Catrame
eBook - ePub

Catrame

  1. 154 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Fumo di asfalto colloso nella spossante Milano estiva delle periferie. Tra le case popolari di Calvairate, il quartiere dormitorio di Quarto Oggiaro e il carcere di Opera emergono, come strani zombie dal sottosuolo, un suicidio sospetto, un giro di pedofili e un ex terrorista nero evaso. E tra servizi segreti impegnati in grossolani depistaggi, inconfessabili ed esplosive verità e inquietanti parole d'ordine come "indulto", a vent'anni dal delitto Moro l'ispettore Guido Lopez non potrà fare a meno di avvertire l'aria pesante e sporca di un complotto. Un noir dirompente, un groviglio di fili elettrici che affondano nel terreno della nostra storia recente. Un romanzo d'esordio che "con una scrittura adrenalinica" per usare le parole di Fruttero e Lucentini "strappa dal già visto cortili, sotterranei, scali ferroviari, ex macelli", restituendoci una città intensa, ambigua, torbidamente poetica. Vera.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804575368
eBook ISBN
9788852055454

1

Erano quasi sessanta ore che Lopez non chiudeva occhio.
Sessanta ore. Un’eternità. Si vedeva riflesso nel vetro della finestra. Non gli piaceva, normalmente, sorprendersi riflesso nelle vetrine, o in qualche specchio. Gli sembrava di non avere controllo su di sé, improvvisamente estraneo a se stesso, uno spettatore senza corpo che si vedeva passare come un involucro, un oggetto. Adesso, però, era spaventoso: il volto cereo, la marcatura livida delle occhiaie, le labbra pallide e bluastre, le pupille dilatate e spente come quelle di un pesce morto, i peli della barba sfatta spessi e ispidi come filo di ferro. Per un momento Lopez pensò che forse era colpa del riflesso nel vetro della finestra, che la luce al neon sovrapposta a quella del pomeriggio afoso e bianco di Milano combinasse un effetto cosmetico devastante. Poi non ce la fece nemmeno a pensare. Lo prese per un attimo uno sfinimento, uno stordimento doloroso.
Non riusciva a crollare con il capo sulla scrivania e nemmeno riusciva a non crollare. Lo infastidiva la luce lattiginosa dell’afa che entrava nell’ufficio. Si alzò, spense il neon, rimasto acceso dalla notte precedente. Si fermò a boccheggiare alla finestra, dando uno sguardo a via Fatebenefratelli, al pavé rovente, all’asfalto deserto, al cielo grigio e fosforescente della cappa milanese. Poi tornò a sedersi.
Erano state sessanta ore allucinanti e adesso poteva smontare e tornarsene a casa e lasciarsi andare al sonno stagnoso e scomodo dei sopravvissuti. Erano venti anni che Lopez lavorava in Questura e notti in bianco ne aveva fatte molte, per servizio o per scrupolo, divorato dal fuoco di quella prudenza e di quello spreco che i poliziotti condividono con i giocatori d’azzardo e con i medici in turno. Senza calcolo, non importa quante ore venissero divorate dalla febbre che spingeva lui, Calimani, Cingoli o gli altri della Squadra a condurre a termine l’opera. Era bello, poi, uscire all’alba, terminata l’opera, conquistata l’informazione o entrati in possesso del disegno del crimine, girare per le strade di Brera fredde e solitarie, invase dalla luce metallica del mattino di Milano, farsi attraversare dal profumo caldo del pane dietro il forno di via Pontaccio, stirarsi, nel gelo, e fare scricchiolare le suole sulle mattonelle umide di smog e ruggine, prima dell’ultimo caffè, prima di andare a prendere la macchina e infilarsi ognuno nel proprio appartamento, spegnere la coscienza per un po’, lasciarsi andare.
