
- 252 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Monna Lisa Cyberpunk
Informazioni su questo libro
In un mondo dominato dalla corruzione e dal superpotere scientifico un piccolo gruppo di ribelli e di pirati del ciberspazio sfida il potere tecnocratico e la legge spietata della potentissima Yakuza. Un romanzo brillante e cinico che anticipa un drammatico futuro prossimo a realizzarsi.
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Informazioni
Print ISBN
9788804469667eBook ISBN
97888520545491 - Fumosa
Il fantasma era un dono d’addio di suo padre, portatole da un segretario vestito di nero nella sala delle partenze di Narita.
Durante le prime due ore di volo verso Londra, restò come dimenticato nella sua borsa. Era un oggetto liscio e scuro di forma allungata; un lato portava impresso l’onnipresente logo della Maas-Neotek, l’altro, invece, era curvo, per adattarsi al palmo della mano.
Sedeva ben dritta nella sua poltrona di prima classe, i lineamenti composti in una maschera modellata sul volto della madre morta. I sedili intorno a lei erano vuoti; suo padre aveva comprato gli altri posti. Rifiutò il pranzo offertole da uno steward nervoso. I sedili vuoti la impaurivano: erano la dimostrazione della ricchezza e del potere di suo padre. L’uomo esitò, poi si ritirò con un inchino. Per un attimo ella permise che, sulla maschera di sua madre, comparisse un sorriso.
Pensò poi ai fantasmi che, da qualche parte nel cielo della Germania, osservavano il rivestimento delle poltrone che le stavano accanto. Come trattava bene i suoi fantasmi, suo padre.
C’erano fantasmi anche al di là del finestrino, fantasmi nella stratosfera, immagini vaghe che cominciavano a prendere forma non appena lei lasciava vagare lo sguardo. Sua madre a Ueno Park, con quel suo volto fragile nel sole autunnale. “Le gru, Kumi! Guarda le gru!” E Kumiko guardava oltre il laghetto di Shinobazu senza vedere niente, perché non c’erano gru, solo puntini neri saltellanti, sicuramente dei corvi. L’acqua color piombo sembrava liscia come la seta, e pallidi ologrammi indistinti ondeggiavano sul profilo lontano delle postazioni di tiro con l’arco. Ma Kumiko avrebbe visto molte volte le gru, dopo, in sogno; erano origami, oggetti geometrici ricavati da fogli di neon piegati, uccelli candidi e rigidi che volavano alti sul paesaggio lunare della follia di sua madre...
Ricordava il padre, con la vestaglia nera aperta su uno stormo di draghi tatuati, sprofondato in poltrona dietro la grande scrivania d’ebano; i suoi occhi erano chiari e inespressivi, come quelli di una bambola dipinta. «Tua madre è morta. Capisci?» Intorno a lei i piani delle ombre nello studio, l’oscurità geometrica. Lui allungava il braccio, nel cerchio di luce della lampada, tremando, l’indice puntato verso di lei, mentre la manica scivolava indietro, scoprendo il Rolex d’oro e altri draghi con la criniera ondeggiante avvinghiati al polso. Tendeva l’indice verso di lei. «Capisci?» Lei non aveva risposto, era corsa via a nascondersi in un posto che solo lei conosceva, il labirinto della più piccola delle macchine pulitrici. Ticchettarono intorno a lei tutta la notte, illuminandola a intervalli regolari con i laser rosa, finché suo padre la trovò e, profumato di whisky e sigarette Dunhill, la prese in braccio per portarla nella sua stanza.
