto fu di precipitarmi verso la porta e sperare in un colpo di fortuna, sperare che mancasse il bersaglio mentre armeggiavo con la serratura e che poi sbagliasse di nuovo mentre mi tuffavo in corridoio. Ma le ginocchia mi tremarono e il sangue mi si congelò nelle vene. Dagli otto allineati contro il muro si levarono gemiti ed esclamazioni soffocate, che contrariarono il nostro sequestratore. «Silenzio, per piacere» ordinò nel tono di un professore paziente. La sua calma mi disorientava. Si sistemò alcuni degli spaghetti che aveva intorno alla vita, poi da una tasca degli ampi calzoni estrasse un gomitolo di corda di nylon gialla e un coltello a serramanico.
Per precauzione agitò la pistola davanti alle otto facce inorridite. «Non voglio fare male a nessuno» ci rassicurò.
Bello da sentire ma difficile da prendere sul serio. Contai dodici candelotti rossi, sicuramente abbastanza da farne una cosa istantanea e indolore.
Poi la pistola fu di nuovo su di me. «Tu. Legali.»
Rafter ne aveva abbastanza. Avanzò di mezzo passo. «Senti, amico, ci vuoi dire che cosa vuoi?» chiese.
La terza pallottola gli sorvolò la testa e rimbalzò inoffensiva contro il soffitto. Sembrò una cannonata. Nell’atrio una donna strillò, forse Madame Devier. Rafter si chinò involontariamente e mentre cercava di rialzarsi, il potente gomito di Umstead lo colpì in pieno petto, rispedendolo contro la parete.
«Zitto» ringhiò Umstead.
«Non chiamarmi amico» disse il barbone e la definizione fu immediatamente scartata da tutto il gruppo.
«Come vuole che la chiamiamo?» domandai, intuendo che stavo per essere eletto portavoce degli ostaggi. Parlai con la massima delicatezza e grande deferenza, e lui apprezzò il mio senso del rispetto.
«Mister» rispose. Mister andava bene a tutti, senza eccezione.
Squillò il telefono e per un istante pensai che volesse sparargli. Fece invece segno di passarglielo e io glielo piazzai davanti, sul tavolo. Lui sollevò il ricevitore con la sinistra. Nella destra impugnava la pistola, che era ancora puntata su Rafter.
Se avessimo dovuto metterla ai voti, il primo capro espiatorio sarebbe stato Rafter. Per otto voti a uno.
«Pronto?» disse Mister. Ascoltò per qualche istante, poi riappese. Indietreggiò adagio fino a toccare la poltrona a capotavola e si sedette.
«Prendi la corda» mi disse.
Li voleva legare per i polsi. Tagliai la corda e strinsi i nodi, facendo del mio meglio per non guardare in faccia i miei colleghi mentre affrettavo i preliminari della loro dipartita. Sentivo la pistola dietro di me. Voleva che li legassi bene e io feci finta di stringere più forte che potevo, mentre mi adoperavo per lasciare i legacci il più possibile allentati.
Rafter bofonchiò qualcosa e mi fece venir voglia di prenderlo a sberle. Umstead riuscì a flettere i polsi in maniera che, quando ebbi finito, la corda sarebbe potuta scivolare via come niente. Malamud sudava e aveva il fiato corto. Era il più anziano, il solo socio tra i presenti, e due anni prima aveva avuto un infarto.
Non potei fare a meno di guardare Barry Nuzzo, l’unico amico che avevo nel gruppo. Eravamo coetanei, trentadue anni, ed eravamo entrati allo studio nello stesso anno. Lui era stato a Princeton, io a Yale. Le nostre mogli erano entrambe di Providence. Il suo matrimonio andava bene, tre figli in quattro anni. Il mio era all’ultima fase di un lungo processo di deterioramento.
I nostri occhi s’incontrarono. Stavamo pensando tutt’e due ai suoi figli. Io mi sentii fortunato a non averne.
Giunse lo stridio della prima di molte sirene e Mister mi ordinò di chiudere le veneziane delle cinque vetrate. Eseguii metodicamente e intanto guardai nel piazzale sottostante, come se farmi vedere potesse in qualche modo salvarmi. C’era un’auto di pattuglia, solitaria, vuota e con i lampeggianti in funzione; i poliziotti erano già entrati.
E lassù c’eravamo noi, nove ragazzi bianchi e Mister.
Secondo l’ultimo conteggio, la Drake & Sweeney aveva ottocento avvocati in uffici sparsi per tutto il mondo. Metà di loro erano a Washington, nel palazzo nel quale Mister aveva appena cominciato a seminare il panico. Mi ordinò di chiamare “il principale” per informarlo che era armato e imbottito di dinamite. Telefonai a Rudolph, il socio responsabile della mia divisione, l’antitrust, e riferii il messaggio.
«Stai bene, Mike?» mi chiese. Ci parlavamo al nuovo telefono di Mister, con il volume alzato al massimo.
«Benissimo» lo rassicurai. «Ti prego, fate quello che vuole.»
«Che cosa vuole?»
«Ancora non lo so.»
Mister ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’avvocato di strada
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Capitolo 17
  21. Capitolo 18
  22. Capitolo 19
  23. Capitolo 20
  24. Capitolo 21
  25. Capitolo 22
  26. Capitolo 23
  27. Capitolo 24
  28. Capitolo 25
  29. Capitolo 26
  30. Capitolo 27
  31. Capitolo 28
  32. Capitolo 29
  33. Capitolo 30
  34. Capitolo 31
  35. Capitolo 32
  36. Capitolo 33
  37. Capitolo 34
  38. Capitolo 35
  39. Capitolo 36
  40. Capitolo 37
  41. Capitolo 38
  42. Capitolo 39
  43. Nota dell’autore
  44. Copyright