1 NOTIZIA SUL TESTO
Non poco spaesati nella serie delle Laudi questi Canti della guerra, la cui titolatura definitiva, meglio della provvisoria e poi liquidata Asterope (che fra le Pleiadi nupsit, appunto, Marti), vale subito a significare l’eccentricità della raccolta rispetto alle precedenti. Si tratta del resto di un assemblaggio occasionale di odi, canzoni e salmi che scandiscono il calendario della «guerra sacra e giusta»: lo stesso diarismo, insomma, delle innumerevoli pagine di lotta di comando di conquista, doppiato da composizioni qui proposte separatamente, ma talora concepite proprio come parti integranti dell’oratoria di piazza o di trincea.
Nell’avventurosa biografia del poeta, segnata da vicende spesso sconcertanti e comunque tali, sempre confusi i piani arte-vita, da presupporre l’artificio o, peggio, il mendacio, fa spicco per sincera partecipazione la parabola del guerriero. E nessuno stupore desta intanto il precoce interventismo del d’Annunzio, la cui prima testimonianza è consegnata all’ODE POUR LA RÉSURRECTION LATINE (13 agosto 1914) e a riposte annotazioni di taccuino (cfr. T LXIX-LXXII dell’estate ’14), visto che già agli albori del secolo il primo libro delle Laudi aveva inneggiato alla «sola igiene del mondo», e con toni così decisi – si pensi al Canto amebeo della guerra di Maia – da avvincere, nel 1903, insieme con nazionalisti e corradiniani, il giovane Morasso, già ligio seguace di Cantelmo, ben presto sodale di Marinetti.
Ed erano anni, oramai, che il d’Annunzio si era fatto portavoce di un insistito e aggressivo contra barbaros. Risuonava infatti – si ricorderà – per bocca del velleitario eroe delle Vergini delle rocce, senza contare i corollari dello slogan disseminati nei dialoghi con Hérelle. Le provvide Notolette dell’amico traduttore, conservando le battute dell’estate ’95, illustrano l’antica perentorietà della posizione dannunziana: «Si les races latines veulent se preserver de la mort, il est temps qu’elles reviennent au salutaire préjugé qui a fait la grandeur de la Grèce et de Rome: croire que, hors des races latines, il n’y a que barbarie». Il navigare necessario, con il quale si aprono le Laudi, all’insegna poi del mito «mediterraneo» del piloto re d’Itaca, nasceva non a caso come obiezione polemica nei confronti del Kaiser; anzi, pare proprio che il d’Annunzio intenda riappropriarsi, praticandolo di nuovo, del motto plutarchiano attribuito a Pompeo (quel navigare necesse est, vivere non est necesse che, dopo aver scandito Maia, sarà destinato a suggellare Merope), poiché Guglielmo va facendone l’emblema di mire minacciose: «Lorsque Guillaume veut se donner un air de grandeur, il ne trouve à dire que quelque mots impruntés à Plutarque, et il se pare théâtralement de quelques lambeaux de porpre romaine» (Lettere a G. Hérelle, p. 35).
Innumerevoli antefatti, dunque, motivano e documentano il tempestivo interventismo dannunziano. E si capisce bene d’altra parte dove andasse a parare la polemica antitedesca, contraltare scontato del vate «mediterraneo»: si allude ovviamente all’obiettivo delle «terre irredente». Già al tempo di Alcyone il sogno istriano della terra lontana non mancava di additare, al di là della preziosa intonazione trobadorica, il luogo di una nostalgia alquanto inquieta. Ma si sa: persino nelle Odi navali l’estroverso cantore «adriatico» non si era limitato a inaugurare, a lato dell’Armata d’Italia, il suo trasporto per la torpediniera; in più, senza reticenze, si era rivolto con intenzione a Trieste, vedova e orfana, ora fiduciosa del riscatto (l’alta speranza non è scossa / ne l’anima fedele), ora trista e frustrata nell’attesa impaziente (cfr. TRIESTE AL SUO AMMIRAGLIO).
