Adesso Viola è nella sua stanza. Sul tavolo ci sono ancora i fiori che Paolo ha tolto dalla scatola. Il camino è acceso, oltre la vetrata il cielo è d’un grigio compatto, il mare lontano lambisce la costa con lingue biancastre, nel porto di Augusta solo due navi all’approdo.
“Ci sarà un sole che spaccherà le pietre.”
Ride guardando la pioggia che continua a spargere sugli alberi perline d’argento.
Impertinente il ragazzo. “Vuole un pesciolino rosso? Una cinciallegra? Una spalla su cui piangere?” Impertinente, sì. E però ammirevole nel suo tentativo di rallegrarla. Pure affettuoso.
Pensa a Marta, ai suoi sorrisi che stabiliscono ambiti di appartenenza, priorità fondate su prossimi legami di letto, più forti di quelli intessuti da una madre nei lunghi anni che servono a un bambino per farsi uomo.
Apre l’armadio, cerca la cassetta del cucito. Dispone davanti a sé numerosi ritagli di stoffa, li ordina per consistenza e per colore come le insegnò a fare la balia Ernestina: qui i velluti e le lane, lì i damaschi, i merletti; di qua i toni del turchese e del blu, di là i rossi, i gialli, l’oro e l’argento. Per il centrotavola natalizio che intende confezionare le occorrono velluti rossi e passamanerie dorate. Pure la seta verde. Ricorda che quando era piccola, con questi tessuti sgargianti Ernestina realizzava i mantelli di Orlando e di Rinaldo, gli abiti sontuosi di Angelica, le maniche a sbuffo di Bradamante oltre i bracciali di latta.
Era figlia di puparo, Ernestina, e i pupi erano stati i fratelli con cui aveva diviso l’infanzia. Era rimasta incinta a quindici anni, aveva partorito un bambino senza occhi vissuto appena due giorni, tempo in cui la madre di lei aveva supplicato Dio di ripigliarselo in fretta: che avrebbe fatto quel figlio senza occhi in un mondo in cui ce ne vorrebbe almeno un altro paio per potersi guardare dal male, per sapere dove mettere i piedi senza storpiarsi, per vedere quanto è grande la forma di un pane e quanto bilioso il viso di una malafemmina? Era nato male: niente occhi, e niente qualche altra rotella nella testa che comanda il pianto e la fame; una cosa, pareva, un pupazzo che, dove lo metti, sta. Il padre di quel bambino aveva preferito imbarcarsi per l’America, che in quei primi anni del secolo nuovo risucchiava famiglie in quantità: «Faccio quattro soldi e torno» aveva detto.
«Prima però mi sposi» aveva preteso lei.
E siccome era uomo onesto, l’aveva portata in chiesa e le aveva messo una fede al dito, così nel paese non l’avrebbero detta puttana. Ma quel petto, Signore santo, quelle minne così gonfie e dure che a toccarle gridava, sarebbero state capaci di sfamarne non uno, ma due, tre, di figli! Era un peccato farle seccare, un peccato che il Signore non avrebbe perdonato mai. Così avevano sparso la voce: a qualcuno abbisogna latte? La chiamarono i Fòscari, dove Viola, nata da una settimana, piangeva giorno e notte arraggiata di fame perché dal pettuzzo di sua madre sgorgava appena un’acquerella stenta.
Le braccia di Ernestina, il latte di Ernestina, e il mondo, per quella creatura di una settimana, si era assestato e aveva preso a girare secondo il verso dovuto.
La balia la contemplava: a differenza del suo, quella figlia aveva grandi occhi scuri, vivissimi, allungati verso le tempie. «Due gemme» dicevano i parenti venendo a trovarla. Due gemme, sì, che s’andavano schiarendo in un blu screziato d’azzurro.
Già in quei primi giorni, legata alla bambina come alla carne sua, la figlia del puparo: «Siete principessa, siete?» andava sussurrando. «E principessa di quale lontananza, di quale magnificenza?»
