Fin dal mattino comincia a dire a te stesso: mi imbatterò in un impiccione, in un ingrato, in un prepotente, in un imbroglione, in un invidioso, in uno non socievole.
MARCO AURELIO, Ricordi II, 1
Marco Aurelio aveva cinquantun anni: secondo i canoni del tempo, era vecchio. Ma soprattutto, si sentiva vecchio. L’ovale allungato del volto si andava asciugando, scoprendo gli zigomi aguzzi; la barba ingrigiva, le occhiaie si incupivano. L’insonnia si aggravava, i dolori allo stomaco lo opprimevano, le cure della guerra gli avvelenavano l’anima, i dispiaceri familiari lo disincantavano, amici e parenti morivano.
E la guerra non finiva. Le cose andavano meglio, dopo tanti smacchi: i barbari erano stati cacciati via dall’Italia e i Costoboci dalla Grecia, dove erano penetrati nelle prime fasi della guerra, ma il progetto che l’imperatore aveva elaborato con il fido Pompeiano era ancora lungi dall’essere realizzato. E da quella notte al foro di Traiano erano già passati cinque anni!
Seduto nella tribuna riservata ai personaggi ragguardevoli, nel podium dell’anfiteatro di Carnuntum, Marco avvertì d’improvviso il sedile duro contro la schiena, il freddo del pomeriggio d’autunno nelle ossa, il rumore dei combattimenti incruenti che veniva dall’arena, le urla di incitamento della folla. Si tirò su il collo di pelliccia del mantello scuro.
«Hai bisogno di qualcosa, Cesare?» chiese un segretario, premuroso.
“Di pace” rispose tra sé l’imperatore, e strinse le labbra quando una fitta allo stomaco lo colpì come una coltellata. Su un leggio davanti a lui c’erano diversi documenti, che leggeva con il senso del dovere che lo contraddistingueva, e siglava poi con il sigillo. Allora i segretari li toglievano, solleciti, e altri ne proponevano alla sua attenzione: mentre nella cavea dell’arena i legionari si divertivano con i ludi, gridavano, scommettevano. Marco era contrario ai ludi gladiatori, e aveva fatto di tutto per limitare le espressioni più violente di quella passione tutta romana: ma sapeva che i suoi uomini avevano bisogno di distrazioni e quindi, sul finire delle operazioni militari dell’anno, aveva offerto una serie di spettacoli. Lui stesso vi assisteva, per dovere, ma si rifiutava di perder tempo seduto a guardare gente che si picchiava: preferiva lavorare.
Il muro ellittico dell’anfiteatro nascondeva alla sua vista gli spazi che altrimenti gli si sarebbero parati davanti, sull’altura dove sorgeva Carnuntum, fortezza legionaria e municipium da due anni sede della corte imperiale. Il letto verdazzurro del Danubio, vasto, screziato di isolette di canne, dove era ancorata la flotta Flavia Pannonica che pattugliava il fiume; oltre, sulla riva opposta, a settentrione, si apriva la terra incognita, che si sviluppava tra foreste nebbiose, acquitrini, e affluenti del Danubio. In lontananza si vedevano pennacchi di fumo scuro alzarsi verso il cielo come serpenti. Laggiù di certo bruciavano villaggi, forse gli ausiliari compivano i terribili ma necessari atti di guerra: massacri, decapitazioni, deportazioni di schiavi destinati a rimpinguare le casse dello stato.
Marco riteneva che tutto ciò fosse giusto: dovere dei romani era sterminare i barbari, o almeno contenerli. Erano briganti. Occorreva difendere l’impero, la civiltà, le leggi, le arti, l’operosità, i popoli che gli dei avevano affidato a Roma perché proteggesse il riflesso in Terra di quell’ordine divino di cui mai prima si era visto l’eguale. Detestava le teste putrefatte dai lunghi capelli ingrommati di sangue che le legioni portavano fino a lui a carrettate, come fa un gatto, che porta fiero al suo padrone topini e lucertole catturati: ma faceva parte dei suoi compiti, e non poteva sottrarsi ai suoi compiti.
