«Preferisci il papà o lo yogurt?»
Era una domanda di rito. Sin dai tempi dell’infanzia. Ne celava tante altre, vuoi più bene al papà o alla mamma, vuoi più bene al papà o alla maestra, al papà o a Louise, al papà o al resto del mondo? Suo padre ha sempre pensato che Laure ne mangiasse troppi di yogurt. A lungo andare, pare che abbiano un’azione decalcificante.
L’amore che suo padre riceve non è mai abbastanza. Soffre perché si sente trascurato, soffre per il vuoto che si crea attorno, a poco a poco, senza nemmeno accorgersene. Anche lui soffre di un male strano, un male che lo consuma. Distrugge tutto, le relazioni, i sentimenti.
Laure ha conosciuto la signora Bauer la sera in cui questa è piombata nella sua stanza dicendole che aveva dei bei calzini. Dei calzini da tennis. Qualcuno le aveva detto che “la ragazzina in fondo al corridoio aveva dei biscotti tondi”. E la signora Bauer aveva giusto un buchino allo stomaco. Laure ha estratto la sua scorta di madeleine, biscottini Lu, wafer e gallette al burro, ce n’è per tutti gusti, si serva pure. La signora Bauer l’ha guardata con occhi pieni di riconoscenza. A vederla così, stretta in una vestaglia lisa, non si direbbe, ma nel 1935 è stata eletta Miss Austria. Si è scusata di essere così vecchia e così poco curata.
Da allora, la signora Bauer non perde occasione di mostrarle la sua fotografia nelle vesti di Miss Austria. Tutti i giorni va ad attingere alle scorte di Laure. Quando tenta di tornare nella sua stanza, sbaglia sempre porta ed è costretta a scusarsi mille volte. Si preoccupa del decoro dei camici che le fornisce l’ospedale. Laure prova compassione per quella donna, per la solitudine che trasuda dalle sue pantofole, per il corpo avvizzito che si intravede sotto la vestaglia. È sempre più evidente per Laure che sotto la dicitura “reparto di gastroenterologia” si raduna una variegata tribù di gente fuori luogo. Tossici, malati di ulcera, anoressiche, disadattati e rimbambiti di ogni sorta che gemono in coro. Giovani depressi e vecchi malfermi. La signora Bauer divide la stanza con un’altra donna anziana, che si sente urlare fin dall’altro capo del corridoio. È una specie di tiranno di terza età che passa le sue giornate a dare ordini assurdi alla signora Bauer. Lei li esegue senza discutere, con estrema gentilezza, scusandosi in continuazione di non essere più rapida, o di non riuscire a trovare lo scialletto rosso che la donna ha preteso che le portasse seduta stante. Non potendo alzarsi dal letto, la vecchia sbraita e si lamenta di continuo, anche quando la signora Bauer non è in stanza. La porta è perennemente aperta, e i suoi monologhi interrotti da urla invadono il corridoio. Reclama la padella, le infermiere, i medici, la caposala, dispensa saggi consigli ad amici immaginari che camminano sull’orlo di un precipizio, non guardare giù, per nessun motivo, non guardare, fai un passo di lato, piano piano, aggrappati alla roccia alla tua sinistra, puntellati con il piede, riesci a sentirmi? Laure avverte il panico nella sua voce, la morte che si avvicina.
Laure si preoccupa troppo per tutte quelle persone anziane che gemono, strillano, implorano. Per loro, sarebbe pronta a dar fondo a tutte le sue scorte di biscotti tondi, e anche quadrati. In fondo, lei ha il privilegio di avere diciannove anni e tutta la vita davanti. La signora Bauer l’ha dissuasa. Devi tenerli per te, una ragazzina così magra, è un vero peccato… Anouk continua a portarle quintali di cibo. Laure lo mette da parte, e ogni giorno dedica qualche minuto a riordinare le provviste. Non è affatto sicura di volersi portare a casa tutta quella roba, il giorno in cui uscirà.
