
- 154 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Con la faccia per terra e altre storie
Informazioni su questo libro
La consueta abilità dello scrittore nell'intrecciare storie e la vitalità dei personaggi contraddistinguono questa raccolta nella quale il racconto che dà il titolo al volume è centrato su un viaggio in Sicilia e sulla figura del padre.
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Informazioni
Print ISBN
9788804485797eBook ISBN
9788852027758Con la faccia per terra
I
Non sarei più dovuto tornare in Sicilia, con tanti posti dove andare a passare una vacanza, come la Francia, la Spagna, la Svizzera o anche Venezia e il Trentino. Meglio scegliere una località di acque salutari, alla mia età, per disintossicarmi e riposare in quei paradisi del fegato e dell’intestino che danno anche un tono a chi ci va da uomo posato, giustamente interessato ai propri organi.
Mio padre, pur senza suggerirmi altre mete perché alla sua età di novanta anni passati era contrario ai viaggi, cercava di distogliermi dall’idea di un ritorno in Sicilia, al suo paese, dove eravamo sempre andati insieme, fino a trent’anni prima. Se aveva rinunciato lui a rivedere le sorelle e i nipoti, e anche i luoghi, non c’era ragione che mi mettessi io a rinfocolare la passione di quei ritorni, di quegli arrivi e di quelle partenze. Invece a una certa età, che dev’essere proprio la mia età, viene la tentazione di ritornare nei luoghi della gioventù e dell’infanzia, come gli ex combattenti che tornano venti o trent’anni dopo sul Carso o sul Montello e portano la moglie e i figli a vedere le posizioni dove avevano combattuto: «Qui» dicono «eravamo noi. Là c’erano gli austriaci». Ma i figli non vedono altro che sassi e un po’ d’erba, si annoiano e tirano ad andar via. Anche il reduce a un certo punto si accorge che non era il caso di ritornare.
Cosa c’è di meglio del ricordare? Ritornare sui posti della vita passata a compiere verifiche e rievocazioni è sempre un passo sbagliato. Non si aggiunge nulla ai ricordi e anzi si guasta il lavoro della memoria, si confondono le immagini già chiare che il tempo ha composto e si smentisce la pura verità della favola nella quale tutto ancora può vivere. Ma si vuole forse ritornare proprio per farla finita coi ricordi, per rimestarli, appesantirli, metterli in condizione di colare a fondo e di perdersi finalmente nel passato. È col ritorno che si pone per sempre una pietra sugli anni che non ci somigliano più.
Al mio ritorno in Sicilia non finivo di trovare pretesti come se dovessi convincere qualcuno che mi occorreva una cura, un rimedio a qualche male che si era palesato proprio quella primavera. Alle zie vecchissime, ormai vicine alla morte, dicevo che era doveroso portare un saluto. Il cugino arciprete, anche lui anziano, meritava l’omaggio di una visita. E poi, nei viaggi con mio padre, che cosa avevo visto della Sicilia? Messina e Catania, ma solo di passaggio: le strade e le piazze vicine alle stazioni. Non Taormina, ma solo il paese sottostante di Giardini, non Agrigento, Siracusa, Selinunte, Segesta, luoghi famosi, ma fuori dal nostro itinerario che alcune volte comprendeva Palermo, dove si arrivava di sera per imbarcare sul “postale” e trovarci a Napoli la mattina dopo, già a metà strada sulla via del ritorno. Pretesti non me ne mancavano, come non ne mancano mai a chi vuol fare una cosa contro il parere altrui. Potevo perfino sostenere con buona ragione, che pur essendo nato in Lombardia le mie radici erano laggiù, in una specie di piccolo foruncolo segnato in poche carte geografiche, dal quale era uscito il mio genitore come dal foro di un termitaio.
