Perché tu mi hai sorriso
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Perché tu mi hai sorriso

  1. 152 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Perché tu mi hai sorriso

Informazioni su questo libro

È estate e Nora decide di restare nella casa della propria infanzia, zattera di ricordi e struggimenti, accanto alla madre, che una malattia rara condanna al silenzio. Entrando in una stanza incustodita, Nora scopre muti testimoni del tempo: lettere d'amore, albi di fumetti, dischi in vinile, un fortepiano da restaurare e un segreto che affiora improvviso e violento _ il certificato di nascita macchiato d'inchiostro di una bambina, forse una gemella, che nasconde l'ombra di un possibile infanticidio e scatena un'ansia cauta di indagini. Nora metterà alle corde la madre e cercherà di scoprire la verità. Fino all'ultimo respiro e al colpo di scena finale. La risposta arriverà e avrà il sapore di una liberazione per entrambe. Un atto d'amore inaspettato, ambiguo ma pieno e profondissimo. L'unico possibile.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
eBook ISBN
9788852034312

Lacrymosa

È una faccenda tra te e me, adesso.
I comprimari ci hanno lasciato la scena. La ballata di Luisa Cogliati nata Brivio, volge al termine. La storia di un grumo prigioniero di un corpo rotto, una fiaba moderna nella quale nessuno vive mai a lungo sazio e contento. Le tue ossa sono tenute insieme da stracci di pelle che ti cascano addosso, il costume del personaggio sbagliato, nell’opera sbagliata. Un esile Don Giovanni camuffato da Falstaff che ha zittito la sua risata indecente.
La luce è fioca e chissà perché l’hanno abbassata, in fondo si muore una volta sola e ci vorrebbero dei gran riflettori. Il momento è solenne e io dovrei soffrire, ma qualcuno ha dato un anestetico alle emozioni e non immagino nemmeno come andrà, quando tutto sarà andato a posto.
In questa trappola per topi, ipnotizzata dalla visione di noi due, la vista indebolita per il troppo guardare, non sento nulla di diverso dal respiro dell’attesa.
Dalle stecche della veneziana filtrano raggi sbilenchi che ti illuminano il necessario perché io possa mandare a memoria questa immagine di sinistra letizia. I pendenti di rubino che ho scelto per il congedo scintillano ai tuoi lobi, frivoli come bonbon. L’acidità del vomito sale alla bocca, è metallo fra i denti. Mi cedono le ginocchia. Credo sia normale, è la prima volta che vedo mia madre morire. Diranno di me, la figlia ha avuto un crollo, oppure è andata in pezzi, come se fossi un ponte, una chiesa, l’albergo bombardato dai kamikaze. Come se questo dolore fosse di troppo e invece è nell’ordine delle cose. Fa sempre così, bussa con timidezza, poi senza tante storie ti abita, un inquilino abusivo che rifiuta lo sfratto.
Stai passando dall’essere al non essere più.
«La morte avviene quasi sempre per cause respiratorie.»
Lo hanno ripetuto fino alla nausea i soloni e ora eccola, l’atrofia del tuo diaframma, lo spago teso a pochi millimetri dai tuoi polmoni blocca l’invisibilità dell’ossigeno che dovrebbe soffiare vita. L’elastico si muove all’insù e all’ingiù, l’angelo lo tira a guisa di fionda ed espira fiato tiepido sulla punta delle mie dita. Immagino il lindo laboratorio della tua cassa toracica. Vorrei spalancarla, lasciare che i corvi allarghino le ali nere e volino via.
Non c’è grazia nello stantuffo di gas infetto che sputa la tua maschera.
Non c’è eleganza neppure nel mio comportamento.
La morte raccomanda silenzio, ma io la interrompo perché sono un’infedele.
Siedo di nuovo accanto a te, mamma.
Sollevo il tuo polso nel terrore di non sentire più il suo festoso picchiettio. Caverei dal bulbo i fili e il sondino che tu stessa – se potessi guardarti – giudicheresti esteticamente indecenti. Strofino il palmo della tua mano ossuta con le dita a pennello, ti tratto come uno dei miei pezzi di legno. Non c’è più tempo per una fiaba, per i tuoi distratti “c’era una volta”. C’è “adesso” e basta, per noi. Una donna profumata di colonia e una ragazzina imperfetta e ingrata e tirannica e capace di ogni efferatezza. Un corpo che racconta la sua storia, il segno roseo dell’appendicite, i peli radi del pube, la cicatrice dell’intervento al polmone, il mascara sulle ciglia.
Siamo noi. Io di qua, tu di là da una sponda.
Sono venuta qui con un senso di fastidio, ho pensato che avresti potuto emanare un cattivo odore.