Gli inservienti fanno una breve pausa nella sala comune. Jocelyne legge delle riviste, mentre Régis gioca a ramino con il vecchio russo, che da quando il muto è stato dimesso soffre di solitudine. All’improvviso, si sentono gli zoccoli della caposala. I due alzano la testa contemporaneamente e gettano uno sguardo interrogativo a Laure, che è seduta di fronte al corridoio. Sì, arriva da quella parte. In un attimo, sistemano le carte, fanno sparire il giornale e si mettono sull’attenti. Laure comincia a essere di casa.
Ci vuole un bel coraggio a smettere di mangiare, le dice una sera una signora con la vestaglia trapuntata.
Laure non prova nemmeno a dare spiegazioni. Le risponde solo no signora, il coraggio non c’entra.
Il dottor Brunel avrebbe saputo cosa dire. Il digiuno come forma di onnipotenza, come un’armatura. A digiuno, il ghepardo è in grado di affrontare ogni pericolo. E anche la lumaca di mare.
A digiuno, Laure si sentiva più forte, inaccessibile. Ora è diverso.
Quando si fa sorprendere dal dottor Brunel di cattivo umore, con i nervi a fior di pelle, quando crolla in sua presenza, scossa dalla rabbia, Laure sa che ormai non è più in gioco la sua sopravvivenza, ma la sua guarigione. Vorrebbe riprendersi il corpo che ha deposto ai piedi di quell’uomo, non solo perché spesso ha dei calzini di colore discutibile, ma anche – non glielo può ancora confessare – perché non è sicura di voler rinunciare alla propria ribellione. Apre gli occhi e vorrebbe urlare a squarciagola quanto sia terrorizzata dai progressi che sta facendo.
«Se con un colpo di bacchetta magica potessi regalarti dieci chili, li accetteresti?»
Laure non regge il suo sguardo, abbassa gli occhi.
Risponde di no. Il dottor Brunel sorride e Laure vorrebbe essere tra le sue braccia.
La porta si richiude, al suono di un soffietto.
Di notte, le infermiere vanno a spurgare la pompa. Laure dà una sbirciatina, si rigira nel letto. Deve cercare a tutti i costi di non perdere il sonno, altrimenti Lanor prenderà il sopravvento. Di notte, Lanor è più forte del sondino, rosicchia, assorbe, inghiotte tutto. Si strafoga. Resiste, è come un organo ribelle che bisogna mettere a tacere. Perseguita Laure con sottili raggiri, la persuade della sua pietosa inutilità, dell’inevitabile ricaduta che la attende. Le impedisce di dormire, o riempie i suoi sogni di carne cruda, odori disgustosi, patatine intrise d’olio.
Ma Laure la stringe tra le braccia. Sa di stringere troppo forte il mostro che ha dentro, un mostro cieco che si rifiuta di ingrassare, una ragazzina come lei, colpevole di non voler crescere, colpevole di aver abbandonato la sorella.
Il dottor Brunel parla dell’euforia del digiuno che Laure continua a riprodurre pur avendo ricominciato a mangiare, dei meccanismi che inducono il suo cervello a ricreare uno stato simile. È nuda come la lumaca sazia che di notte la divora dall’interno.
Le fanno male le guance che si riempiono, le rotondità che si delineano a poco a poco, soffre per tutta quella carne che le prolifera addosso come una protesi che cresce in modo esponenziale.
Il dottor Brunel sa tutto. Intuisce sempre quando Laure ha bisogno di lui. Ogni sera, lei spera di riuscire a imbrogliarlo, di riuscire a recitare la parte della ragazza disinvolta e ricoperta di lardo, quella che accetta tutto il grasso che produce suo malgrado, quella che ha capito tutto. Vorrebbe convincerlo che può terminare il lavoro da sola, che è fuori pericolo. Fedele alla sua visita quotidiana, il dottor Brunel si siede sul letto, la mette alla prova, la osserva con occhio critico. Ogni sera, trova la frase o la domanda che coglie nel segno – hai l’aria molto tesa –, ogni sera Laure si tiene tutto dentro per qualche minuto, sostiene il suo sguardo con arroganza e poi esplode in un fiume ininterrotto di lacrime e muco. Riempie montagne di Kleenex, e tra i singhiozzi disillusi farfuglia qualche parola di dolore. Sdraiata sul letto, si vergogna. Vorrebbe sciogliersi all’istante. Come una bustina di zucchero in una tazza di tè bollente.
