Nuovi Argomenti (67)
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Nuovi Argomenti (67)

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Nuovi Argomenti (67)

Informazioni su questo libro

Hanno collaborato: Carola Susani, Giancarlo Liviano D'Arcangelo, Carlo Carabba, Giulio Messina, Marco Cubeddu, Giacomo Giubilini, Carlo Mazza Galanti, Joan Didion, Simone Ungaro, Sergio Peter, Fabrizio Gabrielli, Tommaso Di Dio, Guido Giovanardi, L. Alvino, A. Cirolla, M. Corsi, G. Meledandri, Francesco Pacifico, Damiano Abeni, Edoardo Albinati, Sara Marzullo, Luca Alvino.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804638117
eBook ISBN
9788852055232






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DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
A cura di Giancarlo Liviano D’Arcangelo

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INSEGUENDO IL TRAMONTO

DIARIO DI UN VIAGGIO IN AMERICA

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Carlo Carabba

INTRO
New England
Siamo partiti che era pomeriggio
inseguendo il tramonto.
Seduti ai nostri posti
guardavamo i palazzi
via via sempre più radi
le macchine cespugli solitari.
Erano le colline
e i boschi inabitati fatti dolci
da qualche rara insegna
pubblicitaria – un neon
con su scritto il mio nome (forse
un lontano parente la cui storia
l’emigrazione il mare la fortuna
non tocca più la mia). Gli alberi verdi e neri
e il sole ancora rosso
fisso davanti a noi
obbligati a cambiare fuso orario.
Schiacciando la mia testa contro il vetro
cercavo il sonno e immaginavo il viaggio
forte dell’incertezza e il desiderio
mi concedevo al gioco adolescente
della malinconia e dei suoi pensieri,
forse la vita è questo
correre incontro a un sole che tramonta
e poi la notte come una sorpresa.
HOODOOS
Bryce Canyon, Utah
“Dicono che i pinnacoli
erano gli abitanti della valle,
l’Anima del Coyote per punirli
soffiò e si fecero roccia.
La forma che avevano un tempo
adesso è scavata dal vento.”
Gli sguardi dei turisti
poco convinti e creduli
s’affrettano a cercare in mezzo ai sassi
cavalli cervi e bufali
che inseguono i fiumi
e ancora i corvi i lupi e gli animali
dimenticati dall’evoluzione.
Si dice cercasse una mucca
il reverendo Bryce
quando finì nel canyon
che da lui fu scoperto e prende il nome.
Dal millenovecentoventiquattro
è un parco nazionale
e oggi a San Lorenzo
posso scrutare il cielo della notte,
cercare le Nereidi – e mentre cadono
esprimo i desideri preparati.
Ma le stelle cadenti
non sono neanche stelle
frammenti di materia che non cade
brucia nell’atmosfera
senza dolore o orecchie
che sappiano captare i miei pensieri.
E sono fatto anch’io della sostanza
che compone le stelle e le comete
agglomerati inerti, gas e ossa
che resteranno qui, su questa Terra,
per essere scoperte nel futuro
da uomini o altre specie intelligenti.
Un’altra parte grande
di me mi tiene in vita ma lo ignora,
organi sangue globuli e piastrine –
prima o poi smetteranno
si faranno concime e nutrimento
che rende la maggese più feconda.
Quanto capitò un giorno agli animali
per trucco e sortilegio del Coyote
succede sempre a tutto quel che vive –
queste le perle ch’erano i suoi occhi...
Ma quando il mio respiro avrà cessato
che sarà di quel centro
che lega ogni memoria e fa sentire
che a me è accaduto quello che mi accadde,
quella cosa vivente
detta carlocarabba
che sempre mentre parlo chiamo io,
coscienza forse troppo materiale
che dicono abbia sede nel cervello
e altri più ottimisti
hanno chiamato eterna ed indivisa
immune alle minacce
della dissoluzione?
Eppure tra ossa e carne,
tra l’atomo e la cellula,
va incontro a sorte incerta
diretta verso il nulla
che più di tutto teme
e non è sonno, premio, né castigo.
OMBRE NELLA MEMORIA
Falstaff, Arizona
Come nel cielo della notte estiva
quella stella cadente che ho perduto
e che il mio amico ha visto, proprio quella
che sola dalla sorte aveva il dono
di trasformare in atto il desiderio,
così a ogni svolta a ogni traiettoria
ho sempre l’impressione di sbagliare
di perdere qualcosa
alle spalle. Se pure in qualche luogo
un occhio alto e immortale
comprende la mia vita in un istante
distingue chiaramente e ne conosce
l’inizio lo svolgimento e fine
quell’occhio non è il mio
e – ignaro del destino
già scritto in un disegno intelligente
o ancora forse invece
nel corso casuale degli eventi