L’opinione di mio padre, che non valesse la pena di tornare dopo tanti anni e senza di lui, non era priva di fondamento. Sembrava che, andandoci da solo, io volessi sottolineare la sua impossibilità a compiere il viaggio, la sua debolezza, o una cattiva volontà, mentre se avesse potuto ci sarebbe tornato di certo un’altra volta, prima di morire, anche se gli veniva una smorfia di disgusto al solo nome del suo paese. Non proprio di disgusto, ma di quasi compiaciuto abbandono. La stessa smorfia che gli appariva sul viso quando qualcuno lo complimentava per la sua tarda età. Era arrivato a non poter sentir parlare della sua longevità, che gli sembrava un peso, una condanna più che un privilegio. Così non voleva sentir parlare del suo paese troppo lontano e delle sue sorelle che non si erano mai mosse e lo aspettavano sempre come un messia, anche a quell’età.
Dalla Sicilia ero stato portato fuori, come semplice possibilità, nel 1887, l’anno in cui mio padre andò soldato di leva nelle Marche e cominciò ad assaggiare l’aria del continente trovandola buona al punto che, finito il servizio, non tornò più nella sua isola. Si fermò a Napoli molti anni, poi a Roma altri anni, e finalmente risalì come un’anguilla al Nord per andarmi a generare sulle rive del Lago Maggiore.
Aveva fatto un bel giro prima di prender moglie, cominciando con le Marche e passando per l’Eritrea, dove era stato nel 1888 alla guerra contro Menelik. Sul Lago Maggiore arrivò a quarant’anni, e dopo un lungo periodo di ambientamento si sposò. Era a posto per la vita. I suoi vecchi erano morti e le sue sorelle rimaste in Sicilia si erano sposate. Non c’era più bisogno di lui laggiù ed egli poteva dedicarsi tutto alla sua nuova famiglia.
Eppure, fedele al suo povero paese e ai suoi poveri parenti, dopo qualche tempo cominciò a tornare, ogni due o tre anni, per rivedere le sorelle e i nipoti; e quando arrivai all’età da poter viaggiare, non mancò mai di portarmi con sé. Per istruzione, diceva, per farmi vedere l’Italia; ma in verità come un acquisto che aveva fatto sul continente, o una fortuna che vi aveva trovato e che voleva mostrare al paese.
Tornava per vedere i parenti, ma anche per ripassare da Roma e da Napoli dove aveva vissuto la gioventù, e da Giardini dove durante un periodo di servizio militare aveva fatto delle conoscenze.
Manteneva delle amicizie dovunque era stato, e nei suoi viaggi, più che i ricordi, cercava le briciole dei bei tempi che aveva goduto, quello che ancora poteva raccogliere prima di rendersi inamovibile, come aveva in progetto per dopo i sessant’anni.
Il lavoro di mio padre, nelle Dogane, gli permetteva di riposare tutto l’anno; e d’estate, quando veniva il periodo delle licenze, non gli era duro affrontare le fatiche di un viaggio allora massacrante, il caldo, le scomodità, gli inconvenienti infiniti che accompagnavano chi si metteva in ferrovia per andare dal piede delle Alpi alla “terra delle pipe”, come mia madre chiamava la Sicilia, seccata dell’attaccamento del marito a quel disgraziato paese.
Secondo mio padre i mesi di luglio e di agosto erano il tempo ideale per un viaggio in Sicilia. Non c’era infatti sole o solleone che potesse obbligarlo a togliersi giacca, gilè e cappello, scarpe alte, colletto e cravatta.
In quella tenuta, e con una valigia per ogni mano, si metteva in viaggio con me alla volta del suo paese. Come impiegato delle Dogane aveva diritto a un biglietto gratuito annuale per sé e famiglia. Ed era l’argomento decisivo per vincere le perplessità di mia madre che vedeva pericoli e spese dovunque, specialmente nei viaggi.
«Dal confine svizzero alla punta dello stivale» diceva «nessuno sfrutta il biglietto più di me.» E chiedeva il biglietto fino a Trapani, pur sapendo che non sarebbe andato più in là di Palermo e che avrebbe rinunziato all’ultimo tratto. Gli dispiaceva solo di non avere dieci figli per poter imporre un più grave peso e dispendio alle Ferrovie dello Stato.