Non da ora Lopez andava accorgendosi che quel tempo era terminato, e come un miope cercava di decifrare ciò che stava accadendo: non solo a lui, ma a tutta la Squadra. Stavano scollandosi, invecchiavano, aumentavano il cinismo e i silenzi, le energie erano calate, improvvisamente. Chiunque era più scettico di un tempo, ora. Tutto era molto cambiato, lentamente, senza che si percepisse quando era iniziata questa stanchezza, questa disfatta difficile da riconoscere. Era come se un amore si fosse spento. La vita andava contraendosi verso un interno buio e muto, senza possibilità di scandaglio. Se ne rendeva conto bene ora, sessanta ore e passa a tenere le palpebre aperte per la volontà di riuscirci senza un fine preciso, senza obbiettivo, sapendo che bisognava farlo per scordarsi di chiedersi perché farlo. Sessanta ore…
Lo avevano chiamato all’improvviso, a casa, nel momento in cui il sonno è duro e profondo, e uno sta nell’ottundimento come un corpo sul fondo del mare. Era squillato il cordless accanto al letto, il trillo lo aveva portato a galla, aveva risposto come un affogato, senza fiato, la bocca impastata, gli occhi chiusi nel buio. «Guido, scusami, è urgente, sono Calimani. È scappato uno da Opera. Vieni, la cosa è grave, sono già tutti qui.» Era Calimani. Era scappato uno da Opera, carcere di massima sicurezza. Se lo chiamavano nel mezzo del turno di riposo la cosa era davvero grave. Lopez si era alzato, aveva aperto le persiane, la luce d’oro nel meriggio di Porta Romana aveva invaso l’appartamento, poi era entrata la folata di caldo. Si era vestito in fretta, era uscito in fretta, era arrivato in fretta in Questura a Brera.
La cosa era grave davvero. Era scappato Cerfoglio. Gianni Cerfoglio era un terrorista dei NAR, se lo ricordava bene, uno implicato nelle bombe, uno che aveva fatto da manodopera alla mafia, uno che importava. Non era tanto grave per il fatto che fosse, dopo dieci anni, la prima fuga dal carcere di Opera, ma proprio perché era un terrorista nero a essere scappato. Lo dovevano sentire i giudici Salvini e Pradella, praticamente il Re Sole e la Regina Elisabetta. Cadeva l’anniversario di Moro. Avevano iniziato a martellare con la storia dell’indulto. Senza contare che Cerfoglio aveva parecchi conti da regolare. Per cui c’era da riprenderlo. Era stato il ministro dell’Interno in persona a chiamare Santovito, il capo della Mobile. Era allertata la polizia di frontiera. C’erano in ballo i Servizi segreti (a due ore dalla scoperta della fuga!), Santovito aveva fatto un briefing ai ragazzi, tremando e fumando. In Questura scorreva adrenalina. C’erano personaggi mai visti prima («Sono dei Servizi» gli aveva detto Calimani). Venti ore andate solo nella stesura dei piani di blocco, nelle lunghissime elencazioni dei collaboratori da sentire, tutta una piazza vecchissima di contatti da risvegliare. Erano davvero più di dieci anni che gli ex terroristi non si muovevano, e bisognava riattivare i contatti, era come mettersi a fare il massaggio cardiaco a uno morto già da un giorno. Poi c’erano i sopralluoghi a Opera. Erano andati a Opera, allora, avevano fatto il sopralluogo. Risultato nullo. Cerfoglio era scappato durante l’ora d’aria. C’era un tunnel scavato sotto le mura più interne, che sboccava nel corridoio aperto tra la prima e la seconda cinta. Di lì si era arrampicato (unico momento in cui l’ufficiale della polizia carceraria di stanza in torretta doveva averlo visto), si era buttato nel corridoio tra il secondo e il terzo blocco di mura, aveva compiuto metà perimetro e si era infilato in un nuovo tunnel, che gli avevano scavato dall’esterno. Quest’ultimo cunicolo si apriva nelle campagne, a un centinaio di metri dal carcere, proprio tra le siepi del golf. Lopez nemmeno sapeva che esistesse un campo da golf nei pressi del carcere. Interrogati: praticamente tutti. Dalla vedetta carceraria all’ultimo degli inservienti del golf. Compagni di detenzione. Possibili testimoni occasionali. Lopez era uscito per incontrare due vecchi contatti, Rollo e il Bistecca, ex tossici della Trecca. Zero. Nessuno sapeva di una possibile fuga di Cerfoglio. L’ambiente non si era mosso. Un fulmine a ciel sereno. «Figurati se si muovono» aveva detto il Bistecca. «Ora c’è l’indulto, forse. Stanno tutti calmi. Anzi, adesso mi sa che ce l’hanno a morte con Cerfoglio.»
