L'amore graffia il mondo
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L'amore graffia il mondo

  1. 228 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'amore graffia il mondo

Informazioni su questo libro

È come se portasse il destino nel nome, Signorina: suo padre, capostazione in un piccolo paese di provincia, l'ha chiamata così ispirandosi al soprannome di una locomotiva di straordinaria eleganza. E creare eleganza, grazia, bellezza è il suo talento. Un giorno dal treno sbuca un omino con gli occhi a mandorla e, con pochi semplici gesti, crea un vestitino di carta per la sua bambola. L'omino scompare, ma le lascia un dono, un dono che lei scoprirà di possedere solo quando una sarta assisterà a una delle sue creazioni. Potrebbe essere l'atto di nascita di una grande stilista, ma ci sono il fascismo, la povertà e gli scontri in famiglia, le responsabilità, i divieti e poi la guerra... e Signorina poco a poco rinuncia a parti di se stessa, a desideri e aspirazioni, soffocando anche la propria femminilità, con una generosità istintiva e assoluta. E quando infine anche lei, quasi all'improvviso, si scopre donna e conosce l'amore, il sogno dura comunque troppo poco, sopraffatto da nuovi doveri e nuove fatiche, e dalla prova più difficile: un figlio nato troppo presto e nato malato, costretto a "succhiare aria" intorno a sé come un ciclista in salita. Nonostante i binari della ferrovia siano ormai lontani e la giovinezza lasci il posto a una maturità venata di nostalgia, ancora una volta Signorina sfodera il suo coraggio e la sua determinazione al bene e lotta per far nascere suo figlio una seconda volta, forte e capace di respirare da solo.
Solo alla fine, nell'attimo esatto in cui la lotta cede il passo alla quiete, quel figlio nato due volte si renderà conto che l'amore coraggioso, quello di una donna e di una madre come Signorina, porta nel suo stesso corpo le ferite e i graffi del tempo... L'amore graffia il mondo è il ritratto appassionante di una donna più forte delle proprie fragilità e del vento della storia: una figura indimenticabile, unica, eppure sorella delle tante donne che ogni giorno come guerriere silenziose rinunciano a se stesse per abnegazione e per amore.
Ma - come Il dolore perfetto, con cui Riccarelli ha vinto il premio Strega nel 2004 - questo romanzo è anche la saga di una grande famiglia, con una galleria di personaggi severi o meschini, inermi o tenaci che rimangono incisi nella memoria perché appartengono a un tempo perduto. È la storia dell'amore più assoluto e viscerale, quello tra madre e figlio, e della speranza più visionaria. Ed è la celebrazione della forza dell'immaginazione: quella di una donna capace di trarre un abito dalle pieghe di un foglio di carta, perché bastano pochi semplici gesti per vestire di bellezza il mondo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804616276
eBook ISBN
9788852030383

PRIMA PARTE

La casa dei ferrovieri se ne stava piantata in mezzo a un fascio di binari, neanche fosse un capostazione. Aveva un unico grande portone e una sfilata di finestre bianche che a Delmo ricordavano una dentiera. L’ultima a destra era della sua camera da letto e quella mattina era l’unica spalancata, un buco nero che la faceva sembrare un dente mancante, o una carie appena visibile per lo spessore di una nebbia infame, densa come l’orzata che adesso inondava tutta la stazione impedendo quasi di vedere la torcia del Passi mentre segnalava lo scambio.
Delmo estrasse dal taschino l’orologio per controllare la puntualità del diretto che di lì a un minuto sarebbe dovuto sbucare dalla curva oltre la roggia, rompendo con il suo sferragliare l’incanto del galleggiare nella dolcezza di quella bevanda opaca.
Fu proprio mentre iniziò a sentire il rumore del treno che dalla carie sulla casa si affacciò sua sorella Anita ad annunciare la nascita con un bercio da mercato, e lui all’improvviso dimenticò i treni e la dolcezza dell’orzata e si ricordò della moglie che un paio di ore prima aveva rotto le acque.
«È nata» ripeteva la donna alla finestra, come se fosse accaduto un evento eccezionale e non fosse invece la terza volta che la Maria metteva al mondo un figliolo.
Dalla coltre di nebbia si cominciava a intuire lo scuro della macchina a vapore.
«La Maria vuol sapere come la chiami, questa» gli urlò intanto l’Anita con quella voce da prefica.