In viaggio la sua rabbia era quando il controllore non gli chiedeva il libretto e si contentava di forare il biglietto. Amava mostrare che era in regola, e soprattutto che apparteneva al ministero delle Finanze, un ministero al quale quello dei Trasporti doveva mettere a disposizione gratis dei posti sui treni.
Partivamo sempre di pomeriggio e passavamo da Bologna in piena notte. Sotto le gallerie della Porrettana si traversava l’Appennino e nel pomeriggio o verso la sera dell’indomani eravamo a Roma, prima tappa, dove mio padre andava sempre a trovare il suo amico e conterraneo Giuseppe Favagrossa, impiegato al ministero delle Finanze, che ci teneva a dormire nella sua casa, verso Porta Pia, in un palazzo costruito per gli impiegati dei ministeri.
Favagrossa era un uomo sulla sessantina, grassoccio, di statura media ma con le gambe così corte che per coprirsi il sedere doveva portare giacche lunghe come un soprabito. Sembrava uno strumento musicale, un genis, un bombardino, o un’altra cosa senza gambe come il contatore del gas. Sul naso e sulle guance gli affioravano piccole vene azzurre e scarlatte, e sul labbro gli spuntavano rari e grossi peli come alle vecchie.
Parlava della Sicilia con disprezzo e diceva che non sarebbe ritornato a vivere nel suo paese per nessuna ragione; in particolare perché non poteva più stare senza farsi il bagno tutte le mattine.
Mio padre sosteneva che Favagrossa era molto intelligente e istruito, tanto che stava sempre a contatto col ministro. Da anni mi mostrava la sua bella calligrafia sulle lettere che riceveva da Roma e che sul tergo della busta portavano una lunga dicitura stampata in azzurro.
Era uno scapolo, Favagrossa, servito in casa da una giovane montanara dell’Abruzzo, nera come un turco, che dava del tu a tutti e aveva un seno così voluminoso che un giorno ch’eravamo soli le chiesi se era balia. Mi rispose che per essere balia bisogna aver avuto un figlio, mentre lei era ancora ragazza. E vedendo che la guardavo davanti e di dietro, mi disse che al suo paese di quella roba c’era abbondanza. Incoraggiato, tentai di allungare una mano. Ma la montanara mi diede una botta sul braccio e voltandomi la schiena si allontanò canterellando: «Ti piacerebbe! Ma qui ci vuole Favagrossa!».
Avevo allora una quindicina d’anni ed ero già al terzo o al quarto viaggio in Sicilia.
Favagrossa ci faceva vedere Roma un pezzo ogni anno. Era iscritto a una società di amici dei monumenti e conosceva tutte le antichità. Ci mostrò la breccia di Porta Pia, la fontana di Trevi, il Pantheon, il Vittoriano del quale precisò i chili d’oro che erano occorsi per dorare il re a cavallo, e il Palazzo Venezia dove lavorava il Duce.
A Palazzo Venezia, stando in mezzo alla piazza dopo che le guardie ci avevano fatto allontanare dalla soglia, lanciò un pernacchio.
«Tu non hai sentito» mi disse poi, e fissò mio padre con uno sguardo d’intesa.
Un altro pernacchio lo fece davanti al Vaticano, con maggiore audacia, in vicinanza di un paio di gendarmi.
«Non ci fare caso a Favagrossa quando fa così» mi spiegò mio padre appena l’amico se ne fu andato al ministero «è sempre stato un framassone.»
«Che cos’è un framassone?»
«È una specie di anarchico, colla differenza che gli anarchici sparano, come nel 1900 a Monza quando un anarchico uccise Umberto I con un colpo di rivoltella, mentre i framassoni, pur essendo contrari al Papa e ai governanti, fanno solo dispetti, come Favagrossa. E sono brave persone, anche se Musolino li ha proibiti.»
Chiamava Musolino il Duce, senza offesa, e solo per comodità di pronuncia o perché era abituato a quel nome dai tempi della latitanza del brigante. Fra i quattro o cinque libri che teneva chiusi in un baule, ce n’era infatti uno intitolato Giuseppe Musolino, brigante per vendetta. Delitti, amori, processo e condanna.