E non c’è niente di più seccante di una madre che puzza.
Devi sapere che questo passaggio dalla tua vita alla mia morte mi terrorizza. E il tuo respiro sempre più ansante, la voce malferma, l’equilibrio sempre più labile non sono certo d’aiuto per avere un poco di lucidità.
Mi assilla, in uno schivo ronzio, la parola “orfana”.
Quando uno muore si dice che ha perso la sua battaglia contro il male. Qual è stato il tuo nemico, mamma? Ripetimi che non sono stata io.
Mi spoglio e mi corico accanto a te oscenamente nuda. Sento addosso il peso che ti blocca il torace e il castigo di chi non è riuscita a parlarti per tempo. Incollata a te, fianco contro fianco, una stoffa impalpabile ci separa. Intreccio le tue anche ossute, le tue gambe secche come manici di scopa, hai i piedi freddi e non trattieni un brivido, come quando spazzolavi i miei riccioli neri e mostravi gentilezza tra i nodi che nascevano come formicai tra i miei capelli.
Dipano la foresta di cannule trasparenti che ci separano e appoggio la mia guancia sul tuo seno. Allungo il braccio sul grembo dal quale nasco nuovamente, mi abbarbico a quello che è rimasto della mia mamma di una volta. Permetti che io strisci dentro di te a vigilare i muscoli e i tendini induriti e fermare la loro cieca guerra?
Non avverto più la paura. Solo collera calma.
Avevi una cellula d’uovo qua dentro che, afflitta da ingiusta solitudine, si è spaccata in due. Era il nostro istinto di sopravvivenza, mamma, per suddividere i rischi e aumentare le possibilità di una vita felice. Non ti andava giù, questa coppia così unita, senza rivalità, un’àncora alla quale potersi aggrappare senza chiedere aiuto a estranei. Peso alla nascita: un chilo e ottocento grammi l’una, un chilo e novecento grammi l’altra. Poco più di tre chili in due, mamma. Non ci avremmo messo molto ad avere un peso accettabile per essere mostrate alle amiche. Non hai avuto pazienza di aspettare che diventassimo come tutte le bambine normali?
Nessuno avrà pensato a lei, ho chiesto in giro, mamma, nessuno se la ricorda. Faremmo i turni, qui strette alla tua vita che è tornata sottile come un tempo. Suppongo che tu ci tenessi in braccio insieme. Ecco, vorrei sapere: io stavo a destra o a sinistra? Succhiavamo tiepido latte dai tuoi capezzoli scuri come noci un goccio per ognuna. Parlavi con entrambe, mamma, volgendoti ora verso l’una, ora verso l’altra, come se il tuo viso fosse una palla da tennis che ruotava – a passo di barcarole – per indovinare quale fosse la più bella?
E qual era la più bella, mamma?
Era un duplicato di Nora. Un’emarginata moltiplicata per due fa due emarginate. Hai messo me in una culla di vimini, lei dentro il cassetto della credenza. Non avresti nemmeno potuto confonderti. Io sono mora. Lei aveva un velo di lanugine bionda sul cranio con la fontanella molle al centro. Nonostante l’apparenza, al nastro di partenza siamo tutti uguali. Stesse potenzialità, stesse misure, stesse illusioni. Sapevi che ci saremmo raccontate tutto, non appena finita quella messinscena. Ci avresti insegnato a dire “mamma”. E noi giù a sillabare “pa-pa-pa”, e poi “ta-ta”, “tatààà”, “da-da-da”. Motivetti scemi travestiti da ripicca. I bambini sanno essere feroci e noi non saremmo sfuggite alla regola. Sarei stata la seconda anche se non fosse successo, per via della solita questione. La responsabilità dei primogeniti.
Non eravamo un legame, solo due uova dello stesso paniere. Saremmo state bene noi tre insieme. Ti saresti mostrata alle tue gemelle, sbalordita da quella doppiezza e sorretta da un’angustia che mi ha sempre irritata perché non ne ho mai capito l’origine. Mettevi scompiglio fra i miei pupazzi, senza sapere che ognuno di loro aveva un posto assegnato, nome e cognome e, soprattutto, una sua personalità definita. I suoi disegni avrebbero avuto colori più squillanti dei miei.
Cosa avresti desiderato per noi?
È stato un raptus, mamma, anche se Michele sostiene che i raptus sono stratagemmi dei consulenti psichiatrici per scongiurare l’ergastolo al detenuto.
Hai premuto un cuscino ricamato a piccolo punto sul suo nasino a patata. Puf, puf. Puuuf. Fine del respiro. La morte per soffocamento non lascia segni visibili e si spaccia facilmente per disgrazia. Non puoi avere conservato un tale orrore da sola per così tanti anni. Ora papà non può più criticare, arriva sempre il momento in cui affannarsi è inutile, occorre avvicinarsi il più possibile alla verità.
