Racconti crudeli
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Racconti crudeli

  1. 336 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

La raccolta Racconti crudeli (1883) riunisce una serie di testi pubblicati da Villiers de l'Isle-Adam su riviste e giornali: brevi storie tra l'orrido e il fantastico, ambientate in scenari esotici o nella scintillante vita parigina, ricche di suggestioni esoteriche e riflessioni filosofiche contro l'idea di progresso, che denunciano in modo ora ironico, ora feroce, ora tormentato il mondo moderno, impregnato di naturalismo e positivismo, e lo squallore della società borghese, ottusa, ipocrita, devota solo al denaro e pronta a sacrificargli ogni sentimento, ogni bellezza. La prosa raffinata di Villiers, tanto ammirata dai contemporanei come Verlaine, Mallarmé, Maeterlinck, Yeats, diventa fertile terreno d'incontro di idealismo, occultismo, tradizione romantica ed estetica simbolista, e dà vita a quadri di profetica potenza nel descrivere le aberrazioni della cultura di massa, arrivando quasi ad anticipare i moduli della fantascienza.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804606161
eBook ISBN
9788852030901

Racconti crudeli

Le signorine Bienfilâtre1

A Théodore de Banville
Più luce!...
Ultime parole di Goethe
Pascal afferma che, dal punto di vista dei fatti, il Bene e il Male sono un problema di «latitudine». In effetti, lo stesso atto umano qui si chiama crimine, laggiù buona azione, e viceversa. Così, in Europa, in genere si amano teneramente i propri vecchi; in alcune tribù dell’America li si persuade a salire su un albero, e poi si scuote l’albero. Se i vecchi genitori cadono, è sacro dovere di un bravo figlio, come un tempo facevano anche i Messeni, accopparli seduta stante a colpi di tomahawk, per risparmiare loro gli affanni della decrepitudine. Se quelli trovano la forza di aggrapparsi a qualche ramo, vuol dire che sono ancora buoni per cacciare o pescare, e allora si soprassiede alla loro immolazione. Un altro esempio: i popoli del Nord amano bere il vino, quel flutto raggiante in cui dorme il dolce sole. La nostra religione nazionale ci informa che «il vino buono rallegra il cuore». Tra i nostri vicini maomettani, al Sud, la cosa è considerata un delitto grave. A Sparta, il furto era praticato e onorato: era una istituzione sacra, un complemento indispensabile per l’educazione di ogni vero lacedemone. È per questo che gli imbroglioni vengono ancora detti «greci». In Lapponia, il padre di famiglia considera un onore che sua figlia sia uno dei privilegi concessi al viaggiatore ospite in casa sua. È così anche in Bessarabia. Nel nord della Persia e tra gli abitanti di Kabul, che vivono dentro tombe antichissime, se voi, avendo ricevuto un’accoglienza ospitale e cordiale in qualche confortevole sepolcro, non siete diventati nel giro di ventiquattr’ore una cosa sola con tutta la progenie del vostro ospite, parsi, zoroastriano o wahabita, c’è da temere che vi mozzeranno semplicemente la testa, supplizio molto di moda in quei climi. Le azioni sono dunque indifferenti, in sé e per sé: solo la coscienza di ognuno le fa diventare buone o cattive. Il nodo misterioso che giace al fondo di questo immenso malinteso è l’innata necessità in cui si trova l’Uomo di crearsi scrupoli e distinzioni, di proibirsi una certa azione piuttosto che un’altra, a seconda che il vento nel suo paese soffi di qua o di là: si direbbe, insomma, che tutta l’Umanità abbia perduto la memoria e cerchi di ricordarsi, a tentoni, non si sa bene quale Legge smarrita.
Qualche anno fa, era molto fiorente un certo caffè vasto e luminoso,2 orgoglio dei nostri boulevard, situato quasi di fronte a uno dei nostri teatri di prosa, con un frontone che ricorda quello di un tempio pagano. Ci si riuniva ogni giorno la crema di quei giovani che si sono poi distinti o per il loro valore artistico, o per la loro incapacità, o per il loro atteggiamento nei giorni torbidi che abbiamo attraversato.
Tra questi ultimi, ce ne sono persino alcuni che hanno tenuto le redini del carro dello Stato.3Come si vede, non era gentucola quella che si trovava in questo caffè da Mille e una notte. Il borghese di Parigi parlava di questo pandemonio solo a voce bassa. Spesso il prefetto della città vi gettava, negligentemente, a mo’ di biglietto da visita, un mazzetto scelto, un bouquet inopinato di gendarmi; e quelli allora, con quell’aria distratta e sorridente che li distingue, vestiti all’ultimo grido, davano una strigliatina, così, quasi per gioco, alle teste calde e rivoluzionarie. Era una precauzione non solo delicata, ma anche non priva di sensibilità. Il giorno dopo non se ne vedeva più uno.