Delmo ristette, incerto. Francamente aveva pensato a un maschio, un altro figlio maschio a cui imporre un bel nome forte e contadino come aveva fatto per Severo e Olmo. E invece adesso si ritrovava con una femmina in mezzo ai piedi e un nome da scegliere proprio mentre il diretto stava arrivando in stazione.
Alzò lo sguardo verso l’Anita che lo incalzava.
«Allora Delmo, come la chiami questa?»
Lui alzò la mano come faceva per fermare i treni affinché quella voce pungente si chetasse e gli lasciasse il tempo di pensare, ma già la motrice si era immessa nello scambio che il Passi aveva azionato e si annunciava con un fischio d’animale. Allora si voltò verso la banchina e la vide, vide il muso della locomotiva bucare il bianco e spargere intorno a sé scintille e sbuffi di vapore, proprio mentre una lama di sole faceva brillare il 640 scritto in acciaio, a indicare il modello di quel portento.
A Delmo sembrò una scena da sogno, una specie di dea che sbucasse dalle nubi dell’Olimpo, o una Venere dal mare, che a dispetto di quel numero così burocratico nascondeva la bellezza di una linea unica, un’eleganza e un portamento che le avevano fatto dare dai ferrovieri il soprannome di Signorina.
La vide arrivare in quel modo e capì di esserne innamorato, e il fastidio per la nascita di un impiastro di femmina fu un poco mitigato dalla bellezza che anche un ammasso d’acciaio riusciva a esprimere in quel procedere maestoso.
Allora si voltò verso l’Anita che aspettava una risposta:
«Signorina» le disse, «la chiameremo Signorina.»
Quindi si mosse verso la banchina e alzò la paletta da capostazione per arrestare la bellezza davanti ai suoi piedi.
Signorina non amava i treni, anche se loro la cullarono per anni passando e ripassando sotto la casa dei ferrovieri, regalandole ogni volta un tremolio che risparmiò alla Maria la fatica di ninnare quella figlioletta riccia.
Nonostante il loro corteggiamento tenace, continuò ad avere in uggia lo sferragliare invadente dei convogli, lo stridere dell’acciaio, i colpi dei vagoni sui respingenti e il fischio dei locomotori che in fondo fu la prima cosa che lei aveva sentito quando era venuta al mondo.
La Maria l’aveva appena spinta fuori da sé, quando la 640 che avrebbe stregato suo padre fece l’annuncio del suo arrivo con un sibilo acuto. Signorina lo sentì entrare dentro il suo piccolo corpo come una coltellata, un fastidio che si aggiungeva al bruciore dell’aria nei polmoni, alla luce che le feriva gli occhi e all’odore di mele che stagnava nella camera. E il suo primo strillo, dunque, non fu, come ebbero a credere i presenti, il grido rituale di un essere offeso dall’obbligo di nascere, ma l’espressione di disappunto per l’urlo della locomotiva, che da quel momento l’avrebbe inquietata per tutta la vita. Abitava in mezzo ai binari, guardava il transito dei convogli dal terrazzino della cucina, camminava a malapena e già saltava sulle traversine giocando a campana, ma il fischio della locomotiva continuava a procurarle un fastidio sottile, che tentava di mitigare stringendo a sé la bambola di pezza che, prima di lei, aveva fatto compagnia all’Ada e alle figlie dell’Anita.
Il fischio la inquietava, ma l’andare e venire delle persone che transitavano dalla stazione l’attraeva, anche perché il movimento della gente sulle banchine apparteneva a un mondo che le era stato proibito di esplorare dalle raccomandazioni piene di ansia della Maria, dallo sguardo severo di Delmo e dalla voce acuta dell’Anita. E come spesso succede, dunque, il territorio vietato finì per attirare sempre più la sua curiosità bambina, finché un giorno, sentendo l’urlo del locomotore che si annunciava in arrivo, Signorina fece un lungo respiro, si strinse al petto la sua bambola per darsi coraggio e si avviò verso la banchina.
Era alta poco più di un cespuglio e con fatica si arrampicò sul sedile di marmo dietro alla colonna della pensilina, cercando di nascondersi il più possibile alla vista di Delmo fermo al binario, la paletta alzata ad arrestare il convoglio. Il locomotore dette ancora un paio di fischiate e lei si coprì con le mani le orecchie, mentre spalancava ancora di più gli occhi per ammirare il portento che sbuffando vapore e fumo si arrestava a pochi passi dai suoi piedi.
