CARLO PARRI
IL METODO
CARDOSA
La redazione del Giallo Mondadori
ha deciso di assegnare il
PREMIO TEDESCHI 2012
per il miglior giallo italiano inedito a
IL METODO CARDOSA
di Carlo Parri
con la seguente motivazione:
Per la capacità di raccontare una bella storia
facendola ruotare con ironia e intelligenza
attorno a un personaggio destinato a entrare
nella storia del giallo italiano:
il vicequestore aggiunto Leonardo Cardosa,
un uomo cinico e disincantato,
forte e fragile allo stesso tempo,
saggio, anticonformista, romantico,
imprevedibile e mai scontato.
Come questo romanzo.
Per Olimpia
che, come sempre,
mi è stata indespensabile
in ogni pagina,
ogni giorno
LEONARDOCARDOSA
vicequestore aggiunto
MARIA CARDOSA
sorella di Leonardo
GEMMA COSTANTINI
ispettore
RIZZO
ispettore
FRANCESCA VANNI
ispettore capo
NICOLA ALOISIO
ispettore capo
CATERINA LAMANNA
magistrato
ESTER CORCELLI
figlia di un costruttore
RICARDO OLIVEIRA
mago brasiliano
ROSA MARIA SERRA (ROSITA)
senzatetto
COLONNELLO PARRA
killer
RUGGERO COSTA
ministro dell’Interno
RUDY SLIPOVIC
amico di Cardosa
DON VITO CACCIACANI
padrino di una famiglia mafiosa
1
Dove Cardosa riceve una lettera personale
La pioggia della notte era stata violenta. Pioggia di fine settembre, spinta dal vento di maestrale contro i vetri delle finestre. Pioggia che chiudeva, una volta per tutte, quella coda d’estate che ancora scaldava la pietra rosa della terrazza. Alle sei era in piedi, davanti alla porta finestra della cucina, con lo sguardo ancora appannato dalla solita notte di insonnia. Fissava una pozzanghera al centro della terrazza cercando di capire se stava ancora piovendo. Sì, cadeva una pioggia sottile, impercettibile, una pioggia di Saint-Malo o di Brest, una pioggia che sembrava aria.
Entrò al bar di piazza Crati alle sette e quaranta. C’erano un paio di agenti confusi nel vapore dei cappuccini e Antonio, il vecchio napoletano che aveva il banco di frutta al mercatino della piazza. Per bere il suo caffè extralarge andò sulla porta. Il cielo era di metallo scuro, solido e basso. Quella notte di temporale e quella mattina grigia gli regalavano un respiro inquieto, una sensazione di languore, la presenza di un’intuizione che ancora doveva materializzarsi. Pensò a Francesca. A Lisbona da una settimana con la nazionale di tiro. L’aveva sentita la sera, prima di cena. Oggi avrebbe sparato per i quarti di finale. Speriamo bene. Ma forse avrebbe preferito male. Era sempre in bilico tra godere dei successi sportivi dell’ispettore capo Vanni o augurarsi che finissero il prima possibile. Quando Francesca era a Roma, quando cenavano insieme, dormivano insieme, si incontravano in ufficio, allora si sentiva come braccato, come privato di una qualche libertà che faticava a individuare. A volte sperava che gli impegni sportivi arrivassero come una boccata d’aria. Alla fine, quando lei partiva, sentiva il vuoto di quella mancanza. E un giorno o l’altro, prima o poi, avrebbe dovuto affrontare se stesso e le sue sensazioni. E finiva sempre per scegliere il poi.
Non erano ancora le otto quando salutò il piantone. Il commissariato era ancora nella fase dei rumori soffocati, un cassetto che si chiude in qualche ufficio, dei passi dalle parti del distributore del caffè, due voci trattenute che parlano dietro una porta. Il casino iniziava di solito dopo le nove. La prima cosa che fece in ufficio fu di guardare le finestre del palazzo di fronte. Lo faceva da quasi sei anni, da quando era arrivato a via Acherusio. Ogni mattina le guardava, per sapere se almeno una fosse aperta. Come sempre erano tutte chiuse. Persiane marroni come lapidi a sigillare quel palazzo tomba dove nessuno entrava e dove nessuno usciva. Avrebbe potuto informarsi sulla proprietà, sapere perché un palazzo in buono stato, tutto sommato signorile, rimaneva chiuso, deserto, abbandonato per anni. Ma non lo aveva mai fatto. Aveva preferito quel rito quotidiano del controllo diretto. Era fatto così il vicequestore aggiunto Leonardo Cardosa. Non era curioso, era interessato.
