Chivasso
Almeno nevicasse!, si augurò Francesca distrattamente.
La neve come risarcimento consolatorio, un tuffo fuori tempo nello stupore dell’infanzia. I tetti sotto una coperta bianca e soffice come nelle cartoline, lei che li guardava dalla finestra della cucina. Il tazzone azzurro della colazione con il caffelatte, il panino con burro e marmellata da intingerci dentro e la voce di sua madre: attenta a non sbrodolarti, Franci! Il tepore della casa e degli affetti, mentre al di là dei vetri i fiocchi continuavano a scendere pigri.
Ricostruzione caramellosa del passato, distorsione elegiaca della memoria, magari un ricordo seminventato. «Mais où sont les neiges d’antan?» sospirò quasi suo malgrado, e subito si indispettì a ricordare che Villon non rimpiangeva la neve, ma le lattee poppe delle belle donne della storia.
Da sola non ci sarei mai arrivata, rimuginò acida (sorda alla poesia!, aveva sentenziato Guido il Genio), e aveva dovuto spiegarmelo lui con un bel po’ di sufficienza. Lui: studi classici, laurea in lettere antiche e cultura umanistica a largo raggio. Avrei dovuto chiedergli di parlarmi delle transaminasi, cosa sono e come funzionano, e vedere come se la cavava. Ah, dimenticavo, ha anche una predisposizione oltraggiosa per le lingue moderne.
«Non sei ebreo, non sei levantino: com’è che sei così dotato?» gli ho chiesto una volta e lui ha alzato leggermente le spalle, come a dire che la sua è una dote naturale. Ma pigliala più bassa!
Però nessun indizio lasciava presagire la neve. Troppo freddo: il termometro sull’insegna della farmacia segnava meno cinque. Ventate d’aria gelida che rasoiavano la faccia. E una patina di ghiaccio a rendere infidi marciapiedi e strade nei punti in cui non era stato sparso il sale. In giro poca gente a rischiare.
La donna, infagottata in un cappotto marron (marron diarrea, pensò Francesca), arrancava con passi corti e cauti, ma all’altezza del numero civico 36, dove il marciapiede era sbarrato da cavalletti con i nastri bianchi e rossi di plastica, fu costretta a scendere dal gradino e a camminare sul bordo della strada. Pochi secondi dopo, un’Audi A4, arrivando a velocità sostenuta, slittò sul ghiaccio e la colpì di fianco, buttandola in terra a corpo morto, senza la protezione delle braccia ad attutire il colpo. Francesca gettò istintivamente un grido, ma accorrendo in soccorso della donna ebbe la prontezza di spirito di memorizzare una parte della targa, perché la macchina non si era fermata, né aveva rallentato l’andatura.
Nera, un po’ sovrappeso, sui trent’anni poco meno o poco più, svenuta, constatò tra sé, girando con competenza professionale e un po’ di fatica il corpo dell’infortunata. Le sollevò delicatamente la testa appoggiandola sulla sua borsa, che giaceva riversa sull’asfalto come la proprietaria, estrasse dalla tasca del piumino il cellulare e chiamò un’ambulanza.
«Una donna investita da un’auto, via Cairoli 36. Sì, respira, non ha ferite evidenti, ma è svenuta. Fate presto, per favore.»
Intanto era sopraggiunto, attraversando la strada, un uomo sulla sessantina.
«La macchina era da signori, ma chi la guida è un miserabile. Ho preso l’inizio della targa, LX7, ma non so se basta.»
«Io ho preso la fine, GK, mancano solo due numeri, non sarà difficile beccarla. È disposto a testimoniare?»
«Sicuro. Siamo mica a Gomorra.»
«Bisogna chiamare i carabinieri. Ma sta poveretta col freddo che fa rischia uno shock termico» osservò Francesca, e subito si sfilò il piumino per coprire la donna.
«Adesso chi rischia lo shock termico è lei» commentò l’uomo.
«No, io posso muovermi» rispose, e cominciò a scalpitare e a mulinare le braccia.
Nel frattempo era arrivata altra gente.
«Spostiamola di lì» propose una donna.
«Sì, mettiamola sul marciapiede» aggiunse un’altra.
«Ferme!» s’intromise Francesca. «Sono un medico. Meglio non fare niente fino all’arrivo dell’ambulanza.»
«I carabinieri li ho avvertiti io» disse intanto l’uomo di prima. «Hanno una macchina in zona, dovrebbero arrivare subito.»
Invece la prima ad arrivare, con la sirena spiegata, fu l’ambulanza.
«Dottoressa Gariglio, l’ha soccorsa lei?» chiese uno dei barellieri dopo averla salutata con un cenno del capo.
«L’ho soltanto girata e coperta. Correte al pronto e fate in modo che si occupino subito di lei. Mi preoccupa perché non riprende conoscenza.»
«Il pronto è intasato.»
«Lo so. Sempre così, in questa stagione.»
«Vuole un passaggio, dottoressa, o non è di turno?»