Ricordava le settimane che seguirono, le giornate opache passate più che altro in compagnia di questo o quel segretario, uomini cauti dal sorriso automatico, dall’ombrello accuratamente piegato. Uno di questi, il più giovane e meno cauto, le aveva dato una dimostrazione improvvisata di kendo in mezzo al marciapiede affollato nel centro di Ghinza, sotto l’orologio di Hattori. Maneggiava abilmente l’ombrello nero, sotto gli occhi stupiti delle commesse e dei turisti. E Kumiko aveva sorriso, spezzando con il suo stesso sorriso, la maschera funebre; per questo, il senso di colpa scavò ancora più profondamente e dolorosamente nel cuore, fino in fondo, dove solo lei conosceva la sua vergogna e la sua indegnità. Ma il più delle volte i segretari la portavano a fare spese, facendole visitare, uno dopo l’altro, tutti i grandi magazzini di Ghinza e le decine di boutiques di Shinjuku raccomandate da una guida Michelin scritta in giapponese turistico. Acquistava solo cose molto brutte, brutte e molto costose, e i segretari, stolidamente, camminavano accanto a lei, portando le borse di carta patinata. Al ritorno a casa le borse venivano poggiate con ordine in camera da letto, dove restavano, intatte, finché le cameriere non le rimuovevano.
Dopo sei settimane, alla vigilia del suo tredicesimo compleanno, fu deciso che Kumiko andasse a Londra.
“Sarai ospite a casa del mio kobun” aveva detto suo padre.
“Ma io non voglio andarci” aveva detto lei, mostrandogli lo stesso sorriso di sua madre.
“Devi, invece” aveva detto suo padre, voltandosi. “Ci sono alcune difficoltà” aveva aggiunto rivolto alla penombra dello studio. “A Londra non correrai nessun pericolo.”
“E quando potrò tornare?”
Ma suo padre non le aveva risposto. Kumiko gli aveva rivolto un inchino ed era uscita dallo studio, ancora col sorriso di sua madre sulle labbra.
Il fantasma si risvegliò al tocco di Kumiko, mentre l’aereo iniziava la manovra di atterraggio a Heathrow. La cinquantunesima generazione dei biochip Maas-Neotek aveva prodotto un’immagine indistinta sulla poltrona accanto a lei, un ragazzo uscito da una sbiadita stampa di caccia, seduto con le gambe incrociate. Portava calzoni beige e stivali da equitazione.
«Ciao» disse il fantasma.
Kumiko chiuse gli occhi e aprì la mano. Il ragazzo fluttuò e scomparve. Lei guardò l’oggetto liscio che teneva nel palmo e chiuse lentamente le dita.
«Ciao di nuovo. Mi chiamo Colin. E tu?»
Lo osservò. Aveva occhi grigi e luminosi, l’alta fronte pallida sotto un ciuffo ribelle di capelli scuri. Intravedeva la fila dei sedili attraverso il luccicare dei suoi denti.
«Se la cosa ti sembra troppo spettrale» disse sorridendo «si può aumentare la risonanza.»
E per un istante restò lì, sgradevolmente reale, mentre il pelo sul risvolto del suo cappotto ondeggiava, reale come un’allucinazione.
«Però si scarica la batteria» disse, ritornando all’aspetto di prima. «Non ho capito come ti chiami.» Di nuovo quel sorriso.
«Tu non sei reale» disse lei, in tono severo.
Lui alzò le spalle. «Non c’è bisogno di parlare così forte, signorina. Gli altri passeggeri potrebbero pensare che sei un po’ picchiata. Parla sottovoce. Percepisco tutto attraverso la pelle...» Allungò le gambe e si stiracchiò, tenendo le mani intrecciate dietro la testa.
«La cintura di sicurezza, signorina. Io non ne ho bisogno, naturalmente, essendo, come hai giustamente notato, irreale.»
Kumiko, seccata, gettò l’unità addosso al fantasma, che scomparve. Allacciò la cintura, diede un’occhiata all’oggetto, esitò, poi lo riprese in mano.
«Allora, è la prima volta che vieni a Londra?» domandò lui, ricomparendo in un vortice. Lei annuì, senza volerlo. «Com’è volare? Non hai paura?»
Kumiko annuì di nuovo, sentendosi ridicola.
«Non preoccuparti, baderò io a te. Fra tre minuti saremo a Heathrow. Viene qualcuno a prenderti?»
«Il socio in affari di mio padre» disse lei, in giapponese.
Il fantasma sorrise. «Allora sei in buone mani, ne sono sicuro.» Le fece l’occhiolino. «A vedermi non si direbbe che conosco le lingue, vero?»
