Patrizia Tamà
LA QUARTA CANTICA
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
A Franca e Giancarlo,
che mi hanno donato il primo stupore.
Alla dolce Eli, che col suo sguardo incantato sul mondo rinnova
il miracolo ogni giorno.
Con amore e gratitudine infiniti.
La conoscenza degli altri è intelligenza, la conoscenza di se stessi è illuminazione.
La conquista degli altri è potere, la conquista di se stessi è forza.
LAO TZU, Tao Te Ching
Luglio 1944
C’è silenzio, adesso. Niente più grida. Non più quel tanfo acido della paura. Soltanto il rombo prepotente dei motori. E la voce grossa e un po’ stonata del sottotenente Bruss che, mentre guida, canta qualche strofa di una canzonaccia oscena.
Il tenente Rudolph Nauhaus si gira a guardare la bambola di pezza appoggiata sui sedili posteriori, osserva quei brandelli di stoffa cuciti insieme dalla mano amorevole di una madre. Gli occhi sbarrati, dipinti ad acquerello da una partigiana che lui ha appena fatto fucilare in un paese lì vicino. La figlia della donna, a ripensarci, aveva qualcosa. Bionda, con le trecce e i calzettoni verdi, un minuto prima di seguire la madre nel suo destino gli aveva teso la bambola e gli aveva detto di averne cura. Così lui, chissà perché, aveva afferrato quel fantoccio con i capelli gialli di lana e lo aveva portato fin lì. Fino al castello di Fosdinovo.
Allunga una mano per afferrare la bambola e la butta fuori dalla camionetta. Non ha figli, il tenente Nauhaus, e ha sempre pensato che l’infanzia sia una fase inutile della vita.
Respira a pieni polmoni, osservando compiaciuto lo scintillio del suo Totenkopfring, l’anello con il teschio e le rune donatogli da Himmler in persona. Sa che l’Italia ormai è perduta, e quei maledetti fanatici dei partigiani gli stanno dando filo da torcere, nonostante abbia fatto trucidare decine di persone nelle rappresaglie. Ma tutto questo non lo preoccupa, il suo cuore è una perla di ghiaccio.
Perché la guerra, per Rudolph Nauhaus, è solo un mezzo. L’unica cosa che conta è che il suo battaglione, appartenente alla 16. PanzerGrenadier-Division “Reichsführer-SS”, sta entrando nel cortile del castello di Fosdinovo, il suo vero obiettivo.
I suoi uomini prendono velocemente possesso del luogo. Un omino pelato li accoglie a braccia alzate. È il custode, Alfredo Bianchi. Trema, e con voce sottile dà il benvenuto alle SS.
«Tu» lo apostrofa Nauhaus. «Portami subito in camera di Dante...» Non sa bene l’italiano. Ma quelle parole gli rimbombano nel cervello da ore, giorni.
Il custode lo accompagna. Nel profumo di umidità, lungo le scale secolari percorse dai nobili Malaspina nel Trecento, lo conduce alla piccola stanza in cui, secondo una voce non del tutto accreditata, avrebbe soggiornato Dante Alighieri durante il suo esilio.
Nauhaus respira a fondo, sembra voler incamerare la maggior quantità possibile di quell’aria che sa di muffa e di passato. Osserva i pochi metri quadrati con un po’ di delusione. È uno spazio angusto, indegno albergo per un poeta di tale levatura, per un maestro dai poteri così grandi. Ma in fondo, così sarà ancora più facile.
I suoi maestri, i padri del nuovo Ordine dei Germani, lo hanno incoronato per questa missione che restituirà vigore e potere al Führer, ben oltre le contingenze del momento. E non è stato certo scelto a caso. Ha dovuto superare un durissimo apprendistato. Ha affilato i suoi sensi come lame. Fino a percepire l’odore dell’uomo a metri di distanza. Fino a distinguere l’afrore salato della paura da quello più pungente della rabbia. Nella fame, nella deprivazione di sonno ha potenziato le sue capacità di controllo e concentrazione. Ha temprato il proprio corpo nel gelo del castello di Wewelsburg, dove i suoi maestri gli hanno insegnato a visualizzare i colori per allontanare le emozioni. Se si concentra vede il rosso. Tutto rosso, dentro il buio della coscienza. O giallo. Fino al viola, il colore della meditazione profonda. Ha imparato anche a pilotare i sogni, per non fare mai più incubi di morte. Soltanto sogni di luce e immortalità.
Nauhaus è impaziente. Chiama Bruss e un altro paio di uomini fidati. Ordina di buttare all’aria tutto, di perforare muri e pavimento. C’è qualcosa che devono trovare, a qualsiasi costo.
I tre si mettono all’opera come bestie inferocite. Sanno che deludere il capo è molto pericoloso. Cominciano buttando giù dalla finestra il lettuccio pseudo-dantesco, che rotola lungo la scarpata.