Chissà dove ci avrebbe portati Favagrossa con la sua mania di mostrarci le cose rare della capitale. Una volta, cercando di non farsi capire da me, svelò a mio padre il significato osceno di una delle statue che stanno intorno alla fontana dell’Esedra. Un’altra volta, nei giardini del Vaticano ci fece osservare una grossa mezza pigna di bronzo dentro una nicchia, in un cortile detto della Pigna, e parlò nell’orecchio di mio padre.
«L’altra mezza pigna» disse poi ad alta voce «serve per vasca nel fonte battesimale di San Pietro.»
Riuscii a sapere solo molti anni dopo che quella pigna, quando era intera, figurava sul sepolcro di un efebo favorito mi pare dell’imperatore Adriano.
Favagrossa conosceva talmente i segreti di Roma, che non gli fu difficile procurarci l’occasione di una visita al Papa, che era Ratti.
Istruiti dall’amico, andammo di buon mattino in piazza San Pietro per accodarci a un pellegrinaggio di gente della Sabina.
Si cominciò col salire larghe scale, un gradino ogni quarto d’ora tanta era la folla dei pellegrini. Sempre a piccoli tratti traversammo saloni enormi, schiacciati fra quella gente di campagna che portava in dono al Papa caratelli di vino, trofei di frutta e paramenti sacri ricamati d’oro.
Dovette esserci un contrattempo, perché quella mattina, entrati dal portone alle otto, all’una dopo mezzogiorno ci spingevamo ancora per i saloni. Ogni tanto sveniva una donna per il gran calore e veniva portata fuori facendola passare di mano in mano sopra la testa dei pellegrini, perché scavare un passaggio nella folla era ormai impossibile.
Cominciò la fame; e i trofei di frutta furono disfatti e mangiati a gran furia dai più vicini ai portatori. Poi venne la sete, e i caratelli, issati in alto, vennero succhiati come le mammelle della lupa di Remo e Romolo.
«Ma cosa resta per il Papa!» si domandava scandalizzato mio padre asciugandosi le labbra dopo aver messo anche lui la bocca a un caratello. «Cosa dirà il Papa!»
Con un’ultima serie di spinte il pellegrinaggio fu stipato in un salone immenso diviso da spalliere di legno che lasciavano un passaggio nel mezzo. In fondo al salone, in uno spazio protetto da una balaustra, c’era un trono sopra dei gradini drappeggiati di rosso. Là doveva sedere il Papa.
Dall’ingresso qualcuno cominciò a dare falsi allarmi: «Il Papa, il Papa!». Tutti battevano le mani e il Papa non veniva. Ogni tanto passavano nella corsia due guardie con l’alabarda, un monsignore o un cameriere, e nasceva un nuovo allarme: «Il Papa, il Papa!». E invece niente.
Quando più nessuno aveva forza per gridare e i contadini, scornati, non battevano più le mani, il Papa all’improvviso comparve, sopra una sedia portata a spalle da uomini in livrea. Passò nel corridoio fra le due spalliere di legno, benedicendo con le dita a destra e a sinistra. Era piccolissimo, serio, con gli occhiali d’oro e tutto vestito di bianco. Andò a mettersi sul trono in fondo al salone con due cardinali ritti a lato e cominciò un discorso:
«Cari figlioli, che siete venuti a trovare il vecchio padre che sta a Roma...»
La gente aveva fame ed era sfinita dal caldo. Si erano fatte le tre del pomeriggio; e quelli più vicini all’uscita, che avevano visto per primi il Papa e che ormai non lo vedevano più, cominciarono a sfollare tirandosi dietro, come una rete, tutti gli a...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Con la faccia per terra e altre storie
- Introduzione - Una goccia di sangue più scuro - di Geno Pampaloni
- Cronologia
- Bibliografia critica essenziale
- Nota al testo
- Con la faccia per terra e altre storie
- Con la faccia per terra
- Era d’inverno
- Fine a mezzanotte
- Sull’ultimo cammello
- Una lunga partita
- Gli ultimi ostaggi
- Un sogno
- Nota
- Copyright