E per ognuno di quei documenti che aveva davanti, si richiedeva una sua decisione. Questo, per esempio: un progetto ardito, forse pericoloso... le Bestie, si rese conto. E la proposta veniva da Geminus!
Avvicinò il papiro al volto. Lesse in fretta, poi puntò gli occhi sul muro dell’anfiteatro e come passandolo da parte a parte immaginò la natura selvaggia oltre il Danubio, il confine naturale dell’impero, e un brivido lo percorse mentre pensava a quella leggenda di cui erano giunti ai romani in guerra deboli sussurri. Le Bestie... Ma era davvero una leggenda? O dietro le Bestie si nascondeva un pericolo reale, concreto?
Un altro brivido. Qualcuno, ingenuamente, gli sistemò il bavero di pelliccia attorno al collo.
Dall’arena, sentì pronunciare il suo nome. Allora si riscosse: i giochi erano finiti e i gladiatori, disposti in quadrato come una coorte, lo salutavano. Si alzò, aiutato da un liberto, e sollevò una mano ossuta al cielo. Ci fu allora un’ovazione che salì dalla cavea e dall’arena, che non era imbrattata di sangue, ma solo di un confuso disegno di orme e strisce.
Le Bestie, pensò di nuovo. Il progetto di Geminus era rischioso, e ancora una volta si trovava a prendere decisioni che forse avrebbero comportato delle morti, solo per proteggere un bene più grande. Lo sciame e l’ape, era sempre la stessa storia.
Si chinò rapido sul leggio e siglò il foglio, poi vi impresse il sigillo. Lo diede al suo segretario, dicendo: «In fretta, questo. Voglio essere tenuto al corrente». L’uomo fece un cenno col capo e stava per allontanarsi, quando Marco Aurelio, come cogliendo un’ispirazione al volo, lo richiamò e aggiunse: «Che ne sia incaricato Flavio Sulpicio Tauro».
«Sì, Cesare.»
Poiché i giochi erano finalmente terminati, Marco si stava dirigendo verso la gradinata, scortato dai pretoriani, quando una voce roca echeggiò tra le cavee dell’anfiteatro: «Romanucolo! Esci fuori, se ci sei. Dobbiamo sistemare una questione!».
Marco aggrottò le sopracciglia, incuriosito, e si voltò. In basso, un legionario era entrato nell’arena semivuota, spavaldo, a petto nudo. Era un numida dalla pelle piuttosto scura, come se nelle sue vene scorresse il sangue delle popolazioni più nere e a mezzogiorno della sua terra; alto e massiccio, proiettava una lunga ombra sulla sabbia. Teneva la braccia alzate e si muoveva in un lento cerchio su se stesso, come un gladiatore, e ripeteva con tono beffardo: «Romanucolo! Dove ti sei nascosto? Hai paura?».
Un brusio sorpreso cominciò a serpeggiare tra i presenti. Il legionario percorreva lento il periplo dell’arena, la testa alta, sfrontata, le braccia alzate, i pugni chiusi, in atteggiamento di sberleffo e di sfida.
Poi, una figura si alzò tra gli spalti. Il brusio si interruppe di colpo. Il numida lo aveva visto e si era bloccato, poi con lentezza aveva calato le braccia e aveva piazzato i pugni contro i fianchi, gonfiando il torace.
La figura si fece avanti, montò sul parapetto di legno e vi restò in equilibrio, poi si lanciò e un attimo dopo atterrò con un tonfo leggero, felino, sulla sabbia. I capelli biondi brillarono al sole morente come spighe di grano, mentre alzava la testa per fissare con freddi occhi azzurri l’uomo che lo aveva sfidato.
