ANDRÉ ASSÉO: È giunto il momento di parlare della tua lunga carriera francese. Dopo i due film con Roger Vadim – Piace a troppi e Relazioni pericolose – sembrava che continuassero a considerarti un attor giovane, un ragazzo un po’ timido e provinciale. Questo tuo modo di fare dipendeva forse dal rapporto contraddittorio che avevi con tuo padre.
JEAN-LOUIS TRINTIGNANT: Sì, è proprio così. Benché mio padre fosse socialista, non era un rivoluzionario. Io invece, come la maggior parte dei miei coetanei, mi ribellavo alle ingiustizie sociali. Ero convinto che tutti quelli che non sposavano le cause della sinistra fossero persone spregevoli. Un’idea un po’ semplicistica e sciocca!
In che modo ti ribellavi? Quali erano i motivi?
Ti racconto un episodio della vita di mia zia, nel quale mi riconosco bene. Avevo uno zio che era medico a Orano. Un vero idiota. Un perfetto colonialista, nel senso più dispregiativo del termine. A volte andavo in Algeria con i miei genitori, e vedevo come viveva. Provava un autentico disprezzo nei confronti degli algerini. Insultava continuamente sua moglie, che era la sorella di mio padre, e lei si ribellava. Un giorno, solo per farlo arrabbiare, è entrata completamente nuda nella sala d’attesa per cercare una rivista. Immaginati lo scandalo! L’ha fatta internare e lei ha trascorso il resto dei suoi giorni in manicomio a Montfavet, vicino ad Avignone, nello stesso istituto in cui era ricoverata Camille Claudel.
Quanto aveva a che fare il tuo spirito di ribellione con la tua timidezza?
Forse le persone timide sono talmente riservate nella vita di tutti i giorni che sviluppano uno spirito d’osservazione superiore, sono più attente a quello che succede attorno a loro. Le persone estroverse sono troppo occupate a gesticolare e a far baccano per avere il tempo di osservare.
Questa timidezza è scomparsa a poco a poco quando sei entrato a far parte del clan Marquand, che comprendeva tua moglie Nadine e i suoi due fratelli attori, Christian e Serge.
Senza dimenticare il padre e la madre, che sono morti entrambi. La signora Marquand era una donna anziana molto commovente e un po’ egoista: per arrivare a quell’età, bisogna sapersi riguardare, e quindi è necessario essere un po’ egoisti. La famiglia Marquand era meravigliosa, composta da persone veramente generose. Erano molto curiosi e ricettivi. Il signor Marquand, ad esempio, che si chiamava Jean ed era l’anima di tutta la famiglia, dopo gli avvenimenti del maggio francese si recò di persona all’Hôtel Matignon, dove si stavano svolgendo gli accordi tra governo e sindacati. Si mischiò ai partecipanti, e quando gli chiesero: “Chi è lei, signore?”, rispose: “Sono Jean Marquand”. C’era talmente tanta gente che nessuno cercò di saperne di più sul suo conto. Si sedette e assistette a tutti gli incontri, ascoltando senza fare commenti, e perciò si può dire che abbia preso parte a quegli storici accordi. Jean Marquand era un uomo che amava essere informato, e diceva che il modo migliore per soddisfare questa sua curiosità era assistere personalmente agli eventi, piuttosto che apprendere le notizie dai giornali, che in un modo o nell’altro alterano sempre la verità. Riteneva che tutto fosse possibile, a condizione che non si cercasse di ingannare le persone o di approfittare di loro. Aveva voluto essere spettatore di quell’evento perché la cosa lo interessava. Non si fermava di fronte a niente. Ad esempio, quando gli chiedevano se conosceva Louis Aragon, rispondeva: “Certo che lo conosco, anche se lui non mi conosce molto bene. Quando ci incrociamo per strada, io lo saluto e lui ricambia il mio gesto un po’ imbarazzato”. Salutava Aragon perché aveva letto alcuni dei suoi libri e lo riteneva uno scrittore di grande valore. Jean Marquand ha sempre vissuto in modo stravagante, un po’ incredibile. Quando erano giovani, lui e sua moglie Lucette abitavano a Marsiglia. Aveva pubblicato un annuario... sì, si può definire annuario quel fascicolo di tre o quattro fogli comprendente i nomi dei commercianti del suo quartiere che distribuiva ai passanti. In seguito, aveva deciso di estendere il servizio a tutta Marsiglia, poi all’intera Francia. Spediva le copie in contrassegno. La gente credeva che si trattasse di un servizio fornito dalle Poste, e così le acquistava. Una volta alla settimana, tutta la famiglia si recava all’ufficio postale per riscuotere i vaglia che erano arrivati. Poi andavano a festeggiare, a seconda di quello che avevano incassato. Ma ti rendi conto? Padre, madre e sei figli! È magnifico che ci siano persone che vivono in questo modo. Una tale spensieratezza, una tale felicità, una tale gioia di vivere! I figli erano folli come i genitori!