Kumiko chiuse gli occhi e il fantasma cominciò a sussurrarle qualcosa sull’archeologia di Heathrow, sul Neolitico, l’Età del Ferro, le ceramiche, gli utensili...
«Signorina Yanaka? Kumiko Yanaka?» L’inglese incombeva su di lei con la sua statura; la sua mole di gaijin, intabarrata in un abito grigio, lo rendeva simile a un elefante. Occhietti scuri la guardavano affabilmente dietro le lenti cerchiate di metallo. Il suo naso sembrava essere stato schiacciato e poi lasciato così com’era diventato. I capelli, quelli che restavano, erano rasati e sembravano stoppa grigia, e i guanti di maglia che portava erano consumati e senza dita.
«Mi chiamo Petal, signorina» disse, come per rassicurarla.
Petal chiamava la città “Fumosa”.
Kumiko rabbrividì sedendosi sul cuoio freddo e rossiccio; osservava attraverso i finestrini dell’antiquata Jaguar la neve che turbinava sciogliendosi sulla strada che Petal chiamava M4. Il cielo della sera era incolore. Lui guidava, abile, silenzioso, con le labbra increspate come se stesse fischiettando. Il traffico, ai suoi occhi di cittadina di Tokyo, era assurdamente leggero. Accelerarono sorpassando un camion Eurotrans privo di autista, col frontale costellato di sensori e fanali. Malgrado la velocità della Jaguar, a Kumiko sembrava quasi di essere ferma; particelle di Londra iniziarono ad aggregarsi intorno a lei. Muri di mattoni, archi di cemento, lance in ferro dipinto di nero dritte in fila una dopo l’altra. Mentre la osservava, la città iniziava a definirsi. Una volta abbandonata la M4, quando la Jaguar si fermava agli incroci, Kumiko coglieva dei visi attraverso la neve, visi di gaijin arrossati sopra gli abiti scuri; menti affondati nelle sciarpe, ticchettio di tacchi femminili fra una pozzanghera e l’altra. Le file di case e di negozi le facevano venire in mente gli accessori meravigliosamente dettagliati che completavano un plastico ferroviario nel negozio di un antiquario di Osaka.
Non era come a Tokyo, dove il passato, quel poco rimasto, era conservato con cura maniacale. Là, la storia era diventata una cosa rara, catalogata dall’amministrazione, protetta dalla legge e dalle sovvenzioni. Qui, invece, la storia costituiva il tessuto stesso delle cose, come se la città fosse stata una concrezione di pietra e mattoni fatta di strati innumerevoli di messaggi e significati, generata nel corso dei secoli per obbedire alle leggi di un DNA del commercio e dell’imperialismo ormai divenuto illeggibile.
«Mi spiace che Swain non sia potuto venire» disse Petal. Kumiko aveva meno difficoltà a capire il suo accento che la sua sintassi; sulle prime aveva scambiato la sua frase di scuse per una domanda. Pensò di chiamare il fantasma, poi cambiò idea.
«Swain» disse lei. «Il signor Swain è il mio ospite?»
Gli occhi di Petal la osservarono nello specchietto.
«Roger Swain. Suo padre non gliel’ha detto?»
«No.»
«Ah.» Petal fece un cenno col capo. «Il signor Yanaka è molto scrupoloso in fatto di sicurezza in queste faccende, si capisce... Un uomo nella sua posizione e così via...» Sospirò. «Mi spiace per il riscaldamento. Pensavo che al garage avessero dato un’occhiata...»
«Lei è uno dei segretari del signor Swain?» domandò, rivolgendosi alle pieghe del collo sopra il colletto del cappotto scuro.
«Un segretario?» Sembrò riflettere. «No. Non lo sono.» Svoltarono a una rotonda, oltrepassando tettoie metalliche e l’ondata serale di folla.
«Lei ha già cenato? Le hanno dato qualcosa da mangiare durante il volo?»
«Non avevo fame.» Era conscia della maschera di sua madre.