che certo io non posso controllare
e non seguono leggi se non quella
che vuole a ogni momento
che il caso cresca irreversibilmente –
io resto libero certo che ogni mia scelta
avrà una conseguenza decisiva
sospeso tra speranza
e colpa, nell’attesa.
Mi guida la ricerca
di quella sensazione
che sempre sfugge insieme alla conquista,
fine di cui ignoro i mezzi e il contenuto
e ogni uomo di norma
dice felicità.
So che spesso è compagna dell’amore
e provo a cacciare il sospetto
che dietro alla mia urgenza ci sia un trucco
un meccanismo dell’evoluzione
per la sopravvivenza della specie,
a non considerare la statistica
secondo cui di quanti sono al mondo
(e quanti sono stati
e quanti sono ancora da venire)
nell’arco di una vita solamente
ne avremo conosciuti
una percentuale tanto piccola
da non significare
per cui si fa difficile
che proprio in mezzo a loro
e ai quattro o cinque incontri ricambiati
si trovi il vero amore
quello in cui solamente
posso essere io e essere amato.
Eppure abbiamo amato
nel nostro viaggio abbiamo pianto e riso
mentre attraversavamo
diciotto dei cinquanta stati uniti
e dormivamo in dieci
mangiavamo qualcosa in chissà quanti
incontrando persone.
Dall’uno all’altro mare abbiamo visto
tanti volti che se
mai rivedremo
sorrideremo. Oppure resteranno
nascosti nella mente
da scoprire per sbaglio e con piacere,
sagome in chiaroscuro
ombre nella memoria.
LA STRADA PER ST. GEORGE
St. George, Utah
Era mattina presto, verso l’alba.
La macchina l’avremmo
dovuta consegnare a mezzogiorno
nella città di St. George,
novantamila anime di cui
ottantatremila mormoni
(mi domando chi sono
quegli altri settemila).
Il paesaggio era bello passavamo
attraverso alle stesse rocce ad arco
dipinte sulle targhe dello Utah.
Ragazzi di città
cercavamo nel bosco gli animali
come la sera prima
cercavamo nel cielo le comete.
Qualche cerbiatto un cervo,
il desiderio zoppo
di un puma, un orso bruno.
Ma molto più dei cervi abbiamo visto
un animale poco minaccioso.
Si chiama cane della prateria
però è simile a un topo,
è un grosso roditore.
Il pelo marroncino, gli occhi allegri
i denti in bella vista –
sembravano i castori dei cartoni
teneri, intelligenti
e simpaticamente dispettosi.
Da un paio di tornanti
tentavo di seguire un pappagallo
azzurro d’un azzurro tropicale,
visione inaspettata
in mezzo ai monti e ai boschi.
Dietro la curva c’erano due cani
della prateria, uno era morto,
schiacciato da una macchina
qualche minuto prima.
L’altro restava là
gli prendeva la mano, lo scuoteva
voleva troppo tardi
salvarlo dal pericolo.
Chissà se rientrato alla tana
ricordava il compagno sulla strada
se il suo sguardo era ancora triste e incerto
o aveva soltanto ripreso
una vita di istinti e sensazioni.
Io continuo a pensarci
e mi sento fratello di quel topo
che proprio come me
comprendeva l’amore non il lutto.
DA PONTE A PONTE
San Francisco, California
Il primo ponte è grigio e camminiamo
sopra l’acqua tranquilla della baia
verso Ney York, da Brooklyn.
L’ultimo ponte è d’oro e sono solo,
davanti a me l’oceano –
di là mi aspetterebbero
sulle altre sponde popoli
e lingue infamiliari.
In mezzo, tra i due ponti, un continente
fiumi deserti monti e capitali
uomini e donne, tanti, e poi animali
e alberi granito quarzo e vento
e un viaggio, il nostro viaggio, che è finito.
Accanto al finestrino in mezzo al cielo
dal vetro in lontananza terre e campi
perdono il grano e l’erba
si fanno cerchio, rette parallele
che chiudono figure esagonali
poligoni imperfetti e colorati
porzioni d’area che non so contare.
Il tempo dall’aereo è sospensione
seduto in una macchina del tempo
che porta da un presente ormai passato
al futuro che adesso mi è presente
e come ogni presente
mi trova impreparato.
Mi pare già che il tempo
l’unico tempo vero
sia stato superato e sciocco io
non mi rendevo conto che soltanto
era quella la gioia che la vita
mi concedeva, quelle
soste notturne, pullman semivuoti
quel correre di strade, quell’onda quella duna
quella serata lieta.
E se tra morto e vecchio sarò vecchio
e sempre meno mio
sarà il mio corpo il viso,
ogni giorno che strapperò alla fine
sarà passato invano
senza che io mi accorga
che proprio quello era dal destino
il giorno programmato
della felicità.
Resterò ad aspettare
e passerò in rivista ogni ricordo,
un eterno riposo
reciterò per tutti quei me stessi
in un momento vivi
subito dopo morti.