Inesorabile e anoressica, vede quanto si somigliano queste due parole, ha detto Laure. Ma il dottor Brunel non ci crede.
«È strano essere di nuovo in tenuta da città, dopo tutte le settimane trascorse qui dentro. Tu invece, poverina, dovrai pazientare ancora un po’. Certo, rispetto a quando sei arrivata, hai una bella cera. Anche il corpo è migliorato, ma ne hai di lavoro da fare, c’è ancora tanta di quella carne al fuoco! Ah, ah! È proprio il caso di dirlo! Ad ogni modo, sono venuta a salutarti, sai, mi fa comunque un certo effetto andarmene da qui. Mi hanno trovato un posto in una casa di riposo nel Loiret, pare che sia l’ideale per le convalescenze sotto supervisione medica. Perché sai, anch’io non l’ho ancora sfangata. Certo, non è la stessa cosa. Nel tuo caso, dipende tutto da te. Sai, è inevitabile affezionarsi alle persone che ci circondano, in ospedale nascono nuove amicizie. Così ho pensato di regalarti questa boccettina di acqua di rose, non l’ho mai usata, fa molto bene alla pelle, la ammorbidisce. Tieni, senti che buon profumo che ha. Quanti chili devi aumentare prima di uscire? Ah però! Ma se non butti il cibo nel water, prima o poi ce la farai. L’importante è che continui a mangiare regolarmente anche a casa, che non ci ricaschi. Perché sai, la tua è una patologia ad alta probabilità di ricaduta. Le malattie mentali sono così, a volte sono incurabili. La donna algerina che stava sempre nella tua stanza, pare che sia almeno la quinta o la sesta volta. Dopotutto, è una questione di volontà. Bene, bisogna che vada. Il mio taxi arriverà tra un quarto d’ora. Vado a casa di mio cugino, che stasera mi accompagnerà in casa di riposo. Be’, ti auguro comunque buona fortuna. Mi ha fatto piacere conoscerti.»
La Blu gira i tacchi. Stavolta indossa un orrendo cappotto color malva. Sulla porta della stanza, Laure la guarda allontanarsi. Per poco non le scende una lacrima. Non si può essere così sensibili. Ci manca solo che agiti il fazzoletto, ringraziandola per tutti i monologhi che le ha inflitto, per tutte le sciocchezze trite e ritrite che sciorinava, non c’era verso di tapparle la bocca. Ma è la verità, a Laure dispiace quasi che se ne vada. La solitudine sprigionata da quelle persone butta giù di morale, tutto qua.
