Dell’infanzia mi manca il risveglio, quando mamma preparava la colazione e l’aroma del caffè annunciava la mattina. Sentivo il rombo dello scooter del fattorino allontanarsi nella via. Ci lanciava il giornale puntualmente alle sei e quarantacinque. Mamma accendeva la luce in bagno, l’acqua scorreva, l’anta dell’armadietto di legno cigolava, una, due volte. Poi si affacciava alla porta della mia stanza, si avvicinava, sedeva sul bordo del letto, mi pizzicava delicatamente i fianchi come per farmi il solletico, mi baciava la fronte e sussurrava: «Ti aspetto giù».
Scendeva le scale adagio, con il passo pesante di chi è assonnato. Me la immagino ancora stropicciata tirar su la tapparella della cucina con quelle sue lunghe braccia, troppo esili per far scorrere l’avvolgibile tutto in un sol colpo. Indossava una vecchia vestaglia bianca di cotone che le arrivava fino alle caviglie, e i piedi, nudi anche in pieno inverno, calzavano gli zoccoli di legno acquistati ai tempi del liceo. Tac tac tac, si sentiva per casa. Un rumore sordo di legno contro legno.
A mamma il caffè piace forte, oggi come allora, nonostante gli anni ne abbiano ammorbidito il temperamento. «È una questione di vigore» ama precisare. Mamma è una donna silenziosa, che non spreca parole e le sceglie con cura. Sentenzia. Ha imparato a nascondere le fragilità con stile, diventando austera e asciutta.
«Intenso superiore ricco» dice tutto d’un fiato, con la voce nasale di chi rimane in apnea per la fretta di parlare. «Queste sono le qualità di un caffè completo, con la giusta corposità.» Sfoggia i risultati del corso di degustazione: centocinquanta euro evaporati in due ore di lezione.
Pigia la polvere nera nella moka fino a creare una montagnetta pressata, liscia dalla cima fino alla base. La comprime, la leviga col cucchiaino, e infine la schiaccia avvitando la parte superiore della macchinetta. A fuoco basso coccola l’acqua perché salga adagio. Il caffè ascende a gocce, amare e concentrate. Una bevanda sacra, senza la quale è impensabile cominciare la giornata. La preparazione è meticolosa, sempre la stessa, anche oggi che mamma porta i capelli bianchi raccolti.
Quando ero bambina, fermava i capelli lunghi con una molletta puntata sulla testa e indossava occhialoni a goccia stile anni Ottanta. Attendeva seduta vicino ai fornelli e aveva il tempo di scorrere i titoli del giornale dalla prima all’ultima pagina. Sfogliava lentamente con la mano sinistra e intanto allungava la destra come il collo di un cigno, morbida e distinta. Spegneva il gas senza neppure alzarsi. Nulla riusciva a distrarla da quel momento di pace mattutina, fatto di piccoli gesti rituali.
La raggiungevo al piano di sotto e le sedevo accanto, la testa appoggiata alle braccia abbandonate sul tavolo tondo. Lei continuava a gustare la sua bevanda bollente e a leggere il quotidiano. Posava la tazza per un attimo, deglutiva la lava scura e si inumidiva le labbra con la lingua per raffreddarle. Senza distogliere lo sguardo dal giornale passava le dita affusolate tra i miei capelli, mi pettinava la frangia di lato per liberarmi il viso dalla chioma che sapeva ancora di sonno. Era tanto concentrata nella sua intimità da dimenticare le consuete barriere fisiche del nostro rapporto, concedendomi carezze affettuose. Nel suo silenzio mi apriva le porte di un amore nascosto, più che mai materno. O forse, nella distrazione, lo concedeva soprattutto a se stessa.
Poi recuperava il caffè e riprendeva a sorseggiare.
Con la testa accucciata tra le braccia fissavo la lancetta dell’orologio a parete procedere a scatti. La mia colazione poteva aspettare, niente sarebbe accaduto prima che lei finisse di sorbire il suo caffè. Mamma usava il bicchiere più grande che avessimo, alto, di vetro e col manico cicciotto: il boccale della birra con la scritta “Guinness”. Ci volevano quindici minuti buoni perché riemergesse dal suo isolamento.
Lo ricordo come il silenzio più dolce, fatto di quiete e serenità. Un silenzio intenso superiore ricco.
«Non riuscii a rinunciare» mi confessa. «Ma ne prendevo uno solo!» alza addirittura la voce.
Sorrido. Non se ne può più della solita storiella del suo caffè in gravidanza.
«Una tazzina a colazione, una sola» insiste.
Com’è possibile che non si senta ridicola? Me lo ha raccontato centinaia di volte.
Continua a giustificarsi, quasi mi dovesse delle scuse per il segno indelebile che mi colora la pancia. Adora raccontarmi la storia della mia voglia di caffè. Non può farne a meno neppure oggi, che ho superato l’età che aveva quando mi mise al mondo. Mamma smarrisce la consueta compostezza, diventa improvvisamente loquace.