«Dovrei cominciare più tardi, ma tanto vale…»
Si rimise il piumino, raccolse da terra la borsetta di plastica verdolina della donna, e salì sull’ambulanza.
Torino
«O mioddio mioddio» mormorò sbigottita Camilla, coprendosi la bocca con le mani.
Un’esecuzione, proprio un’esecuzione come nei film e telefilm su mafia e camorra, pensò. Un colpo all’altezza del cuore, il mio, roba da infarto. Qui, a Torino, in corso Regina Margherita, alle sette e mezzo del mattino, e la macchina adesso è finita di traverso sulle rotaie del tram oltre le strisce, e quelle dietro strombazzano perché nessuno sembra aver capito niente, ma dove diavolo guardavano autisti e passeggeri, e la moto è filata via col rosso, al riparo di un camion che svoltava, e di sicuro sulla Giulietta c’è un morto o un morituro.
Le tremavano le gambe, il cuore arrancava, le auto le sfrecciavano a fianco a destra e a sinistra, un cinquantenne pelato abbassò di poco il finestrino per urlarle «Balenga!» e quando finalmente il semaforo tornò verde per lei, si fidò ad attraversare una parte del corso e a mettersi in salvo sulla banchina del controviale. Chiamare la polizia, subito. No, la polizia no, meglio i carabinieri. Si frugò nella tasca del giaccone e tirò un mezzo sospiro di sollievo: il cellulare, una volta tanto, era lì invece di giacere dimenticato sul tavolino del soggiorno. Compose il 112 e si accorse che le tremavano anche le mani, come per la febbre. O per il Parkinson, pensò di striscio.
«Credo… credo che… c’è un morto… o un ferito» esalò, e si accorse di aver cannato il congiuntivo.
«Generalità, prego.»
«Non so, non lo conosco. Credo.»
«Le sue, di generalità.»
«Camilla Baudino.»
«Dove si trova?»
«Corso Regina Margherita angolo via Montebello.»
«E il morto?»
«Anche. Non so se è proprio morto, non ho il coraggio di guardare.» (E neppure di rischiare un’altra volta di essere stirata sull’asfalto, rifletté.)
«Si spieghi meglio, signora.»
«Una macchina era ferma al semaforo, si è affiancata una moto e gli ha sparato.»
«Chi gli ha sparato?»
«Il conducente della moto.»
«Resti lì, per favore, per la testimonianza.»
Nel frattempo qualcuno si era accorto che quell’auto, messa di traverso poco dopo le strisce, che non accennava a spostarsi nonostante il bailamme di clacson e di improperi, doveva avere qualcosa di anomalo e due ragazzi e una donna corpulenta sui quarant’anni le si erano avvicinati dopo aver attraversato parte della carreggiata.
«Minchia, l’hanno freddato!» esclamarono quasi all’unisono i primi.
«Gesummaria gesummaria!» strillò la seconda, e cadde a terra con una notevole grazia, malgrado l’esuberanza di carne. O forse proprio per via di quella. Subito dopo il traffico si bloccò del tutto.
Mai essere troppo diligenti, pensò Camilla, perché l’occhio maligno del destino ti punta subito. Se partivo di casa un po’ dopo, mi risparmiavo l’ammazzamento in diretta. Anche se partivo prima, però. Ma volevo passare dal bar, cappuccino bello schiumoso e croissant au beurre per intasarmi le arterie, una colazione un po’ rilassata, senza la solita fretta assassina.
A proposito di assassini, strano che sulla moto non fossero in due, come da prassi reale e cinematografica, uno alla guida pronto a schizzare a razzo e il passeggero a fare il killer. La crisi colpisce anche il crimine, costretto a ridurre il personale. Un taglio del cinquanta per cento, un delinquente solo a fare il lavoro di due.
Mi tocca telefonare a scuola per dire che ritardo: “Con che giustificazione, professoressa Baudino?” chiederà acida madama la preside. “Mi dica, con quale giustificazione?”. Neanche arrivassi abitualmente in ritardo, tipo Dorazio e Puglisi, che la parola puntualità non l’annoverano nel loro lessico e di conseguenza non possono metterla in pratica. Ma l’una e l’altro hanno orecchie da Dumbo e lingue serpentesche, come a dire che sono spioni e delatori della mutua, che basta uscire dai commenti sul tempo e loro vanno a riferire in presidenza. Magari anche i commenti sul tempo: “Sa, signora preside, cosa ha detto la Baudino? Ha detto che fa freddo, ma che lei non lo patisce, tanto per darsi delle arie da svedese o norvegese, perché figurarsi se non lo patisce come tutti i cristiani…”.
Intanto si stava avvicinando l’ululato di una sirena e poco dopo, con una specie di testacoda, la gazzella dei caramba si bloccò in mezzo all’incrocio. Sbagliato: non era una gazzella ma una pantera, e sulla fiancata c’era scritto “Polizia”. Merde, imprecò Camilla tra sé. Ma in francese, che le sembrava un po’ più fine.