Il treno si fermò e per un breve istante tutto sembrò ghiacciato, sospeso, finché Delmo abbassò il braccio e come in una danza il mondo si mise in moto: si spalancarono le porte dei vagoni e i passeggeri iniziarono a scendere sulla banchina mentre quelli che attendevano di salire si accalcavano alle porte. Signorina rimase a guardare a bocca aperta quello spettacolo di confusione, la varietà dei vestiti, i colori, i tipi di bagagli. L’universo intero le parve concentrato lì, chiuso tra le diverse fogge dei cappelli degli uomini e delle gonne delle donne, i grandi bauli di pelle lucida e le valigie strette, di legno e cartone; e poi i fagotti e i pacchi, i cartocci e le scatole, le borse dalle quali, a volte, spuntavano le teste di un paio di galline o di un gatto spaventato. E dalla scarsa altezza della sua visuale mirò le scarpe, l’enorme popolazione di calzature che a due a due si muovevano attorno ai vagoni, di ogni tinta e modello, consumate, nuove, coi tacchi alti o piatte come ciabatte. Signorina se ne stette a guardare quel teatro fino a che scorse suo padre rialzare il braccio come un dio imperioso, agitare un paio di volte la paletta ed emettere un fischio lungo e lacerante al quale la locomotiva rispose col suo verso, pochi istanti prima di sbuffare nuvole di vapore e muoversi verso il viadotto.
Signorina rimase ancora un po’ seduta sul marmo, l’occhio sempre attento alla posizione di Delmo che, per fortuna, se ne stava tornando verso la biglietteria voltandole le spalle. Rimase in quel modo, a digerire quella scorpacciata di immagini che l’avevano frastornata come lo spettacolo di un circo, così si accorse solo all’ultimo momento del signore che la stava guardando. Era un omino secco, vestito con una livrea elegante, con tanto di piccolo cilindro e una valigetta nera. Aveva dei baffetti appena accennati e due occhi stretti a mandorla, che luccicavano dietro un paio di occhialini tondi. Lui la fissò, le allargò un sorriso gentile, si piegò in un inchino e lei sentì l’aria riempirsi di un dolce profumo di legno. Le disse qualcosa, gorgogliando parole che lei non capì. L’uomo finì di emettere i suoi suoni strani e si produsse in un altro inchino, poi, sempre sorridendo, si fermò a fissarla. La sorpresa di Signorina, intanto, si stava trasformando in imbarazzo per il silenzio che si era stabilito tra loro. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma in quel momento l’unico gesto che si sentì di fare fu di allungare il braccio e offrire allo sconosciuto la bambola di pezza con cui condividere la possibilità di un’amicizia. Una cortesia.
Lui allargò di più il suo sorriso ed emise una specie di esclamazione strozzata, un rumore di gola.
Poi, dopo un nuovo inchino, si avvicinò alla panchina e vi appoggiò la valigetta, la aprì e dall’interno estrasse un foglio di carta colorata, lo stese sul piano di marmo e cominciò a piegarlo con gesti eleganti e rapidi, mentre accompagnava i movimenti con la sua parlata misteriosa, fatta di suoni incomprensibili.
Non durò più di un paio di minuti il suo armeggiare, e alla fine di quella che a Signorina parve una magia, l’omino prese dalla sue mani la bambola e pose attorno al giocattolo di pezza il foglio di carta che adesso era diventato, in tutto e per tutto, un piccolo vestito colorato, delicato e perfetto, con un paio di spalline e una taschina sul davanti.
L’omino chiuse la valigia, si piegò per l’ultima volta in un inchino e poi si allontanò verso la curva della roggia.
Signorina rimase da sola, a contemplare la sua bambola risplendere di una nuova grazia e di eleganza, con quel fragile vestito di carta colorata che le toglieva gli anni di consunzione e lo sporco, le ditate dell’affetto e dei giochi, fasciandola con la bellezza che hanno le cose semplici, leggere.
La Maria aveva sposato Delmo quasi come un’evenienza naturale, dopo che la sua prima moglie, la Luisa, era morta in seguito al parto dell’Ada. Cresciute assieme nel podere del Castiglione, le due ragazze erano tanto amiche da considerarsi pressoché sorelle, condividendo ansie e desideri, segreti, aspirazioni, in un legame che era continuato anche dopo il matrimonio della Luisa, cosicché quando l’Ada se ne era venuta al mondo straziando le viscere di sua madre e lasciando Delmo da solo con un bambino di sei anni, Leone, la Maria aveva trovato cosa normale prendersi cura di quella famiglia disgraziata nella quale l’unica presenza femminile, l’Anita, aveva già il suo bel daffare nel tenere tranquilla la propria ansia e i sei figli avuti dal marito.