«Ma una tazzina che fa? A me non è mai bastata.» Fa scivolare veloce una ciocca di capelli tra l’indice e il medio e la fissa dietro all’orecchio. «Per questo hai quella macchia bruna sulla pancia, poco sopra l’ombelico.»
Suona come la favola della cicogna raccontata a una ragazzina che ha già perso la verginità. Punta un dito sulla mia pancia, facendomi prurito. Da bambina ridevo, da ragazza mi innervosivo, e oggi mi intenerisce. La osservo mentre ride divertita all’idea delle proprie trasgressioni. Si sforza di assumere un aspetto serio e mi assicura che anche altre signore bevevano il caffè col pancione: «E ben più di me!», me lo giura.
Quella macchia, in realtà, non è mai stata un problema. Indisturbata sotto alla canottiera, si scopre d’estate e si rivela agli amanti come un segreto intimo e dolce. Con gli anni si è scolorita e assottigliata, diventando un’ombra del diametro di un acino d’uva. Probabilmente mamma la ricorda sulla mia pelle di bambina, dove ogni dettaglio risultava in proporzione più evidente.
Non interrompo il suo monologo, che scorre come nuvole bianche nel vento: la luce filtra, a tratti ti acceca, ma poi il cielo torna compatto. Rimangono chiazze di una verità mai indagata, un movimento che cerca una forma. Forse si scusa per non aver rinunciato ai propri piaceri, forse intende spiegarmi che era il suo modo per rimanere a galla nella solitudine del suo matrimonio, o magari vorrebbe giustificarsi per aver lasciato dei segni nella mia vita, mentre avrebbe desiderato rimanere impercettibile, cancellare le impronte. Ma il suo caffè intenso e rovente, che ustiona le labbra e le consuma, rivela un’indole precisa: è una donna forte, incapace di passare inosservata.
Racconta questa storia ogni volta che prendiamo insieme il caffè, sottolineando quanto lei e io, in fondo, siamo diverse. A me piace leggero, annacquato: senza carattere, a sentir lei. Mamma invece cerca un aroma che incida, e lo beve bollente perché la lingua venga scolpita da solchi indimenticabili, eterni. Il tono di giustificazione improvvisamente ricade nella critica. Mi vorrebbe più decisa, più solida. Non ha mai tollerato la mia emotività, e forse nasconde di averla rifiutata a sua volta per far fronte alla vita, cedendo a una vera e propria metamorfosi. Nei momenti di vulnerabilità mamma diventa ancora più ruggente, inavvicinabile e taciturna.
Per lungo tempo ho seguito la tradizione materna, preparandomi ogni mattina la moka pur di tornare bambina. Rispettavo il procedimento passo dopo passo. Comprimevo, levigavo e serravo la macchinetta con tutta la forza. Poi abbandonavo la testa sulle braccia, tenendomi pronta a spegnere rapidamente la fiamma.
Mi bastava ascoltare l’eruzione della moka, inalare l’intensità dei chicchi macinati e spremuti, poggiare la fronte sulle braccia per sentirmi meno spaesata, per risvegliarmi a casa.
Poi, quasi di soppiatto, prendevo una grande tazza, la riempivo d’acqua bollente e la macchiavo col caffè, troppo forte per i miei gusti. «Americano» mi dissero al bar, una volta che cercavo di spiegare con imbarazzo i miei complicati desideri. Allora scoprii di non essere l’unica ad amarlo così, annacquato.
Con gli anni ho rinunciato al gorgoglio della moka, ma non alla fragranza del caffè la mattina. È stato come tagliare il cordone ombelicale e accettare la mia individualità: non un caffè senza carattere, come mia madre insinuava, piuttosto un caffè con il mio carattere, un caffè che mi appartenesse.
E così sono passata all’arabo, macinato fine e fatto bollire in un ibriq1 di rame con il cardamomo. Mi insegnarono a prepararlo le mie zie paterne, quando trascorrevo l’estate in Giordania. Per molti anni lo dimenticai, quasi certamente di proposito. È un caffè importante, ricco di storia e significato. Le donne ci leggono il destino.
Amandone il sapore, trovai un compromesso: un vecchio colino a maglie strette per non far depositare il sedimento sul fondo della tazzina. Non volevo imbattermi nelle impronte della mia sorte dopo aver sorseggiato il caffè. Quale modo peggiore per cominciare la giornata?
Ancora una volta personalizzai il mio caffè, eludendone l’intensità e fuggendo dal fondo scuro che mi intimoriva, come il vortice di un lago profondo che ti tira giù: una, due, tre volte, fino a rubarti anche l’ultimo respiro. Basta poco, basta un attimo. Evitai il sedimento e mi sentii salva, ignara di quanto la vita possa essere schietta e amara, ben più di un presagio, molto più di una tazzina di caffè.
Le persiane filtrano la luce che taglia l’oscurità della nostra stanza al mattino. Il buio diventa meno netto, la polvere volteggia in un fascio di particelle leggere. Arriva così, apparentemente senza premesse, una verità maturata in un’alba impercettibile che improvvisa si trasforma in chiarezza diurna.