In una fotografia scattata qualche giorno prima del ricovero, Laure scopre di avere il volto irrigidito in una smorfia. La stessa che solo ora le persone osano descriverle. Lo sguardo fisso, il viso tirato, la pelle quasi trasparente. Un giorno, un’amica le racconta che quando avevano appuntamento usava degli stratagemmi per spiarla a sua insaputa prima che arrivasse: si nascondeva dietro una colonna o dietro la pensilina dell’autobus per avere il tempo di abituarsi alla sua vista. Dicono facevi talmente impressione, avevi l’aria così determinata, così lontana. Non sapevamo più come affrontarti, cosa dirti, eri inaccessibile. Anche noi facevamo degli sforzi per digerire la situazione. La guardavano deperire mantenendo le distanze, con una sorta di sconsolata rassegnazione. La maggior parte di loro taceva, faceva come se niente fosse, oppure si allontanava fischiettando. Alcuni hanno smesso di frequentarla, ma altri hanno iniziato a preoccuparsi seriamente. Laure pensa alle persone che non l’hanno mai abbandonata, che continuavano a cercarla, che andavano a trovarla, senza mai ricevere niente in cambio. Prometteva feste, cinema, cene, che puntualmente disdiceva, rimandava, annullava. Si riempiva l’agenda di appuntamenti e sprofondava ogni giorno di più nella sua solitudine. Si destreggiava tra pretesti, scuse e imprevisti perché non ce la faceva più, ma non riusciva a dire, molto semplicemente, non riesco più a stare seduta, ecco tutto, continuo a bruciare il mio corpo dall’interno perché mi dà una sensazione di calore. Non riusciva a confessarlo. Quando ha perso anche la voce, gli amici tendevano l’orecchio e le chiedevano preoccupati se fosse raffreddata. Solo Tad la rimproverava, non è possibile, Laure, che cosa vuoi, merda, che cosa stai cercando di fare? Una volta, Laure le aveva risposto voglio morire. Tad era insorta, era fuori di sé, si era messa a urlare non è vero, Laure, se avessi voluto morire l’avresti fatto molto tempo fa, hai tutti gli strumenti per sapere che esistono metodi molto più drastici. Laure non aveva pianto, aveva esaurito da tempo tutte le lacrime, se ne era andata sbattendo la porta. Avrebbe voluto essere capace di ringraziare Tad, l’avrebbe fatto solo molti anni dopo.
Quando Laure era bambina, sua madre voleva morire. Parlava del suicidio come di un gesto molto nobile, ma anche molto triste. Il fratello di sua madre era morto quando Laure aveva dieci anni. Si era sparato un colpo in testa. Quella mattina, era sceso a comprare il suo solito litro di latte. A Laure era rimasto impresso quel particolare assurdo che aveva udito di straforo durante una conversazione, era sceso a comprare il suo solito litro di latte. Qualche tempo dopo, anche il cugino di sua madre si era suicidato. Non si sa se anche lui avesse fatto la spesa. Si sa solo che, con il passare degli anni, queste tragedie consumano le famiglie, le fanno a pezzi. Sua madre aveva perso il suo terzo fratello, sua madre diceva vivere è uno sforzo immenso. Sullo specchio del bagno, aveva scritto con il rossetto: “Sto per crollare”. Per giorni, forse per settimane, Louise e Laure si sono lavate i denti con la morte della madre tatuata sul viso. Quando rientravano da scuola, avevano paura del silenzio. Paura di trovarla lunga distesa sulla moquette grigia.
Vivere è uno sforzo immenso. Sono le stesse parole che Laure ha sulla punta della lingua, parole che la proiettano in quella catena di ferite ancora intatte.
Quando è arrivata in ospedale, al posto del sedere aveva un solco tra le natiche largo quanto una trincea. Doveva reggersi il termometro con la mano per non farlo cadere. Si sedeva sul letto come se le ossa le perforassero la pelle. Ogni settimana, riscontra dei miglioramenti, fa l’inventario dei suoi progressi. I giorni di convalescenza si rassomigliano, Laure si rassomiglia. Ripesca chissà dove dei dettagli squallidi. Tutto l’aceto che versava sull’insalata, tutta l’acqua frizzante che tracannava per aiutare la corrosione fisica. Ripensa alle serate che trascorreva, con la schiena appoggiata al calorifero, a copiare le ricette di cucina dalle riviste. Le sistemava nei raccoglitori: vitello, manzo, crostate, pasta. Le catalogava. E le metteva anche in pratica, quando viveva ancora a casa di Tad, preparava torte, cucinava intingoli, senza mai assaggiarli, senza mai bagnarci nemmeno il mignolo. Le piaceva rimpinzare Tad e gli amici che passavano a trovarle, vederli cedere davanti a una delizia mandorle e cioccolato, servirsi una fettina via l’altra per pura golosità. Laure non toccava niente. Al mattino, scendeva a comprare i cornetti, metteva lo zucchero in tavola. Bisognava abbuffarsi per farla felice. Maledetti quelli che non avevano fame, perché tra lei e gli altri c’era una differenza che bisognava sempre rimarcare.