Parole sontuose che s’affollavano nella sua bocca piena delle memorie orlandine e rinaldesche apprese da suo padre il quale, nascosto dietro il telo, faceva svirgolare per l’aria scimitarre e durlindane.
Un sussurro, una ninna: «Principessa siete? E da dove venite? Da quale stella o deserto o pizzo di montagna? Dalla luna forse? O dal fondo del mare?» e le sfiorava gli occhi, rapita dalla meraviglia di quella cosa specchiante che vi galleggiava dentro. «O forse sirena? Forse regina del mare e di tutti i suoi pesci?»
E lei, ormai bimbetta composta e compenetrata: «Principessa di luna a spartivento» rispondeva, con le parole che la balia stessa le aveva insegnato, «e faccio il cuore vostro, e il mio, contento». Un inchino, una mano che si para davanti alla fronte come per proteggere lo sguardo dal riverbero del sole.
«Chi viene? Chi arriva?» domandava Ernestina.
E lei, sporgendosi dalla finestra: «Quattro giganti grandissimi e fieri, e lor nel mezzo una donzella, seguita da un sol cavalieri».3
«E com’è, com’è la donzella?» chiedeva l’altra con voce contraffatta d’uomo.
«Sembra matutina stella, e rosa di verzieri; insomma, a dir di lei la veritate, non fu veduta mai tanta beltade.»4
«E il prode Orlando che dice quando la vede?»
S’arrampicava su uno sgabello, incrociava le braccia sul petto: «Io, che stimavo tutto il mondo nulla, senz’arme vinto son da una fanciulla».5
«Bravissima!» e la prendeva in braccio, la stringeva al petto.
«Ancora.»
«È tardi, ricominciamo domani.»
«Un altro poco.»
«Solo un poco, però.»
«Promesso.»
Le giornate volavano così, in una stanza piena di vecchi oggetti e abiti smessi che Ernestina trasformava in costumi regali: le tazze piumate che si facevano elmi variopinti, i cucchiaioni di rame usati come spade, e i colabrodo come visiere. Una sarabanda di voci e divertimenti, proclami canaglieschi, mori beduini, le facce di nerofumo, le bocche pittate col rossetto e una ragazza e una bambina a improvvisare giostre che non avrebbero scordato per tutta la vita.
Un rullo di tamburo: «Chista ca vi cuntu» declamava Ernestina «è vera storia, scritta supra fatti naturali, pittata supra tila di pitturi e fatta poi parola originali».6
Tamburo e tamburino.
«Chista ca vi cuntu» proseguiva Viola «è storia di bbiddizza e maravigghia, ca mancu tra li stiddi sinn’attrova una ca ci assumigghia.»7
Ma chista ca vi cuntu iu, beddi signuri ca mi stati liggennu, è storia ’i sintimentu c’abbrancica e pazzia, e nun pinsati ca su’ cosi ca nun ponu capitari, nun vi sintiti megghiu ’i chiddi ca paterû duluri e tribulizzi, nun pinsati ca ’u ventu trasi e nesci di li casi senza arrubbarisi nenti, pinsati ca comu ’u ventu è l’amuri: latru e senza rispetto, minnicativu, bastardu.8
Poi era arrivata una lettera di richiamo dall’America: il marito aveva fatto i quattro soldi che sperava, e invece di ritornarsene al paese, voleva che la moglie lo raggiungesse.
Viola aveva sette anni, perché quella disperazione?
«Sei grande, ormai, a che ti serve una balia?» così le dissero, così spensero il sole che aveva acceso bellezza e felicità nella sua vita di bambina.
E adesso, davanti a lei, i rossi e i verdi, i piccoli rombi diseguali che uniti insieme confezioneranno il centrotavola.
La cagnola comincia ad abbaiare con improvvisa inquietudine.
«Buona» la riprende. La cerca con la mano per una carezza veloce, ma quella è già balzata sul davanzale e abbaia ancora più forte.