Giacomo mi dorme a fianco, morbido, con la bocca leggermente schiusa. Esce un sospiro lieve, caldo di sogni nascosti. Vorrei intrufolarmi nella sua mente e spiarne le immagini. Ho sempre desiderato invadere lo spazio intimo dei pensieri altrui, senza scrupoli né vergogna. Senza giudizio, soprattutto. Così, per genuina curiosità.
Lo osservo con la dolcezza che anticipa il desiderio, una fantasia femminile impastata di amore ed egoismo. Fondersi al proprio uomo, sognare una vita che ancora non esiste e già profuma di familiare. È un istinto che a un certo punto accarezza il grembo di ogni donna, lo liscia dall’interno con il dorso di una mano delicata, mentre il palmo prepara il ventre, lo riscalda.
Puntuale come la voglia di essere svegliati con una tazza di caffè, una mattina il mio orologio biologico sembra aver puntato la sveglia. Non ci avevo mai pensato, presa da una vita punteggiata di amici, lavoro, aperitivi e viaggi. Superati i trenta con la leggerezza tipica di una generazione eternamente giovane, non avevo considerato l’idea di mettere al mondo un figlio.
Poi, da un giorno all’altro, attraversando il parco sotto casa mi accorgevo delle carrozzine, a passeggio per la città mi intenerivo davanti alle vetrine di calze per bebè, mi ritrovavo in lacrime di fronte all’abbraccio di una mamma col suo bimbo all’uscita dell’asilo.
Arriva, come tutte le cose. Arriva come tutte le cose nella mia vita, soprattutto. Come la pipì, che non avverto fino a quando non è già assolutamente necessario svuotarmi, ovunque io sia, chiunque ci sia. Da un attimo all’altro scopro una nuova urgenza e nulla riesce a distogliermi dal pensiero di quel bisogno così fondamentale.
Come i bambini collaudano le loro prodezze al riparo dagli sguardi esigenti degli adulti, le mie urgenze maturano sotto al tavolo, accucciate e quiete fino a quando non hanno il coraggio di urlare. A quel punto non ci sono domande, non ci sono dubbi. Sto già aspettando, prima ancora di essermi messa in fila.
Inutile cercare di spiegarlo, è così e basta. Anzi, trovo snervante la pazienza di chi attende domani per qualcosa che è maturo già oggi. E lo è, maturo. Dentro di me conosco tutti i perché. Ragioni che hanno senso pieno in me stessa, un loro posto e un loro nome.
Adrenalina pura, che può apparire irragionevole solo perché scotta come la sabbia del deserto. Ma ogni granello ha una sua posizione, e dopo che il vento ha sollevato la tempesta, tutto torna a un equilibrio perfetto.
Giacomo si rigira tra le lenzuola, lo stringo con il senso di colpa di chi ha un progetto segreto, una trappola nascosta. Mi aggrappo alla sua schiena e quasi fatico a raggiungere il petto con le braccia. È grande, una montagna rassicurante. Rimango appiccicata a lui come una ventosa.
«Giacomo?» Timidamente mi faccio spazio nel suo sonno.
«Hmmm?»
«Sei sveglio?»
«Ora sì, Qamar, che vuoi?» sospira. «Non è sabato?»
«Sì, amore, è sabato...»
«Che c’è?», il tono è seccato e divertito al tempo stesso.
Ne approfitto, mi faccio largo nell’ironia della sua inflessione. «Giacomo?» miagolo.
«Sììì?» sibila.
Con le labbra molli, struscio la bocca sul suo collo. Prendo tempo.
«Giacomo, lo vorresti un figlio?» domando tutto d’un fiato.
Passa un secondo, due, poi si gira e mi bacia. Mi tiene la testa tra le mani enormi e mi si incolla addosso così forte da schiacciarmi il naso con il suo.
«Qamar?»
«Sì?»
«Possiamo dormire adesso?»
Sorrido e chiudo gli occhi, appoggiando la fronte alla sua schiena.
Lunedì mattina prendo l’appuntamento dal ginecologo. Non il mio, non c’è tempo per la solita attesa. Mi rivolgo a un centro privato che mi offre una visita con una perfetta sconosciuta il pomeriggio stesso.
«Giacomo, abbiamo l’incontro fissato per le quattro, mi raccomando», ansimo al telefono mentre cammino di fretta verso l’ufficio. Per fortuna non fa già più troppo caldo.
«Di che? Cosa?»
Sono passata all’azione senza dare troppe spiegazioni. Nessuna, per la verità.
«Il ginecologo.»
«Di già-à?» sbuffa. Abbassa la voce e chiaramente si apparta. «Qamar, non puoi semplicemente farti trovare nuda in casa ogni sera? Qual è il divertimento della cosa, sennò?»
«Sarà fatto, amore. Lo farò.» L’idea mi diverte. «Ma dobbiamo consultare uno specialista.»
«Senti, Qamar, non te la prendere... non posso, oggi proprio non posso. Con così poco preavviso. Mi ci impegnerò, promesso, sono pronto al mio dovere coniugale anche ora, se vuoi. Passi in ufficio da me per pranzo? Escono tutti, qui...» ridacchia.
«Imbecille!», è il solito. «Ci vado senza di te, ma solo p...