Sulla terrazza del caffè, tra la fila delle carrozze e la vetrata, una prateria di donne, una fioritura di chignon sfuggiti dalla matita di Guys, agghindate in toilette inverosimili, si abbandonava sulle sedie, accanto ai tavolini di ferro battuto dipinti di verde speranza. Su questi tavolini c’erano delle bevande. Gli occhi di queste donne avevano qualcosa del pescecane e della gallina. Alcune tenevano sulle ginocchia un gran mazzo di fiori, altre un cagnolino, altre ancora niente. Avreste detto che aspettassero qualcuno.
Tra quelle giovani donne, due si facevano notare per la loro assiduità; i frequentatori abituali della celebre sala le chiamavano semplicemente Olympe e Henriette. Arrivavano al crepuscolo, si piazzavano in un anfratto bene illuminato, ordinavano, più per darsi un tono che per vero bisogno, un bicchierino di vespetrò o un «mazagran», e poi sorvegliavano i passanti con occhio meticoloso.
Erano le signorine Bienfilâtre!
I loro genitori, persone integerrime cresciute alla scuola della sfortuna, non avevano avuto i mezzi per far gustare loro le gioie di un apprendistato: il mestiere di quest’austera coppia consisteva principalmente nell’appendersi a ogni momento, con atteggiamenti disperati, a quella lunga corda intrecciata che fa aprire la serratura di un portone. Mestiere duro! Per raccogliere a malapena, e di rado, qualche soldino per grazia di Dio! Il loro terno non era mai uscito! Così mugugnava Bienfilâtre padre ogni mattina mentre si preparava il suo piccolo budino. Olympe e Henriette, da quelle brave figlie che erano, capirono presto che dovevano darsi da fare. Sorelle di piacere fin dalla più tenera infanzia, consacrarono il guadagno delle loro notti e dei loro sudori a mantenere un tenore di vita modesto, sì, ma onorevole, nella portineria dei genitori. «Il Signore benedice i nostri sforzi» dicevano a volte, poiché erano stati loro inculcati ottimi principi e, presto o tardi, un’educazione basata su principi solidi porta i suoi frutti. Quando qualcuno si preoccupava di sapere se le loro fatiche, a volte eccessive, non facessero male alla salute, loro rispondevano evasivamente, con l’aria dolce e imbarazzata della modestia e abbassando gli occhi: «Ci sono delle doti naturali...».
Le signorine Bienfilâtre erano, come si suol dire, di quelle operaie che «fanno la giornata di notte». Adempivano il più degnamente possibile (visti certi pregiudizi della gente) a un compito ingrato e spesso penoso. Non erano di quelle sfaticate che proscrivono, come un disonore, il santo callo del lavoro, e non ne arrossivano affatto. Di loro si raccontavano molte belle cose che avrebbero fatto sobbalzare le ceneri di Monthyon nel suo bel cenotafio. Una sera, tra le tante, avevano fatto a gara tra loro superando se stesse per pagare il funerale di un vecchio zio, dal quale avevano ereditato in verità solo il ricordo di non pochi scapaccioni distribuiti tempo addietro, all’epoca della loro infanzia. Erano perciò viste di buon occhio da tutti i frequentatori abituali dello stimabile caffè, tra cui c’erano persone di principio. Un cenno amichevole, un saluto con la mano non mancava mai di rispondere alla loro occhiata e al loro sorriso. Mai nessuno aveva rivolto loro un rimprovero o una lamentela. Tutti riconoscevano che la loro compagnia era dolce e affabile. Insomma, non dovevano niente a nessuno, onoravano tutti i loro impegni e di conseguenza potevano andare in giro a testa alta. Erano esemplari, risparmiavano per gli imprevisti, per «quando verranno i tempi duri», per ritirarsi un giorno, onorevolmente, dagli affari. Da persone perbene, la domenica chiudevano bottega. Da ragazze serie, non davano ascolto alle proposte dei giovanotti tutti profumati, che sono bravi solo a distogliere le signorine dalla retta via del dovere e del lavoro. Pensavano che oggi in amore solo la luna è gratis. Il loro motto era: «Sveltezza, Sicurezza, Discrezione» e, sui loro biglietti da visita, aggiungevano: «Varie specialità».