Nadine, Christian e Serge hanno fatto carriera nel mondo del cinema, sebbene non fossero figli d’arte. Christian, in particolare, ha recitato con te in Piace a troppi.
I Marquand erano molto interessati all’arte. Quando vedevano dei ragazzi senza soldi, li aiutavano. Erano estremamente generosi. Hanno ospitato molte persone a casa loro: Vadim, Robert Hossein e decine di altri artisti. Alcuni sono diventati famosi, altri no, ma che importanza ha?
La tua carriera cinematografica è iniziata con qualche ruolo secondario, come quello che hai ottenuto nel 1960 ne La battaglia di Austerlitz di Abel Gance. Al fianco di Pierre Mondy, che interpretava Napoleone, recitava un’illustre schiera di attori, tra i quali Michel Simon.
Mi piaceva moltissimo. Era uno degli attori che mi affascinavano di più. Sfortunatamente, l’ho conosciuto un po’ tardi. Era ossessionato da una marca di shampoo che gli causava delle eruzioni cutanee, ne parlava in continuazione. Se la prendeva anche con Louis Jouvet. “È un imbecille” diceva “disposto a pagare di più per un attore che ha meno talento di me!” Si riferiva a Pierre Renoir. Solo Jean Vigo incontrava i suoi gusti, un regista insieme al quale aveva girato L’Atalante, e che lo lasciava improvvisare, indicandogli solo il contesto e nient’altro. Aggiungeva anche: “Dica quel che vuole. Faccia come se la battuta le fosse venuta in mente lì per lì. Sarà sempre meglio di quello che ho scritto io!”.
Finalmente, nel 1961, arriva un ruolo importante, ne Gli amanti dell’isola di Alain Cavalier, che conoscevi fin dai tempi dell’IDHEC.
Eravamo molto legati, facevamo le vacanze insieme. Nadine era una grande amica di sua moglie. Inoltre, Alain e io avevamo una straordinaria somiglianza fisica. Quando ha scritto la sua prima sceneggiatura, Gli amanti dell’isola, me l’ha proposta dicendomi: “Ci sono due ruoli maschili, scegli quello che preferisci”. L’azione si svolgeva durante la guerra d’Algeria, e i due personaggi principali erano uno di destra e l’altro di sinistra. Ho scelto quello di destra, perché era un ruolo più interessante, più difficile, e in fondo anche il più spettacolare dei due.
Spesso, la simpatia o la tenerezza che un attore ispira nel pubblico sono dettate dai ruoli che interpreta. Curiosamente, non ti sei mai tirato indietro di fronte a personaggi antipatici.
Avevo fatto la stessa osservazione a Jean Carmet, che era un attore molto popolare. Abbiamo vissuto a stretto contatto per un mese e mezzo, durante le riprese del film di Jean-Claude Carrière, La Controverse de Valladolid. Mi meravigliavo che fosse tanto amato dal pubblico, nonostante avesse interpretato dei personaggi ripugnanti, orribili, degli stupratori come nel film Dupont Lajoie di Yves Boisset. Mi aveva risposto: “Mi rifaccio con le interviste!”. E in effetti era una persona fine, simpatica e molto generosa. Adorava gli aforismi. Diceva sempre: “Quando qualcuno pensa di essere arrivato, probabilmente non va molto lontano”. Era l’amico che tutti vorrebbero avere.
Alcuni attori si rifiutano di interpretare personaggi spregevoli con la scusa di non voler turbare il “loro” pubblico. Come se il pubblico appartenesse a loro! Non ti ho mai sentito dire “il mio pubblico”.
Perché non l’ho mai pensato.
Alain Delon dice spesso “il mio pubblico”...
Sì, ma fa un altro mestiere!
Torniamo a Gli amanti dell’isola di Alain Cavalier. Era il suo primo film, con la supervisione di Louis Malle. Tre ex studenti dell’IDHEC che si ritrovavano, dunque...
Louis Malle aveva raggiunto una certa notorietà grazie a Il mondo del silenzio, con il comandante Cousteau, ma soprattutto grazie alla regia di Ascensore per il patibolo, Gli amanti e Zazie nel metrò. A soli trent’anni, aveva approfittato di questi successi, e del patrimonio di famiglia, per produrre il film del suo amico Alain Cavalier. Anche Louis Malle ha aiutato molti altri giovani registi. Era veramente una persona perbene.
Gli amanti dell’isola è stato il tuo primo film politicamente impegnato – ce ne saranno altri nella tua carriera! – e all’epoca avevi dichiarato di essere finalmente riuscito a dominare un personaggio.