Ho visto la sua tomba, come ti ho detto. Non ha fiori né ghirlande. Né date che contrassegnino un vagito e una esalazione. Come se non fosse mai esistita. E invece c’era, mamma. L’hai lanciata nella buca del flipper come una pallina.
Hai pensato a lei per tutti questi anni?
Hai coperto Margherita con il lenzuolino e sei rimasta a vegliarla.
Cosa facevo io, mentre la guardavi?
Il tuo corpo mi risucchia, la figlia adulta torna nel luogo da dove tutto è cominciato. Bacio i lobi delle tue orecchie dove cascano ciocche d’argento madide di sudore. Avverto una tensione nella tua spalla destra.
Accosto il mio orecchio ancora più vicino alle tue labbra.
Imploro.
Articola le parole e mi sentirò accolta, ristorata.
Prima di lasciarti andare, mi urge, dentro, un’unica risposta che invoca, rabbiosa come le pustole della febbre che ti ha intossicata.
«Mamma, ci sei?»
«Nora, sì.»
Soffi il mio nome dentro la proboscide di plastica agganciata al cordone artificiale che ti trattiene a me. Mi illudo per un attimo che tu stia per scattare in piedi a dirmi: “Ciao, chi sei?”.
Cerco di ricordare la vera voce di mia madre. La sclerosi gliel’ha squamata un poco alla volta. Fremono le ali di una farfalla bianca che è entrata dalla finestra e si è posata sul muro accanto al volto della Madonna che ci osserva sopra la testiera. La suggestione della solitudine sotto questa cupola affrescata mostra segni e prodigi.
«Perché, mamma? Perché non me?»
Il tuo petto si alza e si abbassa come uno stantuffo, ed è come se io vedessi in trasparenza un cuore che ci batte dentro. Cuore rosso. Potente. La gola pulsa come se avesse una noce al centro. Sputala, altrimenti ti soffocherà, lo ha detto il dottore. Emetti un debole lamento, un filo di saliva ti cola all’angolo della bocca. Te lo asciugo con il fazzoletto. Uno spasmo alla mano destra, lo vedo, una contrazione e poi un’altra e un’altra ancora stropicciano il lenzuolo. Le tue labbra tremano come ali di mosca, screpolate di fatica.
Gorgogli il mio nome in un confuso borbottio.
«Nora.»
Ammiro lo sforzo, ma sono io a chiedere, io a imporre.
Io devo tornare normale.
Dare spiegazioni a Fanny.
«Eccomi, mamma.»
Perché quelle fessure dorate nei tuoi occhi? È sorpresa, forse? Ti stringo e vorrei stritolarti di carezze e abbracci e non ritrovarti come un cioccolatino nella scatola quando è già scaduto. Mi stavo affezionando alla moribonda piagata, mi stavo abituando alla cadenza lenta di giornate tutte uguali. Mi mancherà l’appuntamento quotidiano col tuo viso morente e il suo livido colorito.
Non andare via.
È stata la mia estate con te.
Non andartene un’altra volta senza avere collaborato. Per favore, esaudiscimi.
«Perché non me?»
Non sei che un organismo vivente, né più né meno che una foglia di insalata che respira, eppure è un’occhiata d’intesa quella che si sta posando, stupita e viva, viva, mamma! su di me. Sei tutta occhi, “ti vedo, Nora”, dicono questo, sono gli stessi del neonato che vede il mondo per la prima volta. Allora prendi fiato, raccogli le forze rapprese e abbraccia la tua piccola, infame bambina. Ti sto costringendo, lo so, ma le tue facoltà mentali sono intatte e occorre approfittarne. Sono un corpo nudo vicino a te, mi avvolgo nei fili che tengono vivo il tuo respiro. Dalla protesi di gomma che ti sommerge fuoriesce un vagito, il gorgheggio acuto del soprano, il sibilo del serpente prosciugato del veleno, il sussurro del poeta. I tuoi suoni gemono inarticolati. Emetti, ti imploro, l’oracolo che mi preme ascoltare.
Puoi farlo, mamma, tanto siamo sole, tu e io, forse per l’ultima, vera volta.
Ecco, ti sforzi di parlarmi, lo sento con chiarezza, adesso.
Concentrati. Prendi fiato e fai schioccare le parole. Sono l’unica cosa che ci resta.
Perché solo le parole spiegano.
«Perché, mamma?»
Ti sto offrendo una possibilità di redenzione, una pena lieve che allontanerà da te l’incubo della terra che aspetta.