Un giorno, la più giovane, Olympe, prese una brutta strada. Irreprensibile fino a quel momento, la sventurata ragazza si lasciò lusingare dalle tentazioni alle quali l’ambiente in cui era costretta a vivere la esponeva più di altre (che forse la biasimeranno troppo in fretta). Insomma, fece uno sbaglio: si innamorò.
Fu il suo primo errore; ma chi ha sondato l’abisso in cui ci può trascinare un primo errore? Un giovane studente, ingenuo, bello, con un’anima appassionata e da artista, ma povero come Giobbe, un certo Maxime, del quale tacciamo il cognome, le disse qualche parolina dolce e la mise nei guai.
Ispirò la celeste passione a quella povera ragazza che, nella sua posizione, non aveva diritto di provarla più di quanto ne avesse Eva di mangiare il frutto divino dell’Albero della Vita. Da quel giorno dimenticò ogni suo dovere. Tutto andò di traverso e alla rinfusa. Quando una ragazzina ha l’amore per la testa, c’è poco da fare!
E sua sorella, poverina, quella nobile Henriette che adesso, come si suol dire, aveva lei tutto il peso sulle spalle! A volte si prendeva la testa fra le mani, dubitando di tutto, della Famiglia, dei Principi, perfino della Società! «Sono solo parole!» gridava. Un giorno aveva incontrato Olympe con un abituccio nero, senza cappello e con un pentolino di latta in mano. Henriette, passandole accanto, facendo finta di non riconoscerla, le aveva sussurrato: «Sorella mia, la tua condotta è inqualificabile! Rispetta le apparenze, almeno!».
Forse da queste parole si aspettava un ritorno sulla retta via.
Tutto fu inutile. Henriette capì che Olympe era perduta; arrossì e passò oltre.
Il fatto è che in quel degno caffè si cominciava a mormorare. La sera, quando Henriette arrivava da sola, l’accoglienza non era più la stessa. Ci deve pur essere solidarietà. Lei notava certe piccole cose umilianti. La si trattava con più freddezza dopo la notizia della caduta di Olympe. Fiera, lei sorrideva come il giovane spartano con il petto straziato dalla volpe, ma in quel cuore sensibile e giusto tutti quei colpi andavano a segno. Per un animo delicato, un nonnulla può essere più doloroso di un oltraggio grossolano e, in questo, Henriette era di una sensibilità da sensitiva. Come doveva soffrire!
E la sera, poi, a cena in famiglia! Il padre e la madre, a testa bassa, mangiavano in silenzio. Dell’assente non si parlava. Al dessert, al momento del liquorino, Henriette e sua madre, dopo uno scambio di sguardi furtivi, e asciugandosi tutte e due una lacrima, si scambiavano una muta stretta di mano sotto la tavola. E il vecchio portiere, distrutto, si metteva a tirare il cordone senza motivo, per nascondere la voglia di piangere. A volte, brusco e voltando la testa, portava la mano all’occhiello come per strapparsi via immaginarie decorazioni.
Una volta, il portiere cercò di recuperare sua figlia. Tetro, si fece carico di salire le scale del giovanotto. E là: «Desideravo la mia povera ragazza!» singhiozzò. «Signore,» gli rispose Maxime «io l’amo, e vi prego di concedermi la sua mano.» «Miserabile!» aveva esclamato Bienfilâtre fuggendo via, disgustato da quel «cinismo».
Henriette aveva vuotato l’amaro calice. Era necessario un estremo tentativo; si decise quindi a rischiare il tutto per tutto, anche uno scandalo. Una sera, seppe che la deplorevole Olympe doveva venire al caffè per regolare un vecchio debituccio: avvertì la famiglia, e tutti si diressero verso il rilucente caffè.
Simile alla Malonia disonorata da Tiberio, quando si presentò dinanzi al Senato romano per accusare il suo stupratore prima di pugnalarsi disperata, Henriette entrò nella sala dei notabili. I genitori, per dignità, rimasero sulla porta. Si sorseggiava il caffè. Alla vista di Henriette, le facce si fecero più gravi e severe; ma quando ci si accorse che lei voleva dire qualcosa, i fogli dei giornali si abbassarono sui tavolini di marmo e si fece un religioso silenzio: c’era da emettere una sentenza.
In un angolo, a un tavolino isolato, si vedeva Olympe, col suo abituccio nero, vergognosa, che cercava di non farsi notare.
Henriette cominciò a parlare. Durante il suo discorso, era possibile intravedere attraverso la ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Racconti crudeli
  3. Introduzione L’uomo dei sogni di Giuseppe Montesano
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. RACCONTI CRUDELI
  7. Epilogo. L’annunciatore
  8. Postfazione Villiers de l’Isle-Adam di Paul Verlaine
  9. Copyright