Con gli occhi pieni di lacrime la Maria aveva assistito l’amica nell’agonia, detergendole il sudore, raccogliendo bacinelle di sangue ormai viola e sforzandosi di mettere in pratica i consigli con cui la levatrice aveva cercato invano di allontanare l’insistenza della morte che, evidentemente offesa per la nuova vita che la Luisa aveva appena generato, s’era fissata di prendersi la sua per far quadrare il conto. E quando il becchino finì di calare la cassa d’abete nella terra del cimitero, la Maria se ne tornò di fretta da Delmo a cercar di mettere in ordine lo sfacelo che quella fine straziante aveva sparso nella casa in mezzo ai binari. Salì le scale bisbigliando ancora i Requiescat in pace, e nemmeno aveva pronunciato l’amen che già indossava il grembiale grigio con cui Signorina l’avrebbe vista per tutta la vita, per dare un ordine al guazzabuglio che regnava in quelle stanze. Puliva, spolverava, cucinava, stirava, rassettava biancheria e vestiti di Delmo e dei bambini, per poi coricarsi su una branda stesa nel corridoio d’ingresso a stemperare la fatica con qualche ora di sonno, pronta a levarsi lesta prima dell’alba per preparare all’uomo la colazione e il vestito stirato e spolverato come si conviene a un capostazione.
Così, quando qualche mese più tardi lui le propose il matrimonio, la Maria accolse quell’offerta senza troppa emozione, dato che moglie già si sentiva ampiamente. Certo, nel tempo che era trascorso dalla morte della Luisa, Delmo s’era comportato da galantuomo qual era, mai mancando di rispetto all’amica della sua consorte disgraziata. Invero, la tentazione di un approccio carnale si era fatta strada alcune volte nel pensiero dell’uomo, se non altro perché la Maria era, a quell’epoca, una giovane donna forse non bella, ma forte di petto e in carne quanto basta per suscitare il normale desiderio di un maschio. E poi, quella branda messa di fortuna nel passaggio del corridoio dava a Delmo l’impressione di una promiscuità tentatrice, oltre che una sensazione di provvisorietà e sciatteria che non gli garbava minimamente, tanto più che la permanenza della donna era così inusuale da suscitare bisbigli e chiacchiere in paese.
Considerato questo, dopo aver sorseggiato l’ultima tazzina di caffè prima di uscire, neanche avesse dimenticato l’orologio o la paletta, una mattina Delmo richiuse l’uscio che aveva appena aperto per scendere tra i binari e tornò sui suoi passi, nella cucina dove la Maria stava finendo di vestire Leone, e come se le stesse proponendo una gita al lago o una passeggiata per un gelato si rivolse alla donna:
«Credo sarebbe buona cosa sposarci» le disse.
La Maria non si fermò neppure a guardarlo, continuando ad armeggiare attorno ai calzoni del bimbo ritto su una sedia, in attesa di indossare i vestiti.
«Se lo ritenete opportuno…» rispose quasi sottovoce, voltandosi appena verso l’acquaio per celare un leggero rossore che le stava salendo alle guance.
Delmo tolse l’orologio dal taschino come per controllare la puntualità di un treno in arrivo.
«Non appena riparte il merci delle nove, faccio un salto al Castiglione a mettere a posto le cose con vostro padre» le disse.
La Maria annuì col capo un paio di volte, mentre abbottonava la camicia a Leone e poi, quando già Delmo era sulla porta per uscire, gli disse dietro, a voce alta:
«Salutatemelo, mi raccomando.»
Delmo fu di parola e quel giorno stesso andò al Castiglione a far conoscere le proprie intenzioni al padre della Maria, cosicché un mesetto più tardi la portò all’altare della chiesa nuova che avevano appena finito di costruire davanti alla stazione. Non fu una cerimonia particolarmente festosa, non soltanto perché rimpiazzava una morte che comunque aleggiava ancora tra gli sposi, ma anche perché la costruzione, terminata rapidamente per rimediare all’assenza di luoghi di culto nel borgo nuovo, aveva giusto avuto la possibilità di essere consacrata e si presentava piuttosto spoglia e ancora umida di calce fresca.