Il giovane tribunus angusticlavius Flavio Sulpicio Tauro ebbe un fremito d’interesse, per la prima volta da quando erano cominciati quei ridicoli giochi da femminucce che l’imperatore aveva ammannito alla guarnigione di Carnuntum. Tanto che, guadagnata già l’uscita dalla gradinata e con la prospettiva di passare una serata nel miglior lupanare di quella schifosa città, non appena sentì il grido tornò indietro e si affacciò sulla cavea.
«Che succede, vecchio mio?» chiese all’amico, sporgendo il profilo greco e il mento forte, ben rasato, verso l’arena, come un’aquila in cerca di prede.
«È quel numida laggiù. Non capisco bene cosa stia accadendo... un fuoriprogramma, certo.»
«Ha gridato “romanucolo”, se ho capito bene. Che significa?»
«È un’espressione sprezzante verso quei barbari, per lo più di nobile famiglia, che si assimilano alla nostra civiltà. Sta per traditore, più o meno.»
Tauro fece un sorriso, si passò una mano tra i folti capelli scuri e ricci e disse: «Ah. Questo numida ce l’ha con un barbaro, dunque. Non posso dargli torto».
«Non con un barbaro, ma con un romano di origine barbara» precisò l’amico. «Perciò, caro Tauro...»
«Zitto! Guarda!»
Tauro indicò l’uomo che si era alzato tra gli spalti e che, con un salto felino, era sceso nell’arena.
«È Geminus!» esclamò allora l’amico, gridando per sovrastare il brusio del pubblico. «Un pretoriano.»
«Un pretoriano, e di origine barbara... sì, è una triste tradizione, quella di affidare la sicurezza dell’imperatore a germani.»
«Una tradizione iniziata da Augusto» precisò l’altro, a sottolineare l’origine divina dell’idea. «E per un ottimo motivo: i germani venivano da lontano, dunque non erano legati ad alcuna fazione politica, e a corte e a Roma non conoscevano nessuno... ecco perché erano i più fedeli all’imperatore.»
Tauro aggrondò: «Non venire a raccontarmi queste storie, Ennio. Non solo tra i barbari si trovano soldati fedeli all’imperatore!».
Ennio sorrise e infilò un’altra stoccata: «No davvero. Tu gli sei fedele, ad esempio, pur se spesso lo critichi...».
«Sono fedele, non sono cieco. Ma che stanno facendo, laggiù?»
«Mi sembra una sfida in piena regola.»
«Benissimo» gongolò Tauro strofinandosi le mani, «sediamoci, dunque, e speriamo che il nostro imperatore non ce la guasti con i suoi scrupoli da filosofo!»
Geminus e il numida si studiavano, l’uno davanti all’altro.
«Tre giorni fa sei riuscito a rendermi ridicolo perché ero ubriaco, romanucolo» sibilò il numida con forte accento africano, mentre stringeva i pugni e i muscoli delle braccia guizzavano, «ma stavolta sarà diverso.»
Geminus studiò senza alcuna espressione il volto olivastro dell’avversario, gli occhi neri, i capelli crespi, le labbra carnose e violacee, e infine rispose: «Cercavi rogna, te l’ho grattata».
«Adesso te la gratto io. Fino all’osso, però.»
«Ti chiamano Erebo, poiché sei scuro come le tenebre dell’Averno. Non pensavo volessi verificare coi tuoi occhi se il soprannome è meritato.»
Erebo sbarrò gli occhi e gonfiò il collo, gridando a tutti: «Io ti sfido, Geminus, in un leale combattimento. Senz’armi!» si affrettò ad aggiungere, per placare l’eventuale obiezione di Cesare. «Un incontro di pugilato! Che ne pensi?»
Dalla cavea si levarono grida di approvazione. Gli occhi di tutti si levarono poi verso il podium, dove si vide la figura dell’imperatore avere un attimo di indecisione e alzare infine la mano in segno di approvazione. Allora ci fu un’esplosione di giubilo, assordante, che durò diversi istanti.