DIARIO COLOMBIANO

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Giulio Messina

1 – L’aria condizionata è al massimo, ma anche così non posso evitare di arrotolare le maniche della camicia ai gomiti e riempire ancora di ghiaccio il mio bicchiere. Il locale è pieno, ogni concorrente ha portato con sé il fidanzato, gli amici e quante più persone è riuscita a trovare. Sembra che il tifo sia una componente essenziale per stabilire la vincitrice. Dodici ragazze, ognuna di un quartiere diverso della città, si contendono il titolo di “reginetta di Cali”. Nadia, la ragazza che mi ospita in casa sua da cinque giorni in questo mio soggiorno colombiano, mi consegna una scheda da compilare e siede al mio fianco, su un divanetto. Ho saputo che concorsi del genere sono frequenti in città, ce n’è uno quasi ogni mese. E tuttavia si respira una certa tensione. Appena si è sparsa la voce che ci sarebbe stato un italiano stasera (un europeo come dicono qui, sfiorando a volte una riverenza imbarazzante), sono stato immediatamente nominato “giurato” del concorso, insieme al proprietario della discoteca e a una stellina della tv locale. Questo ruolo mi diverte, ma adesso comincio a credere di aver accettato con troppa leggerezza: per le ragazze in gara, e soprattutto per i loro sostenitori, è una cosa seria, altro che scherzo. Mi è stato assegnato un tavolino al centro della discoteca, e il privilegio di secchiello con ghiaccio, spessi bicchieri di vetro e rum di buona qualità, di gran lunga migliore di quello che viene normalmente servito al bancone. E per questo sento su di me gli sguardi torvi di altri ragazzi che mi indicano e ogni tanto vengono da me per chiedermi che riempia le loro coppette rigorosamente di plastica. Loro non dicono europeo, ma gringo, con ironia un po’ sprezzante.
La musica si abbassa, la folla smette di ballare per far posto alla sfilata. L’annunciatrice chiama i nomi delle concorrenti, elenca le loro misure, ne sottolinea i punti di forza. Il microfono gracchia e dalle casse parte qualche fischio. I faretti pilotati a mano spesso mancano il bersaglio, le ragazze passano per un attimo dalla luce intensa al buio. Gli applausi e le urla d’incitamento del pubblico sono assordanti. Più che una sfilata, sembra la finale di Champions.
Scribacchio qualche numero sulla mia scheda e la passo a Nadia, che raccoglie anche le altre. Le concorrenti fanno una mezza piroetta e si risiedono, si fanno aria coi ventagli, ricevono carezze di incoraggiamento dalle amiche, cercano di intercettare il mio sguardo con un occhiolino, un sorriso. Nadia mi parla all’orecchio, mi dice di cambiare i voti che ho assegnato, la ragazza a cui ho dato il punteggio più basso – muscoli da lottatore, mascella squadrata, non supera il metro e sessanta – ha grande seguito questa sera, c’è il rischio di una rissa. Correggo senza ribattere.
L’annunciatrice chiama le tre finaliste poi, con una suspense troppo prolungata, si arriva finalmente alla conclusione: lacrime, abbracci, urla liberatorie di gioia sobillate dall’alcol scadente, bestemmie, e intanto Nadia si alza e mi fa segno di andare via alla svelta. Un tavolo viene rovesciato, i cori di vittoria si trasformano di colpo in grida di paura, qualcuno estrae un coltello, la gente nel locale si schiaccia alle pareti come una molla compressa. Afferro la mano di Nadia e vedo già le porte dell’uscita quando il proprietario mi blocca. Dice che fuori dei tizi mi stanno aspettando, è