E ancora la notizia non era trapelata. Santovito stava facendo il suo, aveva mobilitato tutti gli uomini della Questura Centrale. La cosa, evidentemente, era però più importante di quanto si potesse immaginare. Il ministro dell’Interno era riuscito a tenere segreta la notizia. Sui quotidiani, il giorno dopo, non una riga. Ancora ventiquattr’ore di silenzio. Senza i giornalisti si lavorava bene. Eppure erano già tutti stanchi. Una notte in bianco e già tutti erano spossati, scettici, svogliati. Calimani incominciava a stare in piedi appoggiandosi ai muri, Cingoli si stendeva sui divani, De Grada era scosso da quella frenesia che arroventa le ultime ore: ed erano soltanto all’inizio. Ventiquattr’ore di copertura dalla stampa trascorse a fare bilanci. Santovito coordinava le riunioni delle squadre investigative, poi riportava ai responsabili dei Servizi. Telefonate, appostamenti ma niente blocchi. Lopez era uscito per andare a vedere la casa della moglie di Cerfoglio, viale Misurata, piena periferia, sul tratto di circonvallazione più fetido e sbrecciato di Milano. Un palazzone anni Cinquanta, in vernice verde marcio annerita da anni di scarichi e di smog. Una squadra si era appostata sotto casa a pochi minuti dalla scoperta della fuga da Opera. La moglie non sapeva nulla, era certo: non un sintomo di nervosismo. Assoluta ignoranza della cosa. Era uscita, aveva fatto la spesa. Due telefonate: alla madre e al medico per un certificato. La sera, televisione. Poiché lavorava a casa (collaborava con uno studio d’architettura), la mattina successiva l’aveva passata alla scrivania, a disegnare progetti (Lopez aveva visto le foto scattate dal terrazzo della casa di fronte). Poi aveva chiamato un pony e gli aveva dato il rotolo dei disegni. Il pony era stato fermato all’uscita, il rotolo era stato aperto: c’erano solo disegni. A quel punto bisognava andare a prelevarla. C’era andato Calimani, mentre Lopez era tornato in Questura a incontrare Santovito che lo aveva cercato. Era per una riunione con i Servizi. Santovito “nervosissimo”, più del solito. Prima di entrare in riunione gli aveva detto: “Questa storia puzza. Troppa gente a lavorarci attorno, troppi Servizi”. Non sapeva niente, Santovito. Era ancora scosso dalla telefonata del ministro degli Interni. Formalità con i Servizi. Era arrivata sera. I telegiornali aprivano con la notizia della fuga. Critiche dell’opposizione al ministro degli Interni. Nuove telefonate. Notte trascorsa a respingere i giornalisti e a parlare con i contatti. Niente.
Il giorno dopo erano saltati fuori degli indizi. Forse i vestiti di Cerfoglio. No. Falso allarme. Sotto torchio l’ufficiale della polizia carceraria: doveva averla vista la sagoma di Cerfoglio, mentre saltava il muro di cinta. Sotto torchio, come al solito (l’esperienza più sensata in tutto il bailamme), l’intelligenza, l’acume, la visione. L’istinto.
Risultati: zero.
Nuova ispezione a Opera: il tunnel non si era interrotto, come sospettato, perché il muro di cinta mediano fosse troppo profondo. Non c’era spiegazione. Bisognava tentare di spiegarlo? Santovito: no, tutte le energie andavano spese per ritrovare il NAR.
E finalmente, dopo sessanta ore, Lopez smontava. Gli altri avevano già finito il turno di riposo. Cingoli era stato il primo a crollare. Calimani tornava adesso (lo aveva chiamato appena sveglio, stava arrivando in Questura). Lopez poteva andare.