Non completamente. C’erano momenti in cui lo dominavo meno, e Alain Cavalier, in quei casi, era duro nei miei confronti, dava giudizi poco amichevoli. Per esempio, stavamo girando una scena in cui avevo messo tutto me stesso, cercando di esprimere emozioni che mi facevano male. Al termine della ripresa, Alain si è limitato a dirmi: “Chiudi la bocca, la tieni troppo aperta!”. La sua osservazione mi ha completamente demoralizzato, soprattutto perché veniva da un amico così intimo. In fondo, quella frase voleva dire che la mia interpretazione non andava bene. Può darsi che tenessi effettivamente la bocca troppo aperta e che il suo giudizio fosse dettato solo da un’esigenza estetica, oppure che lo avesse detto unicamente per distrarmi, perché si era reso conto che mi ero fatto del male recitando... Non so. Ancora oggi mi domando perché abbia pronunciato quella frase. Ma è vero che i registi hanno il diritto di fare quello che vogliono. Forse bisogna trattare male gli attori per tirare fuori il meglio da loro, o forse bisogna trattarli bene. Claude Chabrol sa dirigere magnificamente il cast, perché sa esattamente in quale stato d’animo deve trovarsi un attore per girare una determinata scena.
Per tornare ad Alain Cavalier, oggi ha scelto la strada del rigore, un rigore che ha portato ai massimi livelli nel film Thérèse.
Ma prima di quella svolta, aveva girato pellicole assolutamente inquadrate nel circuito commerciale. La Chamade, tratto dal romanzo di Françoise Sagan, con Catherine Deneuve e Michel Piccoli, ne è l’esempio più lampante. Credo che in seguito sia stato nauseato dall’ambiente parigino, e abbia deciso di proseguire la sua carriera in direzione diametralmente opposta. Alain Cavalier vive in maniera molto austera. Abita in un monolocale all’ultimo piano, non ha l’automobile e ha rinunciato ai soldi. Provo una tenerezza immensa, quasi fraterna, per quest’uomo. Considero magnifico il suo percorso. È un vero artista. La scelta giusta l’ha fatta lui!
Molto tempo dopo rispetto a Cavalier, anche tu hai scelto la strada del rigore.
Non è la stessa cosa. In confronto a quella sorta di reclusione che Alain si è imposto, la mia scelta suona un po’ borghese e decadente. Aggiungo anche che è una decisione più facile da prendere quando si comincia a invecchiare, mentre Alain ha cambiato rotta più di trent’anni fa. Sono felice di questo suo nuovo successo. Quando ho saputo che il suo Pater era stato selezionato per il Festival di Cannes, sono rimasto piacevolmente sorpreso. A ottant’anni, ha firmato la regia di un film di rara freschezza. Una sorta di scherzo tra amici, un gioco tra lui che si diverte a interpretare la parte del presidente della repubblica, e Vincent Lindon che gli fa da primo ministro. È divertente, originale. È il genere di film che si ha voglia di girare a vent’anni!
Dopo Gli amanti dell’isola, non hai più smesso di recitare. Si contano dieci film solo tra il 1964 e il 1965.
È vero, ma erano sempre ruoli minori. Per Angelica ho girato due giorni, per Parigi brucia? tre. Avrei potuto farne anche quindici di film, non dieci! L’incontro più interessante è stato quello con Costa-Gavras all’epoca del suo primo film, Vagone letto per assassini, nel quale avevo anche stavolta una parte secondaria. Di Costa-Gavras ho apprezzato molto il modo di lavorare, quel suo lato da lavoratore immigrato. Successivamente, l’avrei rivisto in occasione del suo secondo lungometraggio, Z – L’orgia del potere.
Queste due partecipazioni hanno favorito il tuo ingresso nella cerchia di Yves Montand e Simone Signoret.
Sì, la coppia abitava in una bella casa ad Autheuil. Spesso invitavano gli amici, in maniera molto semplice, senza troppe smancerie. Nadine e io abbiamo trascorso dei lunghi fine settimana da loro. Ero molto contento di far parte di quella famiglia.
Non ti infastidivano le posizioni politiche che la coppia manifestava così apertamente?
Erano sinceri, questo è l’importante. Non approfittavano della politica, ne discutevano. Soprattutto Montand era un gran chiacchierone. Era un tipo che ispirava simpatia... perché era maldestro. Aveva una grande spontaneità, un lato infantile. Ero molto affezionato a loro, davvero, forse più a Yves che a Simone. Lei era di sicuro più intelligente, ma anche un po’ troppo intellettuale, sempre pronta a complicare le situazioni. Ogni tanto la trovavo un po’... pesante. Diceva al marito: “Non dire fesserie!” e lui rispondeva sorridendo: “Sì, dico fesserie”. E poi Simone Signoret beveva, e molto. Va bene bere, non sono contrario. Anch’io me la cavo...