Jane Eyre
eBook - ePub

Jane Eyre

Charlotte Brontë, Luisa Reali

  1. 576 pagine
  2. Italian
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Jane Eyre

Charlotte Brontë, Luisa Reali

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Informazioni sul libro

Jane Eyre è unanimamente considerato il capolavoro di Charlotte Brontë. In esso tutti gli eventi e i comportamenti dei personaggi sono in funzione delle svolte psicologiche della protagonista, e quindi, per la riconosciuta valenza autobiografica, della stessa autrice. Rilevanti nel romanzo sono l'immediatezza della narrazione e la capacità di suscitare una curiosità costante per lo sviluppo dell'azione. Mai nella narrativa inglese una donna aveva manifestato e scritto apertamente del suo desiderio per un uomo: Jane-Charlotte racconta invece la sua irresistibile passione per un uomo sposato, e non ha vergogna ad ammetterlo nel suo diario.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852033704

Jane Eyre

Impossibile fare una passeggiata quel giorno. La mattina avevamo vagabondato per un’ora nel boschetto spoglio, ma dopo pranzo (la signora Reed, quando non aveva ospiti, pranzava presto) il freddo vento invernale aveva ammassato nuvole così cupe, e cadeva una pioggia così intensa, che di uscire non era neppure il caso di parlare.
A me faceva piacere. Non ho mai amato le passeggiate lunghe, specialmente nei pomeriggi rigidi. Era terribile per me tornare a casa nel crepuscolo grigio, con le dita delle mani e dei piedi gelate, il cuore rattristato dai rimproveri di Bessie, la bambinaia, avvilito dalla consapevolezza della mia inferiorità fisica di fronte a Eliza, John e Georgiana Reed.
Eliza, John e Georgiana erano ora riuniti in salotto intorno alla mamma, distesa su un divano accanto al fuoco. Circondata dai suoi cari piccoli, che per il momento non litigavano né piangevano, aveva un’aria perfettamente felice. Quanto a me, ero dispensata dall’unirmi al gruppo. Le dispiaceva dovermi tenere a distanza – così aveva dichiarato – ma finché non avesse sentito da Bessie, o non avesse potuto constatare lei stessa, che facevo seri sforzi per acquistare un carattere più socievole e infantile, modi più amabili e vivaci, un atteggiamento più aperto e franco, più normale in un certo senso, doveva proprio escludermi dai privilegi destinati a bambini soddisfatti e felici.
«Che cosa dice che ho fatto, Bessie?» chiesi.
«Jane, non mi piacciono le critiche e le domande; è davvero sgradevole una bambina che si rivolge agli adulti in quel tono. Va’ a sederti da qualche parte, e finché non sarai in grado di parlare in modo gradevole, rimani in silenzio.»
Me la svignai nel piccolo tinello attiguo al salotto, dove c’era una libreria. Mi impadronii di un volume, scegliendone attentamente uno illustrato. Salii sul sedile della finestra e, tirati su i piedi, sedetti con le gambe incrociate alla turca; chiusi la tenda di damasco rosso e mi sentii doppiamente protetta.
A destra la vista mi era preclusa dai panneggi scarlatti della tenda; a sinistra i vetri chiari della finestra mi riparavano, senza separarmene, dalla triste giornata di novembre. A intervalli, ogni volta che sfogliavo le pagine del libro, osservavo l’aspetto di quel pomeriggio invernale. L’orizzonte si perdeva in un biancore di nebbia e nuvole. Più vicino a me, il prato umido e il boschetto battuto dalla tempesta, sotto la pioggia incessante incalzata selvaggiamente dal lungo e lamentoso soffiare del vento.
Ritornai al mio libro, La storia degli uccelli d’Inghilterra1 di Bewick. Il testo in genere mi interessava poco; eppure c’erano pagine introduttive che, sebbene fossi una bambina, non avrei potuto ignorare. Erano quelle che si riferivano ai ripari degli uccelli marini, “le rocce solitarie e i promontori” di cui erano i soli abitatori, le coste della Norvegia, con la frangia di isole all’estremo sud, Lindeness o Naze, al Capo Nord
dove il Mar Artico con ribollenti
vortici l’isole nude dell’ultima
Tule circonda; e il flutto atlantico
le procellose Ebridi batte.