«C’è andata bene!» disse Tauro, dando una gomitata all’amico. «Cesare autorizza il combattimento.»
«Marco Aurelio conosce bene Geminus» fece Ennio. «Sa che non ucciderà il numida.»
«Uccidere il numida? Pensi allora che vincerà il barbaro? Andiamo! Erebo lo ridurrà al punto che, per raccoglierlo, bisognerà usare una spugna.»
«Scommetti?»
Gli occhi di Tauro scintillarono: «Quanto?».
Intanto, la confusione si era placata. Erebo era coperto da un velo di sudore nonostante il fresco del pomeriggio calante e l’eccitazione gli spalancava gli occhi e dilatava le narici.
Geminus era imperturbabile. A un tratto, disse: «Sei fortunato. Non ho monete con me».
Erebo corrugò la fronte.
«Che vuoi dire, barbaro?»
«Niente. Una mia abitudine.»
Un uomo entrò di corsa nell’arena. Portava su uno scudo alcune strisce di cuoio rinforzate da bullette di piombo e un paio di caschi di bronzo. Era chiaro che Erebo aveva organizzato tutto in anticipo e con accuratezza.
Geminus e il numida presero le strisce di cuoio: con l’aiuto dell’uomo, se le legarono ai polsi e le fecero poi girare strettamente attorno alle nocche, in modo che fossero ben in vista le bullette di piombo, pronte a lacerare la pelle dell’avversario. Così, avevano realizzato dei rudimentali e pericolosi guanti da combattimento, i caestus.
L’anfiteatro tratteneva il respiro. Il sole calava e solo una mezzaluna dell’arena era accesa dei colori del tramonto, il resto già avvolto in un’ombra azzurra e fredda. Geminus ed Erebo presero i caschi; il pretoriano stava per indossare il suo, quando Erebo, come per un’improvvisa idea, guardò quello che teneva in mano e disse: «E se ne facessimo a meno? O hai paura di rovinarti il nasino?».
«E proprio tu, africano, parli a me di nasino?» rispose Geminus con un ghigno. E, prima che il numida potesse replicare, lasciò cadere a terra il casco. Il tonfo echeggiò nell’anfiteatro e fu seguito da un mormorio di meraviglia.
Allora Erebo lasciò a sua volta cadere il casco accanto a quello di Geminus, platealmente, ma ormai il bel gesto era già stato fatto e non ci furono che alcune grida da parte dei camerati del legionario, che non fecero altro che irritarlo.
«Bisogna riconoscere che quel pretoriano ha coraggio» commentò Tauro.
«Io direi piuttosto che è il numida a non avere cervello» ribatté Ennio. «Guarda alla tua sinistra: c’è chi sta subito sfruttando l’occasione!»
Tauro seguì l’indicazione di Ennio e distinse un uomo grasso, drappeggiato da una tunica blu con ricchi ricami dorati, che stava evidentemente raccogliendo scommesse.
«Chi è quel maiale?» fece a Ennio.
«Quello è Zabda, il mercante di schiavi. Uno degli uomini più ricchi e più crudeli sulle rive del Danubio. Dico rive, al plurale, e non solo la riva romana, perché il nostro Zabda ha intensi rapporti commerciali anche con le popolazioni germaniche. Dopotutto, spesso sono quelle stesse a vendere al nostro amico la carne in cui commercia!»
«Non l’ho mai visto qui a Carnuntum.»
«Oh, lui si sposta qui e là. Ma ormai la stagione delle campagne militari sta per chiudersi, e anche lui torna nella tana, preparandosi al letargo invernale.»
«Zabda» ripeté tra sé Tauro. «Eppure conosco questo nome. Ne ho già sentito parlare.»
Ennio ammiccò: «Forse quando, qualche giorno fa, parlavamo delle più belle donne di Carnuntum».
«Ah già! Sì, ...