Io non ci ricascherò, ha scritto sul quaderno. Più che una certezza, una formula magica. Vorrebbe crederci. Ad ogni modo, è risaputo, non bisogna mai ricongelare un prodotto scongelato.
Stasera, Laure si è seduta su una poltrona a fumare una sigaretta. Le porte sono tutte chiuse, le infermiere fanno l’ultimo giro. Nella sala comune, si chiacchiera aspettando il sonno. Una signora anziana è uscita a piccoli passi dalla sua stanza. Ha dichiarato che doveva correre a prendere il metrò. Erano le dieci di sera, e la vestaglia aperta lasciava intravedere un corpo glabro e rinsecchito. Per prima cosa, ha chiesto a tutti quale fosse il prezzo attuale di un biglietto del metrò poi, fidandosi di Laure “la parigina”, ha estorto cinque franchi a Miss Austria che le ha augurato più volte buon viaggio, buona fortuna, forza e coraggio! Ha fatto il giro del corridoio dieci volte di seguito. Con i suoi cinque franchi in una mano, e nell’altra un biglietto usato che le avevano dato le infermiere. A ogni giro, passava davanti al piccolo gruppo divertito, si fermava, stupita di trovarsi ancora nello stesso punto, chiedeva qualche informazione aggiuntiva e ripartiva, ogni volta incoraggiata dalla signora Bauer, che le raccomandava di sbrigarsi per non perdere l’ultima corsa. Laure ha suggerito che forse sarebbe stato più saggio attendere l’indomani. Dopo una buona decina di giri, l’intrepida signora si è decisa a rinviare la spedizione. Accanto a Laure, il signor Centotrenta-chili – e dài e dài, qualcuno in meno – ha constatato con amarezza che se fosse stato da solo quella scena non l’avrebbe per niente divertito. In quel preciso istante, dall’altro capo del corridoio, una donna ha urlato portatemi la padella. Laure si è alzata e ha riguadagnato la sua stanza, percorsa da un brivido.
Laure ha abbandonato le riviste. Ora usa i fogli Canson per ritagliare delle silhouette. Uomini e donne di colori diversi che incolla con cura, sistemandoli uno di fronte all’altro, in fila indiana o che si danno le spalle. Sono sempre in movimento, non ingrassano mai.
Una sera, Laure trascina Julia in una delle sue piccole fughe al tramonto. Julia non si lascia convincere tanto facilmente, ha paura di essere scoperta, potrebbero pensare che sia uscita per procurarsi l’eroina. Su, ti farà bene un po’ d’aria, una sana ventata di periferia. Julia finisce per accettare. Vanno a bere un tè in un bar di boulevard Ney. Julia trema un po’. Ha il viso pallido, le labbra quasi trasparenti. Nonostante tutte le pastiglie che prende durante la giornata, è come una spugna. Permeabile. Vulnerabile.
Aspettano solo che il tempo passi. Bisogna che il tempo passi per andare avanti, per uscire da quell’ospedale. Contano le ore, i giorni, sono sfinite.
La Blu è stata rimpiazzata da un’anoressica di prima categoria. Se lo venisse a sapere… Laure sorride all’idea di scriverle una cartolina da Parigi, cara Marie-France, si figuri che appena ha voltato le spalle, non contenti di essersi finalmente sbarazzati di lei, hanno sistemato al suo posto uno scheletro, uno vero, mi creda, che si aggira in fuseaux per i corridoi, tanto per esibire ancora un po’ la sua magrezza (come è giusto che sia).
Dopo aver perso qualche decina di chili d’acqua, Catherine è stata dimessa, con una terapia da seguire e qualche raccomandazione. Aveva fretta di rivedere suo figlio. Il signor Accappatoio-con-le-palme si sta riprendendo a fatica dalla settimana di completo digiuno che gli hanno inflitto. Dice che il momento peggiore era quando sentiva il cigolio della tartaruga, quando arrivava mezzogiorno e sapeva che gli altri si sarebbero seduti davanti al vassoio. Dice che a volte si metteva a piangere. La...