Non aveva ancora preparato la mente al lento moto d’avvio per uscire, prendere le scale e andare verso lo stordimento del sonno, che il telefono trillò pesantemente (uno di quei telefoni di plastica grigia, con il disco per la numerazione, e due tasti rossi per gli interni).
«Lopez.»
«Santovito. Passa da me.»
«Sto andando, Giacomo.»
«Non vai, invece. Passa da me.»
Con la mestizia e la rassegnazione dei popoli soggetti a dominazioni secolari, Lopez posò la cornetta pesante. Si alzò, e si accorse di essere appiccicaticcio per il sudore accumulato da sessanta ore: come se una pellicola esterna, collosa e scomoda lo avvolgesse insieme alla pellicola interna, altrettanto invasiva e soffocante, della stanchezza e dell’esaurimento. Uscì lento, sonnambolico, dall’ufficio, trascinandosi dietro la porta e godendo per un attimo del buio nel corridoio. L’ufficio di Santovito stava in fondo, sulla destra. Quante volte aveva percorso con passi assonnati quel tratto consumato dai tacchi degli attendenti, dei colpevoli, dei saccenti e dei vili! Spiando all’interno di un ufficio parallelo al suo, lo sguardo raggiunse una finestra, uscì, percepì che il cielo bianco e soffoco di Milano preparava, forse, un temporale. Sentì nuovamente caldo, si allentò ancora una volta la cravatta (in quelle sessanta ore quante volte aveva ripetuto quel gesto?) e si fermò davanti alla porta dell’ufficio di Santovito, più alta e più pesante delle altre. Quasi sorridendo per la stanchezza che gli infondeva l’idea che esistesse una gerarchia tra le porte, bussò, e le nocche gli fecero male per la solidità del legno «Avanti!» fece Santovito.
Lopez entrò. C’era anche Calimani, fresco come una rosa. Aveva qualche anno meno di lui, Calimani. Recuperava ancora bene. Qualche ora di sonno e tutto tornava a posto. Ancora non risentiva di quella specie di clima sudamericano in cui era entrato l’organismo di Lopez e che lo sfiancava il doppio del dovuto.
«Lopez, hai un aspetto che fa schifo» constatò Santovito.
«Lo so.»
«Non vai a dormire, però. C’è dell’altro da fare.»
«E che altro c’è più di quello che stiamo facendo?»
Santovito unì le mani palmo a palmo, come per una preghiera. «C’è un altro incarico, per te.»
«Aspetta. Mi tieni tre giorni interi senza un’ora di sonno su Cerfoglio, e adesso mi dai un altro incarico?»
«Infatti.» Santovito aveva ritratto le labbra, in una smorfia che esprimeva perplessità e imbarazzo al tempo stesso, e anche preoccupazione. Anche Calimani teneva lo sguardo a terra. Lopez capiva che i due avevano parlato prima che lui entrasse, ma gli sfuggiva di cosa, non comprendeva i termini della questione.
«E di cosa si tratta?»
«È un suicidio.»
«Un suicidio.» Lopez tentò di accennare un sorriso, ma era troppo stanco, avvertiva come una tosse incombere dall’interno, e un formicolio alle dita delle mani. «E cosa deve controllare, in un suicidio, un ispettore della Squadra investigativa, mentre il ministero dell’Interno fa un cancan per un ex terrorista fuggito da un carcere di massima sicurezza?»
L’imbarazzo di Santovito era evidente, massiccio, pari solo a un sentore di rabbia repressa, qualcosa di molto lontano, aereo e incombente, come il temporale che gravava su Milano, o la tosse che Lopez sentiva annidata nei bronchi, una specie sotterranea non manifesta, una talpa.
«Guido, se ti ho convocato insieme a Calimani (Calimani lo chiamava sempre Calimani, non lo chiamava mai per nome, e Lopez a questo pensiero sorrise una volta di più), ho le mie ragioni. Che sono queste. Ho la Questura piena di gente dei Servizi. Mi arrivano telefonate dall’alto. Pressioni. Tutte per la fuga di questo Cerfoglio che, va bene, avrà ammazzato qualche compagno ai tempi, avrà avuto i suoi contatti con la mafia, ma non è un pesce tanto grosso da scomodare i Servizi, il ministero, i giudici, eccetera eccetera.»