Né poteva passare inosservata per me la visione suggestiva delle coste desolate della Lapponia, della Siberia, dello Spitzbergen, della Nova Zembia, dell’Islanda, della Groenlandia, con “la vasta cerchia della Zona Artica e quelle regioni sperdute, quel serbatoio di gelo e di neve, dove immensità di ghiaccio, ammassato in centinaia di inverni, accumulato vetta su vetta, circondano il polo, e raccolgono moltiplicati i rigori del freddo estremo”. Di quei regni della morte bianca mi facevo un’idea mia, vaga come tutte le nozioni capite soltanto a metà che riempiono la mente infantile, ma stranamente impressionante. Il testo delle pagine introduttive si collegava alle illustrazioni e dava un senso alla roccia che si ergeva solitaria su un mare di onde spumeggianti, al battello arenato su una riva deserta, alla fredda, malinconica luna che contemplava un naufragio attraverso gli spiragli delle nuvole.
Non saprei dire quale sentimento aleggiasse nel cimitero solitario, con le iscrizioni sulle pietre tombali; il cancello con due alberi a fianco, l’orizzonte basso, il muro diroccato intorno, e la luna nuova che accompagna l’ora della bassa marea.
Il demonio che alle spalle del ladro schiacciava a terra la refurtiva, non lo guardavo: era per me fonte di terrore.
E così l’essere nero, cornuto, seduto in solitudine su una roccia, che guardava dall’alto la folla lontana attorno a un patibolo.
Ogni immagine raccontava una storia, spesso misteriosa per la mia comprensione infantile, per i miei incerti sentimenti, eppure sempre profondamente interessante. Interessante come le storie che a volte nelle sere d’inverno ci raccontava Bessie, quando le accadeva di essere di buon umore. Portava il tavolo da stiro accanto al caminetto della stanza dei bambini, ci permetteva di sederci intorno, e mentre ripassava le gale di pizzo della signora Reed e increspava gli orli delle cuffiette da notte, alimentava la nostra ardente immaginazione con storie d’amore e d’avventure tratte da vecchie fiabe e antiche ballate; o, come scoprii in seguito, dalla Pamela2 e da Enrico, conte di Moreland.
Con il Bewick sulle ginocchia mi sentivo felice. Felice, quanto meno, a modo mio. Temevo soltanto di essere interrotta, e puntualmente venni interrotta. La porta del tinello si aprì.
«Ehi, madama Tumistufi!» gridò la voce di John Reed. Ma subito si fermò perché nella stanza non vide nessuno.
«Dove diamine è?» continuò. «Lizzy! Georgy! (chiamando le sorelle) Jane non c’è. Dite alla mamma che quella brutta bestia è uscita sotto la pioggia.»
“Ho fatto bene a tirare la tenda” pensai, sperando ardentemente che non riuscisse a scoprire il mio nascondiglio. E da solo non ne sarebbe stato in grado, perché non era sveglio né di occhio né di immaginazione, ma appena si affacciò nella stanza, Eliza disse immediatamente: «Di certo è nel vano della finestra, Jack».
Allora uscii subito, perché tremavo all’idea di essere trascinata fuori da “Jack”.
«Che cosa vuoi?» chiesi con goffa timidezza.
«Devi dire: “Che cosa vuoi, signorino Reed”» rispose. «Voglio che vieni qui» e, sedendo su una poltrona, mi indicò con un gesto che dovevo avvicinarmi e stargli davanti.
John Reed era uno scolaro di quattordici anni, quattro più di me che ne avevo soltanto dieci; alto e robusto per la sua età, con una carnagione pallida e malsana, i lineamenti grossi nel viso largo, le membra pesanti, le mani e i piedi grandi. A tavola si ingozzava di cibo, e così stava male e gli venivano gli occhi spenti e le guance flosce. Avrebbe dovuto essere in collegio, ma sua madre lo teneva a casa un mese o due “per la sua salute cagionevole”. Il signor Miles, il direttore, diceva che sarebbe stato benissimo se da casa gli avessero mandato meno torte e dolci, ma il cuore materno rifiutava una spiegazione tanto aspra e preferiva, con maggior eleganza, attribuire il pallore del figlio al troppo studio, e forse alla nostalgia di casa.