«Bene, le offrirà qualcosa Swain. Mangia un sacco di cibi giapponesi, Swain.» Fece uno strano schiocco con la lingua. Si voltò a guardarla.
Lei guardava oltre, guardava il bacio dei fiocchi di neve, il movimento dei tergicristalli che li cancellava dal vetro.
La residenza di Swain a Notting Hill consisteva di tre case vittoriane collegate fra loro, situate da qualche parte in un dedalo nevoso di piazze, vialetti e abitazioni ricavate da scuderie. Petal, con due valigie di Kumiko in ciascuna mano, le spiegava che il numero 17 era l’entrata principale anche del numero 16 e del numero 18.
«Inutile bussare là» disse, gesticolando goffamente, mentre teneva ancora in mano le pesanti valigie e indicava la porta del numero 16, lucida di vernice rossa e ottoni. «Non c’è niente, là dietro, solo mezzo metro di cemento armato.»
Kumiko guardò le facciate quasi tutte uguali lungo il vialetto, che arretravano seguendone la leggera curva. La neve stava cadendo più fitta, e il cielo monotono era illuminato dalla luce rosa dei lampioni al sodio. La via era deserta, e la neve fresca, immacolata. L’aria fredda aveva un sapore straniero, un sentore impercettibile di bruciato, di combustibili di una volta. Le scarpe di Petal lasciavano grandi impronte nette; erano di tipo oxford e avevano la punta stretta e spesse suole di plastica rossa. Lei lo seguiva passo passo, e, iniziando a rabbrividire, salirono i gradini del numero 17.
«Sono io» disse lui; poi sospirò, posò le quattro valigie, si tolse il mezzo guanto dalla mano destra e premette il palmo su una tonda forma d’acciaio inserita nel pannello della porta. A Kumiko sembrò di udire un debole suono, un ronzio che divenne sempre più forte prima di cessare; la porta vibrò per i colpi attutiti della serratura magnetica che si apriva.
«Prima l’ha chiamata Fumosa» disse lei, abbassando la maniglia d’ottone «la città...»
«Fumosa, sì» rispose Petal, aprendo la porta ed entrando in un tepore luminoso. «È un vecchio modo di dire, una specie di soprannome.» Prese le valigie. I passi risuonarono felpati sulla moquette blu dell’atrio con le pareti rivestite di pannelli di legno bianco. Lei lo seguì, mentre la porta si richiudeva automaticamente. Una stampa era appesa sul rivestimento bianco, e raffigurava cavalli nella campagna e persone vestite di rosso. “Forse è lì che vive Colin il fantasma” pensò lei. Petal aveva di nuovo posato le valigie. Sulla moquette era caduta un po’ di n...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- 1 - Fumosa
- 2 - Kid Afrika
- 3 - Malibu
- 4 - Tana
- 5 - Portobello
- 6 - La luce del mattino
- 7 - Nessun luogo laggiù
- 8 - Radio Texas
- 9 - Metropolitana
- 10 - La Forma
- 11 - Nella mischia
- 12 - Ai confini dell’Antartide
- 13 - Passerella
- 14 - Giocattoli
- 15 - I sentieri argentati
- 16 - Filamenti negli strati
- 17 - Si cambia
- 18 - Prigione
- 19 - Sotto la lama
- 20 - Hilton Swift
- 21 - L’Aleph
- 22 - Vuoti e fantasmi
- 23 - Specchio delle mie brame
- 24 - In un luogo solitario
- 25 - Ritorno all’est
- 26 - Kuromaku
- 27 - Cattiva signora
- 28 - Visite
- 29 - Viaggio d’inverno
- 30 - Rapimento
- 31 - 3Jane
- 32 - Viaggio d’inverno (2)
- 33 - Diva
- 34 - Margate Road
- 35 - La guerra della Fabbrica
- 36 - Ruba-anime
- 37 - Le gru
- 38 - La guerra della Fabbrica
- 39 - Troppo
- 40 - Raso rosa
- 41 - Il signor Yanaka
- 42 - Al piano terra della Fabbrica
- 43 - Giudice
- 44 - Cuoio rosso
- 45 - La pietra liscia al di là
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