«Perché non me?»
Dal tubo che si allunga ascolto le miserie oscure dell’agonia. Ti sono testimone e interprete. Ti chiamo. Ti tocco. Reagisci. Respiri con la bocca ansimante in un ghigno di tardiva disperazione, ti ribelli con il vigore estremo dell’animale in trappola all’oppressione del soffocamento.
E del non detto.
«Perché non hai ucciso me?»
Il tuo viso si contrae in uno sberleffo.
Dalla tua gola sbuca un sussurro. Roco e profondissimo.
Ecco il tuo definitivo, scomposto rantolo.
Graffi impaziente il lenzuolo con le belle dita fresche di manicure, indichi il cilindro trasparente che ti sovrasta. Vuoi toglierlo, vero? Hai ragione, mamma, ribelliamoci agli ordini del medico e alla signora con la croce rossa sul cappello.
Affrontiamo l’evento a viso aperto.
Ti sgancio delicatamente le cinghie dal capo e il tuo viso, bellissimo, fiorisce come le tue rose nella luce del mattino, giù, in giardino.
Solo un attimo, dottore, la prego, solo un attimo, non si arrabbi. Devo parlare con mia madre.
Ti libero, lo stantuffo si ferma, tu respiri da sola, mamma, sgrani gli occhi, lampare che illuminano il golfo nella notte, all’isola, laggiù. Affondi gli occhi dentro i miei, affluenti che si fondono per correre, liberi, verso il mare aperto.
Non zittire, proprio adesso, l’acuto suadente del corno, ti prego. Squittisci, mio topolino. Pigola, fragile allodola libera dall’inferno della gabbia.
Sbatti le palpebre di cartapesta, in un’ultima strofa d’amore.
Un flusso di adrenalina mi salva dall’incubo, come accade nel travaglio, quando il figlio si annuncia.
Apri il tuo spiraglio color della pece, sulle tue labbra leggo, chiara, la parola “pietà”. Esaudisci la mia atea preghiera: «Perché non hai ucciso me?».
«Perché tu mi hai sorriso, Nora.»

Signor Presidente, Signori della Corte,
mettere ordine nella sequenza degli atti di questa particolarissima indagine significa fare giustizia in una storia che definirei “di ordinario dolore”, senza timore di sottovalutare, con questo termine, il profondo disagio psichico in cui hanno vissuto la mia assistita e la di lei madre, ingiustamente accusata di infanticidio. Tenuto conto delle eccezionali condizioni emotive di una donna trovatasi per sua volontà ad accompagnare la madre verso l’estremo congedo dal mondo terreno, sono qui davanti a voi per sciogliere un capo di imputazione che, analizzato in ogni suo dettaglio, si è rivelato infondato perché insussistente.
Mettere ordine significa dimostrare come l’indagine svolta in assoluta solitudine da Nora Cogliati, mia amatissima moglie, sia interamente frutto di una crescente contaminazione delle fonti dichiarative di un atto di nascita casualmente reperito in un cassetto, nonché di una deviante suggestione emotiva prodotta da ipotesi elaborate sulla base di intuizioni e attraverso un crudele meccanismo di inquinamenti mentali.
Inquinamenti mentali del tutto legittimi e umanamente comprensibili, Signori Giudici!
È bene chiarire subito che la pressione investigativa di Nora Cogliati va considerata conforme ai codici imperscrutabili della fragilità umana a causa dell’oggetto particolare delle indagini, quell’atto di nascita, di ciò che esso rappresenta e che per una serie di avverse contingenze ebbe ad agire come causa degli errori e delle contaminazioni probatorie successivamente elaborate. Noi sappiamo, Signori della Corte, che vi sono diversi approcci metodologici al problema della valutazione della prova. Mettere ordine significa dunque individuare i segni evidenti di quella che defin...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Perché tu mi hai sorriso
  3. a Giò
  4. Where the Streets Have No Name
  5. Home Again
  6. My Way
  7. Come un pazzo a fari spenti nella notte
  8. It’s Too Late
  9. Moonshadow
  10. Mother
  11. Sonata in do minore (moderato)
  12. Moon River
  13. You’re So Vain
  14. Unforgettable
  15. Only Love Can Break Your Heart
  16. Lady of the Island
  17. Father and Son
  18. Sorry Seems to Be the Hardest Word
  19. The Poet Acts
  20. The Heart Asks Pleasure First
  21. The Fountain of Salmacis
  22. Pavane pour une infante défunte
  23. Every Breath You Take
  24. Quintetto per pianoforte in mi maggiore op. 44 (da Fanny e Alexander)
  25. Lacrymosa
  26. La musica
  27. Ringraziamenti
  28. Copyright