John non sentiva molto affetto per la madre e le sorelle, e per me provava avversione. Mi tiranneggiava e mi maltrattava, non due o tre volte la settimana, o due o tre volte al giorno, ma continuamente. Ogni nervo in me lo temeva, ogni muscolo si contraeva al suo avvicinarsi. In certi momenti mi sentivo impazzire dal terrore che mi ispirava, perché non avevo nessuno a cui rivolgermi per difendermi dalle sue minacce e dai suoi maltrattamenti. I domestici preferivano non offendere il signorino prendendo le mie parti contro di lui; e la signora Reed, su questo punto, era sorda e cieca; non lo vedeva mai picchiarmi e non lo sentiva insultarmi, sebbene facesse ogni tanto entrambe le cose in sua presenza, ma più spesso, è vero, dietro le sue spalle.
Avevo l’abitudine di obbedire a John, e mi avvicinai alla sua sedia. Lui rimase per tre minuti a tirarmi fuori la lingua quanto poteva senza strapparla dalle radici. Sapevo che mi avrebbe picchiato e, mentre aspettavo con timore il colpo, riflettevo su quanto fosse brutto colui che mi avrebbe colpito. Forse mi lesse in viso il pensiero, perché a un tratto, senza aprire bocca, mi assestò un colpo violento. Vacillai e, riacquistando l’equilibrio, arretrai di qualche passo.
«Questo» disse «è per la sfacciataggine con cui hai risposto alla mamma poco fa, e per il modo furtivo di nasconderti dietro la tenda, e per lo sguardo che avevi negli occhi due minuti fa, vipera!»
Abituata ai maltrattamenti di John Reed, non pensavo mai a rispondere, ma soltanto a come sopportare il colpo che sarebbe venuto dopo l’insulto.
«Che cosa facevi dietro la tenda?» mi chiese.
«Leggevo.»
«Fammi vedere il libro.»
Tornai alla finestra a prenderlo.
«Non hai il diritto di prendere i nostri libri. Sei una dipendente, dice la mamma. Non hai denaro: tuo padre non te ne ha lasciato. Dovresti chiedere l’elemosina, e non vivere con ragazzi di famiglia signorile come noi, mangiare quello che mangiamo noi o vestire a spese della nostra mamma. Ti insegno io a frugare tra i miei libri, perché i libri sono miei. Tutta la casa è mia, o lo sarà tra pochi anni. Va’ vicino alla porta, ma tienti lontana dallo specchio o dalle finestre.»
Obbedii, senza capire subito che intenzione avesse. Ma quando sollevò e soppesò il libro e poi lo vidi sul punto di scagliarlo, istintivamente mi tirai da parte con un grido, tuttavia non abbastanza in fretta. Il libro, scagliato, mi colpì, e io caddi battendo la testa contro la porta e mi ferii. La ferita sanguinava e mi faceva male. Il mio terrore aveva varcato i suoi limiti, seguito ormai da altri sentimenti.
«Sei cattivo,» gridai «crudele! Sei come un assassino, un mercante di schiavi, sei come... gli imperatori romani!»
Avevo letto La storia di Roma3 di Goldsmith e mi ero fatta un’opinione su Nerone, Caligola, eccetera; avevo anche fatto dei paragoni che non avevo mai pensato di esprimere ad alta voce.
«Come, come?» gridò lui. «Come mi hai chiamato? Avete sentito, Lizzy e Georgy? Credi che non lo dica alla mamma? Ma prima...»
Mi si scagliò contro. Sentii che mi afferrava i capelli e la spalla. Ma aveva attaccato una creatura disperata. Vedevo davvero in lui un tiranno, un assassino. Mi sentii scivolare lungo il collo una o due gocce di sangue, sentii il dolore della ferita alla testa: queste sensazioni dominarono per un momento la paura, e lo accolsi come una forsennata. Non so bene dove misi le mani, ma lui mi chiamò «Vipera! Vipera!» e cominciò a urlare. L’aiuto per lui non tardò. Eliza e Georgiana erano corse dalla signora Reed, che si trovava di sopra, e lei entrò, seguita da Bessie e dalla signorina Abbot, la sua cameriera. Ci separarono. Sentii dire: «Ma guarda! Che arpia ad aggredire il signorino John!».
«Si è mai visto un tale spettacolo di violenza?»
La signora Reed aggiunse:
«Portatela nella stanza rossa e chiudetecela.» Quattro mani mi afferrarono immediatamente e mi portarono su per le scale.
II
Mi dibattei per tutto il tempo: era una cosa nuova in me, e rafforzò la cattiva opinione che Bessie e la signorina Abbot erano pronte ad avere di me. In realtà avevo perduto il controllo; ero fuori di me. Sapevo che un solo istante di ribellione mi aveva già attirato terribili castighi e, come ogni schiava ribelle, ero decisa, nella mia disperazione, ad andare fino in fondo.