Occorre accennare, infine, ridimensionata l’avventura parlamentare con l’irrisoria sollecitudine del deputato, flagrante nelle parche e generiche battute dei comizi elettorali (cfr. per esempio la Laude dell’illaudato, Ric. I, pp. 464 sgg.), a pièces quali la Gloria o Più che l’amore. Testi nietzscheani, usa dire, quant’altri mai, tributari, per giunta, del messaggio distorto o falsificato del solo Nietzsche leggibile a cavallo fra i due secoli. Comunque sia, Ruggero Fiamma o Corrado Brando, proprio attraverso una testimonianza fallimentare («falsi eroi» li giudicava il d’Annunzio sulla scorta anche di Carlyle), suggeriscono qualcosa di più dell’improbabilità del loro ruolo. Se per Claudio Cantelmo l’ora non è scoccata per l’azione, in modo che il Dèspota suggerisce all’alunno di temporeggiare «trasformando» nell’attesa del momento favorevole «l’azione impossibile in poesia vivente» (tale poesia, preciserà a riprova il d’Annunzio in una lettera a Hérelle, è action retenue), con gli eroi teatrali, uomini politici e d’armi, i tempi sembrano invece accelerarsi. E tribuno e conquistatore fanno allora tutt’uno con l’esteta: non per nulla l’ultimo alter ego romanzesco, il Paolo Tarsis del Forse che sì, gioca il proprio destino nella rischiosa impresa icaria.
Bastino i presupposti finora menzionati sul filo resistente dell’estroversione dannunziana a circostanziare il poeta-soldato. La grande guerra lo vede subito fra i protagonisti, dal «maggio radioso» fino al culmine fiumano; ma fra i testi più implicati con la vicenda bellica non sono certo da annoverarsi i Canti della guerra latina quando non ci si arresti al movente occasionale, alla celebrazione di maniera. Nella Licenza della Leda e nel Notturno, insieme con talune pagine memorialistiche del Libro segreto, s’incontra il d’Annunzio non effimero di questi anni. Giustamente, pertanto, i Canti restano elusi, mentre vociani e rondisti guardano invece alla nuova prosa dannunziana, che mette in luce un volto inedito e suggestivo del vate, tutt’altro da quello «impossibile» contro il quale, anzi, intende affermarsi la giovane generazione letteraria.
Ma veniamo alla genesi dell’ultimo libro delle Laudi. Esule in Francia dal 1910, la guerra pone il d’Annunzio in una «situazione terribile», come afferma egli stesso quando confessa di temere, più che la «vile neutralità» italiana, l’intervento a fianco dell’Austria. È il carteggio con Albertini, il direttore interventista e antitedesco del «Corriere della Sera» che ospiterà la maggior parte dei Canti, a rivelare timori e speranze del fuoriuscito (ma ricca di notizie in proposito è anche la testimonianza di Tom Antongini, il solerte factotum di questo torno d’anni). Ed ecco allora: l’ODE POUR LA RÉSURRECTION LATINE parrebbe proprio composta per fugare ogni dubbio presso gli ospiti in guerra (Nous sommes les nobles, nous sommes les élus; / et nous écraserons la horde hideuse), per dichiarare pubblicamente una presa di posizione senza equivoci. L’efficacia del pronunciamento è sicura e ne prenderanno subito atto gli amici del poeta: Barrès, Rolland (che annota nel «Journal de Genève»: «Kipling et d’Annunzio chantent des hymes de guerre, Barrès et Maeterlinck étonnent des péans de haine»), o un Adam grato e commosso: «Nous relisons sans cesse, et les larmes aux yeux, l’Ode qui transporte les coeurs autant que les esprits» gli scrive in una lettera, e aggiunge «Pour nos idées latines, pour leur objectivité dans l’alliance des nations formées par Vénus-Uranus, votre génie fait le miracle. Que c’est beau, que c’est grand! Chacune de vos paroles illumine l’avenir! Merci à genoux» (le lettere inedite di Adam sono rese note da G. Tosi, La vie et le rôle de d’Annunzio en France au début de la grande guerre, 1914-1915, Firenze 1961, pp. 24-25).
Lo stesso scopo dell’ODE dovevano sortire i quattro sonetti per la FRANCE CROISÉE, ai quali si affianca ora l’intenzione di proporre in Francia una raccolta di «canti di guerra e di odi navali» (di riesumare, insomma, con astuta puntualità un passato lontano e recente che possa comporre una pre...