Buttò uno sguardo alla scrivania. Era sempre la seconda cosa che faceva, dopo le finestre. Il cristallo che proteggeva il legno di Caterina aveva zone precise, stabilite e previste. L’angolo di destra, quello più vicino alla porta, era destinato ai rapporti, quello di sinistra alle riviste che la questura inviava con sempre maggior frequenza. Al centro, verso la poltrona di stoffa nera, vicino all’agenda, la posta, divisa in due mucchietti. Posta esterna, consegnata dal postino, e posta interna, consegnata dagli agenti della questura centrale. A Cardosa importava poco dei rapporti, pochissimo della posta e niente delle riviste. In effetti non leggeva quasi mai i rapporti, mai le riviste e cestinava la maggior parte delle buste consegnate dal postino, senza aprirle. Con quelle della questura, però, non era possibile. Bisognava leggerle, capirle, valutarle, rispondere, eseguire. Non che questo lo avesse mai portato ad aprire quelle buste, anzi, erano quelle che eliminava per prime, ma non nel cestino. Le consegnava all’ispettore capo Aloisio, che ogni giorno le leggeva, le interpretava – e non era un compito semplice – quindi preparava le risposte, le disposizioni per l’applicazione delle circolari, e alla fine portava tutto a Cardosa, che firmava senza guardare. Quella mattina la liturgia si svolse come al solito. Alle nove Aloisio bussò, salutò, prese le buste della questura dalla scrivania e tornò nel suo ufficio, ma dopo dieci minuti bussò di nuovo. Cardosa era in piedi davanti alla vetrata che occupava quasi tutta la parete esterna. Stava seguendo le acrobazie di una bambinaia che cercava di spingere una carrozzina versione pioggia in uno slalom improbabile tra le pozzanghere.
— Questa è personale.
Cardosa si voltò e tese il braccio. Prese la busta. “Strettamente personale – riservata all’attenzione del dottor Cardosa Leonardo.” Andò a sedersi dietro Caterina e strappò la busta con l’indice. Lesse con gli occhi socchiusi, come chi teme di non capire bene le parole. Alla fine guardò verso la porta. Era chiusa ed era solo. Poteva sfogarsi.
— Questa volta ci hanno fregati.
Parlava a Caterina, la scrivania anni Trenta che si portava dietro, di commissariato in commissariato, da quando un boss della Sacra Corona Unita gliene aveva fatto dono. Ai tempi di Trani, quando era vicecommissario, ancora fresco di concorso.
— Questa volta non ci lasciano vie di fuga. Merda! Ma tu ci pensi, noi due a via di San Vitale? Noi due tutti i giorni in questura, noi due che alla fine diventeremo stronzi. Perché tutti si diventa stronzi, alla fine. Merda.
Rilesse la lettera. La ripiegò e la mise in tasca. Subito dopo scese le scale, fece un gesto incomprensibile al piantone e uscì a piedi. Scese un passo dopo l’altro per via Nemorense, fino a piazza Sant’Emerenziana. Prese viale Libia, si fermò davanti alla vetrina di un negozio di maglieria, guardò un cardigan grigio in esposizione, più avanti salutò il proprietario dell’agenzia di viaggi, che fumava sulla porta. All’altezza di piazza Gimma attraversò la strada e si infilò nel mercato coperto. Sapeva che non avrebbe comprato niente. Ascoltò i profumi delle prime arance, del pecorino romano, accettò un assaggio di prosciutto casereccio davanti al banco di Mario e Antonietta, rispose al saluto di Peppe, il proprietario del miglior banco di pesce, e chiese al barman del “caffè africano” un bicchiere di bianco. Lo bevve vicino a due operai che stavano scaricando cassette di verdura. Finocchi e melanzane, notò con la coda dell’occhio. Il vino aveva quella punta acida del bianco a buon mercato. Lo sapeva anche prima di chiederlo, così come sapeva che un giorno si sarebbe ricordato di quel sapore di vino povero. Rifece la strada verso il Vescovio, lentamente, con la lingua impegnata a separare due sapori, quello del vino bianco e quello della malinconia.
A mezzogiorno tutti conoscevano il contenuto della lettera della questura o almeno le conseguenze di quella lettera. Con l’inizio del nuovo anno il commissariato Vescovio avrebbe avuto un nuovo dirigente. Il vicequestore aggiunto Cardosa non avrebbe più lasciato nell’aria le sue frasi incomprensibili, non avrebbe più preteso riassunti orali dei rapporti che non leggeva, non avrebbe più dimenticato la pistola sul lavandino del bagno o appesa all’attaccapanni dell’ufficio. Con l’arrivo di gennaio il capo, come a lui piaceva che lo chiamassero, sarebbe andato a ingrossare l’organico della terza sezione della Squadra Mobile, quella che si occupava dei cosiddetti reati contro la persona. Sarebbe andato a cercare assassini. Quel lunedì 20 settembre non sarebbe stato più un giorno qualunque, a via Acherusio. Ognuno prese la cosa secondo il carattere, lo stile, la personalità che aveva. Aloisio, che lavorava con Cardosa dai tempi di Trani, che lo aveva seguito a Roma, al Prenestino e poi al Vescovio, si domandò se sarebbero rimasti insieme ancora una volta. Si domandò anche cosa sarebbe successo se fosse rimasto lì senza il capo. Sapeva che il commissario e il suo vice lo detestavano. Gli avrebbero fatto pagare tutto il potere che Cardosa gli aveva sempre delegato, fregandosene dei ruoli e dei malumori dei due ufficiali. E non solo loro. Anche molti altri avrebbero colto l’occasione di un Aloisio finalmente fragile, senza la protezione del capo. Lepore strinse la mano a Cardosa e si congratulò con una frase fatta. Una banalità degna di lui, pensò Cardosa mentre rispondeva con un grazie assente. Il commissario Lepore si era subito chiesto se sarebbe toccato a lui. In fondo perché no. Era al Vescovio da otto anni, non lo avevano promosso quando il vecchio vicequestore era andato in pensione. Allora avevano mandato Cardosa, ma lui era ancora troppo giovane. Adesso tutto era al punto giusto. Perché no. Costantini, che aveva il privilegio di capire le frasi di Cardosa, la mancata insegnante ...