«Tenetele ferme le braccia, signorina Abbot: sembra un gatto infuriato.»
«Che vergogna, che vergogna!» gridò la cameriera. «Che condotta scandalosa, signorina Eyre, colpire il signorino, il figlio della vostra benefattrice! Il vostro padroncino.»
«Il mio padroncino? E come può essere il mio padroncino? Sono una serva io?»
«No, siete meno di una serva, perché non fate niente per mantenervi. E adesso sedetevi e pensate alla vostra cattiveria.»
Mi avevano ormai portato nella stanza indicata dalla signora Reed e mi avevano gettato su uno sgabello. Il mio primo impulso fu di balzare in piedi come una molla; due paia di mani mi fermarono immediatamente.
«Se non starete tranquilla, dovremo legarvi» disse Bessie. «Signorina Abbot, datemi la giarrettiera; la mia la romperebbe subito.»
La signorina Abbot si voltò per liberare una gamba robusta dei legacci richiesti. Quei preparativi per legarmi e l’ulteriore ignominia che implicavano servirono a calmarmi un po’.
«Non prendetele,» gridai «non mi muoverò.»
E come garanzia delle mie parole mi afferrai al sedile con le mani.
«Badate bene di non farlo» disse Bessie. E quando fu certa che mi stavo davvero piegando, lasciò andare la stretta. Allora tutte e due incrociarono le braccia e mi guardarono con aria cupa e inquieta, come dubitassero della mia salute mentale.
«Non ha mai fatto così» disse infine Bessie rivolgendosi alla cameriera.
«Ma la violenza ce l’aveva sempre dentro» ribatté l’altra. «Ho detto più volte la mia opinione sulla bambina alla signora, e la signora è d’accordo con me. È una ragazzina sorniona: non ho mai visto una bambina della sua età fingere così bene.»
Bessie non rispose; ma un momento dopo, rivolgendosi a me, disse: «Rendetevi conto, signorina, di dovere gratitudine alla signora Reed: se dovesse mandarvi via, sareste costretta ad andare all’ospizio!».
Non avevo nulla da obiettare a quelle parole. Non mi erano nuove. Nei primi ricordi della mia esistenza trovavo allusioni di quel genere. L’accusa di dipendere dagli altri suonava al mio orecchio come un ritornello, doloroso e avvilente, ma comprensibile solo in parte. La signorina Abbot rincarò:
«Non dovete credere di essere sullo stesso piano delle signorine Reed e del signorino John soltanto perché la signora ha avuto la bontà di permettere che siate allevata insieme a loro. Loro avranno molti soldi e voi non avrete nulla: dovete essere umile e cercare di rendervi gradita.»
«Queste cose le diciamo per il vostro bene» aggiunse Bessie senza asprezza nella voce. «Dovreste cercare di rendervi utile e gradita; allora forse avrete una casa qui; ma se diventerete violenta e sgarbata, certo la signora vi manderà via.»
«Inoltre» disse la signorina Abbot «Dio la punirà. La morte potrebbe colpirla in una di queste crisi di rabbia e allora dove andrebbe? Venite, Bessie, lasciamola. Non vorrei avere un cuore come il suo per niente al mondo. Dite le preghiere, signorina, quando sarete sola, perché se non vi pentite, magari verrà giù dal camino a portarvi via un’entità cattiva.»
Uscirono tutte e due, chiudendo la porta a chiave.
La stanza rossa veniva usata assai di rado; o piuttosto mai, se non quando un’inconsueta folla di visitatori a Gateshead Hall rendeva necessario sfruttarne ogni possibile spazio; pure, era una delle camere...

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Stili delle citazioni per Jane Eyre

APA 6 Citation

Brontë, C. (2013). Jane Eyre ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3301815/jane-eyre-pdf (Original work published 2013)

Chicago Citation

Brontë, Charlotte. (2013) 2013. Jane Eyre. [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3301815/jane-eyre-pdf.

Harvard Citation

Brontë, C. (2013) Jane Eyre. [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3301815/jane-eyre-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Brontë, Charlotte. Jane Eyre. [edition unavailable]. Mondadori, 2013. Web. 15 Oct. 2022.