La Maria, inoltre, sempre più presa dalle sue occupazioni domestiche, riuscì a malapena a rimediare un vestito decente adattando quello con cui si era sposata l’Anita, indossandolo in fretta e furia e quasi di malavoglia una mezzoretta prima della celebrazione, visto che, se fosse stato per lei, all’altare si sarebbe presentata col grembiale grigio e in ciabatte, per quel poco tempo sufficiente a pronunciare un “sì” e tornare subito a casa a dare un’occhiata all’impasto del pane. Invece le toccò agghindarsi con il vecchio abito della cognata che le tirava sul petto e avviarsi con passo incerto tra i binari verso la chiesa, instabile sul paio di scarpe col tacco troppo alto per le sue abitudini.
Delmo, come si usa, l’aspettava all’interno della chiesa, con Leone a far da paggetto accanto al prete. La Maria arrivò invece da sola, senza il rituale braccio del padre poiché questi, mentre la figlia si recava all’altare, se ne stava ancora sdraiato sul prato del Castiglione a smaltire la sbornia epica con la quale, nella notte, aveva inteso festeggiare a modo suo il lieto evento.
Regolata la posizione con la Maria, Delmo consumò il matrimonio la sera stessa, dopo aver tolto di mezzo la branda dal corridoio e aver finalmente accompagnato la sposa novella al letto che già aveva condiviso con la Luisa. E forse, confuso proprio da questo precedente, nel momento culminante dell’amplesso, si rivolse alla donna con il nome della prima moglie, in un sospiro vellutato che la Maria non avrebbe mai sospettato potesse appartenere a un uomo grosso e tutto d’un pezzo come Delmo, cosicché si guardò bene dal correggerlo o fargli notare lo scambio. Semplicemente pensò che il destino stava rispettando il volere della Luisa, e che allora si trattava soltanto di condividere, come sempre, la vita con la sua amica. Così si limitò a bisbigliare un Requiescat in pace e si strinse ancora più forte al marito.
Dopo che il matrimonio ebbe dato una regola alla loro unione, la Maria partorì due bambini forti e robusti, ai quali Delmo impose i nomi di Severo e Olmo. I due nuovi nati andarono a unirsi a Leone e alla piccola Ada, ingrossando la famiglia e, ovviamente, i lavori domestici che ricadevano tutti sulla povera donna. Anche se non era più costretta a dormire nel letto di fortuna del corridoio, la Maria non cambiò l’abitudine di svegliarsi all’alba per accudire il marito e, quando venne alla luce anche Signorina, i cinque figli.
Delmo, del resto, una volta indossata la divisa, scendeva in stazione a svolgere le proprie funzioni inframmezzandole con ripetute soste al caffè che dava sulla piazza, dove rimaneva a lungo a guardare il passeggio e a scambiare qualche parola con gli altri avventori, rientrando a casa soltanto per desinare e, a sera, per sedersi al tavolo della cena.
Non era mai stato uomo di molte parole e non amava la confusione e il chiacchiericcio, i capricci, i mugugni e quanto lui chiamava “i vezzi dei piccini”, cosicché, in una famiglia ormai numerosa, aveva imposto di essere da solo a consumare in pace i pasti anche per la convinzione che la tranquillità fosse un elemento fondamentale per una buona digestione.
Per molti anni, dunque, la Maria dovette preoccuparsi di dar da mangiare ai bambini in momenti separati per poi, la sera, metterli a letto prima che il marito rincasasse, in fretta e spesso a ore ancora pomeridiane. Soltanto quando Leone, e poi l’Ada e in seguito gli altri figli ebbero un’età e soprattutto un comportamento regolato, Delmo permise loro di sedere insieme a lui per desinare, in occasioni che comunque furono sempre segnate da lunghi silenzi e discorsi brevi e spezzati.
Era di poche parole Delmo, però non disdegnava la compagnia e amava lasciar scorrere il tempo a osservare, dalla sedia a lui riservata nel caffè, chi e cosa transitava davanti allo scalo che lui dirigeva e che, negli anni, aveva acquisito sempre più traffico e importanza. All’origine, infatti, s’era trattato di un vezzo delle regie ferrovie che avevano aperto una stazioncina soprattutto per servire le vicine terme, quando queste erano diventate la meta preferita di un onorevole lombardo gottoso e biliare. Le acque puzzolenti del Belvedere fin dai tempi dei Romani avevano fama di toccasana per quei tipi di disturbi, anche se forse i miglioramenti dei villeggianti erano soprattutto dovuti alla buona cucina, alle camminate e a un regime di vita più tranquillo rispetto alle loro abitudin...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’amore graffia il mondo
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. TERZA PARTE
  7. QUARTA PARTE
  8. Copyright