meglio che mi nasconda nei camerini. Nadia mi fa segno di seguirlo, il proprietario mi scorta veloce in uno sgabuzzino. Richiude la porta e mi dice di stare zitto, che verrà a prendermi. Dieci, quindici minuti, e Nadia ritorna, in apparenza più tranquilla, usciamo da una porta sul retro e saltiamo sul primo taxi che passa. Lei ride. Io sono sbiancato. Anche se capisco bene lo spagnolo, in quel momento ho difficoltà a seguirla. Mi dice che le risse alla fine dei concorsi, specie qui in periferia, sono routine, e che gli uomini all’uscita volevano forse vendermi droga come a tutti i turisti, o derubarmi, non è sicura. Solo quando il taxi arriva sotto casa ritrovo la calma. Ad attenderci, in terrazza, i suoi fratelli Rodrigo, Clara, Carlos. Sono le tre di notte passate. Provo a raccontare quello che è successo, Carlos sorride accondiscendente e mi propone una bevuta in salotto. Al terzo bicchierino di aguardiente riesco a sorridere anch’io. Ma ciò non toglie che prima di stendermi a letto passi lunghi minuti a scrutare ogni movimento in strada al riparo dietro le tende della finestra.
2 – Cali è il principale centro industriale ed economico del sud-ovest della Colombia, con due milioni e mezzo di abitanti. Si trova a un migliaio di metri d’altitudine, non distante dal Pacifico. Ma per me che sono qui da una settimana è soprattutto una distesa di case basse, quartieri squadrati, e donne bellissime. Eleganti profili africani, carnagioni chiarissime o ambrate si mescolano in una formidabile varietà di caratteri. Il quartiere in cui vivo al momento, Alfonso Lopez, è piuttosto periferico, agganciato però a una grande arteria commerciale che ha fatto di questa zona un piccolo centro autosufficiente. Nadia, la giovane mulatta che mi ospita in casa sua, ha trentacinque anni e si può dire che mantenga i tre fratelli e un paio di cugini. L’ho conosciuta a Roma, due anni fa, mi è stata preziosa mentre cominciavo a scrivere il mio secondo libro. Tra noi si è creata una bella amicizia. In Italia fa la prostituta. Con il denaro di sedici anni di lavoro ha comprato qui, nel suo paese, quattro appartamenti, ha aiutato la sua famiglia a uscire dalla povertà.
Mentre, come ogni mattina, andiamo a fare la spesa, osservo le donne e gli uomini più anziani seduti davanti alla porta di casa, che si proteggono dal sole violento cercando un po’ d’ombra. È agosto, ventisei gradi. Ma è così tutto l’anno. Non esistono vere stagioni qui, se non i giorni in cui piove costantemente.
I ragazzini giocano a calcio in strada. Il calcio in Colombia, come da noi, è sport nazionale, e quasi una religione. Quando mi vedono passare bloccano la palla sotto i piedi scalzi, istintivamente incrociano le braccia. Mi fissano incuriositi. I turisti non si avventurano in queste zone. Col mio metro e ottanta, la barba scura e la pelle ancora bianchiccia nonostante il sole, non passo inosservato. Alcuni di loro scattano verso di me, mi tirano piano il braccio, poi tornano dagli altri che assistono alla scena ridendo. Ormai è consuetudine, e io sto al gioco. Per loro, forse, è una specie di prova di coraggio. Ripetono gringo, gringo, gringo, ma senza disprezzo come ieri notte al locale, solo per assaporare la distanza fra noi. I più grandi hanno cominciato a salutarmi, e così anche i loro genitori. Quando si fermano a parlare con Nadia, mi osservano con la coda dell’occhio e a volte le rivolgono qualche domanda sul mio conto. Credono che io non capisca, e appena mi sentono rispondere in spagnolo cambiano espressione, stupiti, imbarazzati.