Il ricordo di Ernestina avvolta nel lungo scialle nero, il viso devastato dal pianto, è ancora troppo amaro dentro di lei e s’intreccia all’odio potente verso l’americano che gliela rubò.
Entra Lietta, pallidissima: «Vi vogliono».
Si riscuote: «Chi?» domanda. Tiene tra le dita un pezzo di velluto simile a quello che una volta le servì per un corpetto di Angelica.
La donna spiccica a stento le parole: «Vostro figlio».
«Giuliano?»
«Fausto.»
Si alza precipitosamente: «Dov’è?».
«Nell’orto.»
Passa correndo di stanza in stanza, imbocca il corridoio, raggiunge la cucina e da qui si precipita fuori, subito investita da una raffica di pioggia che la fa vacillare.
Fausto è in piedi, sorregge una specie di fantoccio. È imbrattato di sangue nei vestiti, nelle mani. La pioggia fa cortina tra lei e loro, le bagna il collo, se la sente scivolare ovunque. Non urla. Cerca di mettere a fuoco le due figure. Si avvicina come in trance.
«Non stare impalata, aiutami» le grida contro suo figlio.
S’accosta, prendono insieme il ragazzo che sembra svenuto. Fausto l’ha riportato in paese col carretto del fattore, protetto da una cerata. Lo trascinano verso casa.
«Cos’è successo?» la voce stenta, atterrita.
«Un colpo» dice, «l’ha preso di striscio.»
«Sparato da chi?»
Non risponde.
«Da chi?» grida.
«Da me.»
Le sembra di morire, e le braccia cedono.
«Ma che fai, lo molli?» le sbraita di rimando.
Riagguanta il ragazzo. Poi guarda suo figlio che ha sul viso un’espressione fredda.
Ne ha avuto di tempo per comporsela: da Pietre Nere al paese il viaggio è lungo. “Fatalità” sembra dire, “destino, che ci possiamo fare?” Due schiaffi lì sotto l’acqua, mettergli a nudo la faccia vera. Le sembra che il terreno sotto di lei slitti. Deve fermarsi.
«Bisogna chiamare subito...» mormora.
«No» Fausto è perentorio. Una perentorietà ridicola.
Due sberle a fargli inghiottire spocchia e parole: «Perché?» ringhia.
L’altro cala le penne: «Paolo non vuole. Ha detto che suo padre l’ammazza».
Sono arrivati sulla soglia della cucina, le donne fanno ressa. Viola le respinge con un cenno del capo.
«Dove lo portiamo?» chiede suo figlio.
«Nella mia stanza.»
Lietta li precede spalancando le porte.
Entrano, adagiano il ragazzo sul divano. È molle, un pupo troppo lungo, troppo freddo.
«A lui penso io» dice a suo figlio, «tu lavati, pulisciti... Rosa!» chiama.
La ragazza si precipita: «Qua sono».
«Corri a chiamare il dottore. Subito!» comanda. «Subito per favore» si corregge smorzando il tono.
Fausto non si muove, la fissa con occhi vacui: «Ti giuro che non lo so com’è successo» mormora arrendendosi al panico che ha cercato inutilmente di nascondere, e che adesso dilaga dagli occhi alla bocca alle narici frementi. «Ho sparato, sì... lui però era da un’altra parte. Invece l’ho sentito gridare.»
«Mi ha preso di striscio» il ragazzo parla senza aprire gli occhi, le labbra smorte.
Viola li guarda con una furia che vorrebbe esplodere in urla, quantomeno in urla. Dalla sua bocca però viene fuori appena un sibilo: «Pioggia, nebbia, che importa, eh?». Li spella con lo sguardo: «I signorini vanno a caccia lo stesso. La tempesta? Fùttisi! Che può essere la tempesta? Un poco d’acqua pisciata da una nuvola di passaggio, no?».
Mai s’è permessa il parlare sboccato che le sta lordando la bocca, mai. E anche ...