Silenzio. Lopez sospirò. «Le perplessità le ho avute anch’io, Giacomo. Però non si tratta della prima volta che premono da fuori.» Era vero. I carabinieri avevano le loro gatte da pelare con i Servizi militari, ma anche la Mobile aveva dovuto lavorare per il ministero in molte occasioni, e in molte occasioni in modi “confidenziali”, che a Lopez non erano mai piaciuti, ma che tutti quelli della Squadra avevano dovuto mandare giù come cucchiaiate di bismuto. «E che cosa ha a che vedere il suicidio con tutto questo?»
Santovito guardò Calimani. Calimani deglutì (ora sembrava stanco, stanco quasi come Lopez). «Ho ripreso anch’io i miei contatti degli Ottanta.» I contatti degli Ottanta erano i confidenti che avevano tradito, che avevano pugnalato alla schiena, i delatori che li avevano aiutati a rintracciare tutti i cani sciolti della generazione degli anni Settanta (i più pericolosi, i più tenaci). Negli anni Ottanta era stata una pratica di caccia all’uomo e di killeraggio che aveva impegnato ogni corpo di Polizia del Paese. Una repressione silenziosa, frammentata ma organizzata. Un lavoro sporco, schifoso, che ancora pungeva Lopez con i rimpianti e i sensi di colpa per avere accompagnato e dato forza all’affondo dei congiurati.
Calimani continuò. «Viene fuori questo Careddu, un sardo che ai tempi faceva il galoppino per i tossici di destra. Mi dice che di Cerfoglio non si sa niente, in giro. Però mi dice che qualcuno può saperne qualcosa a Roma, che aveva sentito che si preparava qualcosa giù a Roma, non so se un autofinanziamento per far espatriare qualcuno dall’Italia oppure per farlo rientrare. Careddu mi dice che però lui aveva sentito che la cosa veniva preparata a sinistra, e mi dà il nome di uno che adesso lavora alla Traco, un certo Sergio, che fa il corriere tra Milano e Roma ogni giorno. Vado alla Traco ieri sera, aspetto che rientri questo Sergio. È un tipo alto, massiccio, con il mento pronunciato, due occhi torvi. Appena mi vede, capisce che sono un pulotto, e mi viene incontro. Mi chiede cosa cerco, e io gli dico che voglio sapere se ci sono in ballo movimenti grossi tra gli ex terroristi. Anche il Sergio mi dice che tutti sono tranquilli, stanno calmi per l’indulto, che nel caso i problemi arriveranno dopo, che lavoreremo parecchio dopo quest’indulto. Mi chiede se è successo qualcosa, se hanno fatto fuori qualcuno, se qualcuno è scappato o se ci sono stati colpi importanti. Gli dico di quello che ho saputo da Careddu, lui mi chiede se sono lì per prevenire o per tappare falle. Insomma gli faccio capire che c’è in ballo una fuga, che non è trapelato niente, ancora, ma che sta per scatenarsi un putiferio. Lui mi dice che la storia della rapina a Roma, secondo lui, copriva qualcosa, forse cose di Servizi, che la gente in galera sta piatta, per il momento. Non vuole grane, mi dice che è un anno che lavora alla Traco, che non vuole grane. Mi dice che s’informa. Gli do il telefono di qui. Mi chiama un’ora dopo. Dice che ha saputo una cosa che secondo lui non c’entra niente, ma che comunque mi vuole vedere. Ci diamo appuntamento al Parco Sempione. Vado, aspetto un po’, lui non viene. Sto per andarmene via, quando arriva. Mi dice che ha saputo qualcosa della rapa di Roma. La stavano organizzando da Milano. Avevano il basista. Ma era una roba di balordi, che non c’entrava niente con autofinanziamenti o terroristi. Dice che tra quelli che dovevano scendere si sapeva che c’era un certo Corda, che ai tempi era stato nei NAR, m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10
  13. Epilogo
  14. Copyright