Tra me e Nadia si è stabilito un patto implicito: in cambio della sua ospitalità, provvedo alla spesa giornaliera. Anche se devo comprare per cinque, non arrivo mai a spendere più di una decina di euro, poco più di ventimila pesos ogni mattina. E oltretutto lei sa come far fruttare i soldi: riesce sempre a ottenere uno sconto, una fetta in più di carne dal macellaio, un sacchetto extra di patate, qualche uovo di straforo offerto da un commesso stregato dalla sua sensualità. Se andassi solo probabilmente spenderei almeno il doppio. Ma ciò che mi ha colpito dal primo giorno sono i manichini nei negozi di abbigliamento femminile: hanno tutti la quarta o quinta di seno, e un fondoschiena che sembra sul punto di esplodere. Qui l’ideale di bellezza per le donne è una procacità smisurata. Perciò il sogno di molte ragazze, anche giovanissime, sono operazioni di chirurgia estetica al limite della sopportabilità fisica. E chi non può permettersi una clinica, si arrangia in casa: pur di gonfiare un gluteo, pompare un seno, enfatizzare uno zigomo, ci si inietta ciò che si trova, perfino olio di motori. Nadia mi dice che le morti per questi interventi fai da te sono aumentate negli ultimi anni, è una cosa che ha visto anche fra alcune sue amiche. Peggio che le bestie, aggiunge.
Al ritorno dalla spesa mi accorgo di non avere più contanti e le chiedo di fermarci al bancomat. Ce n’è uno solo da queste parti, e i ladri lo sanno. Di solito non succede niente, ma lei non vuole rischiare. Qualche metro prima della banca ci dividiamo, Nadia attraversa l’incrocio e si posiziona davanti a un fruttivendolo da cui può tenere d’occhio la strada. Io prelevo e faccio come tutti i turisti che si credono furbi: divido le banconote nelle varie tasche degli shorts, infilo la carta di credito in quella che si chiude con la cerniera. Addosso non ho orologio, cellulare, documenti.
A casa, Clara, sua sorella, è già pronta con il grembiule per cucinare. L’edificio in cui vivono ha due piani, Nadia ha voluto che fosse il più bello del barrio, del quartiere. Ogni casa ha un grosso cancello e sbarre alle finestre, ma in questa le misure di sicurezza sono state pensate con più fantasia: al primo piano le sbarre terminano con due piccole sfingi, ricordo di un viaggio di Nadia in Egitto. Il ferro è in parte nascosto all’interno di colonne che salgono a spirale. Nel piccolo cortile antistante le inferriate partono da una statua che dovrebbe rappresentare una ninfa, anche questa con grossi seni e cosce poderose.
Per pranzo, in mio onore, Clara ha deciso per gli spaghetti al sugo di pomodoro. La pasta ovviamente è scotta, il sugo ha uno strano sapore, ma quando mi guarda per avere un parere mi avvento sul piatto. Rodrigo, l’altro fratello, invece li scansa. Il menù prevede, oltre agli spaghetti, riso, fettine di carne fritta con cipolle e insalata. Tutto in un solo piatto. Da bere spremute di frutta, a cui mi concedo di sostituire la birra. Angie, la cugina ventenne di Nadia, storce la bocca quando mi vede bere la mia Heineken. Non è abituata al sapore dell’alcol mentre mangia. Sua figlia Siomara di tre anni...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (67)
  3. DIARIO - Carola Susani
  4. DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE - A cura di Giancarlo Liviano D’Arcangelo
  5. SCRITTURE
  6. POESIA
  7. GIOCHI
  8. RIFLESSIONI
  9. Colophon