Intanto Nauhaus torna fuori, nel tepore estivo. Si immerge in quel calore che gli rende gradita l’Italia. Se non ci fossero gli italiani, che francamente detesta, potrebbe anche immaginare di vivere in un posto come quello, tra montagne dal declivio dolce e pendici di velluto verde.
Il resto del battaglione è intento ad allestire il campo base in un’altra ala del castello, così lui può procedere indisturbato nella sua missione segreta. Niente a che fare con la Linea Gotica e la difesa dell’Italia dagli Alleati. Un obiettivo sotterraneo, occultato anche a molti capi delle Waffen-SS come il suo Gruppenführer, grande comandante ma incapace di spingersi così in là con la mente.
Nauhaus rientra, sale nella stanza insieme al custode. Bruss è pallido, ha la faccia come un limone spremuto. Sotto gli occhi gli si contano le vene. Non hanno ancora trovato nulla.
Il tenente si lascia cadere su una scomoda sedia in legno scuro.
«Niente! Quasi due ore di lavoro e non avete trovato niente? Incapaci! Inetti!»
«Ma, signore, non c’è niente da trovare...» Il più giovane dei tre uomini è un ragazzo lungo lungo e sottile come un asparago. Ed è anche il più avventato. Non sa quanto all’ufficiale secchi dover ammettere di aver sbagliato.
Nauhaus chiude gli occhi e inspira a fondo. Espira. Rosso. Inspira di nuovo. Arancione. Poi giallo. Espira ancora. Verde. Blu. Indaco. Viola.
L’errore non è suo. Lo hanno mandato lì. I suoi maestri erano sicuri che Dante, negli anni dell’esilio, avesse scelto Fosdinovo per celare qualcosa di prezioso, dal valore inestimabile. E quella stanza era il nascondiglio più probabile. Dovrà cercare ancora, da solo e segretamente, nelle altre zone del castello. Von Liebenfels e Himmler, come lui del resto, non amano le sconfitte.
I suoi uomini, sfiniti, si sono buttati a terra, con le spalle appoggiate al muro e la testa fra le mani. Sanno di avere fallito, anche se nessuno avrebbe potuto fare meglio di così.
Nauhaus si alza e si avvicina all’asparago. Il ragazzo non fiata, ma sostiene il suo sguardo tagliente. Nauhaus inspira. Viola. Espira. Non si calma. Il movimento della gamba parte veloce e preciso come quello di una leva meccanica. Il ragazzo viene raggiunto allo stomaco da un potente calcio e si accascia al suolo rantolando, senza opporre resistenza. Il compagno è visibilmente terrorizzato, ma non osa muovere un muscolo. Bruss fissa il pavimento con aria vacua.
Nauhaus disprezza il sottotenente Frederick Bruss, con quei suoi occhi piccoli e vicini, da mero esecutore. Un eterno sottoposto. Passivo e obbediente, ma incapace di un guizzo.
«Alza la faccia, Frederick Bruss, guardami.»
Il sottotenente inizia a battere i denti, non riesce a controllare la mandibola. Pur sapendo che questo accresce il senso di repulsione che Nauhaus prova per lui.
«Oberführer... giuro che vivo per servirvi.»
Nauhaus si china, lo afferra per la gola. Stringe finché l’altro non diventa paonazzo.
«Voglio crederti, in fondo sei ai miei ordini già da tanto tempo... Ma non farmi pentire della mia clemenza.»
E lo molla bruscamente. Bruss si affloscia come un sacco vuoto sul pavimento.
Il custode ha osservato tutta la scena facendosi piccolo piccolo in un angolo. Dai suoi pantaloni cola un liquido giallastro, maleodorante. Se la sta facendo sotto. E a un tratto il mite Alfredo Bianchi, tutta una vita tra quelle colline di seta verde, sente che il torace gli si spacca. Una spada di sofferenza attraversa il suo cuore debole. È anziano, ormai: le sue colline sono state imbrattate di sangue, quel verde è diventato purpureo. Troppe atrocità.
Muore di botto, senza una parola. Schiantato da un infarto.
Nauhaus si gira e si allontana schifato dalla scena. Prima però sputa addosso all’italiano.
Esce nel sole accecante. Si ferma a gambe divaricate sul piazzale davanti al castello. Le mani sui fianchi, l’espressione corrucciata. È deciso a non arrendersi.
Deve cercare ancora.
E ancora.
«Sei stata una ragazza frivola, finora. La posizione della tua famiglia e il tuo patrimonio te l’hanno concesso, nonostante la guerra, ma la tua esistenza sta per essere rovesciata dalle fondamenta. Arriverà una tempesta formidabile che chiamerai subito passione. E ti scuoterà come un salice percosso da un uragano. Dopo non sarai più la stessa... Ma stai attenta, cara, perché lui è un demone. Un demone volitivo e irrazionale posseduto da Dioniso. E tu farai scelte irrazionali, per lui.»
La maga Ester si abbandona sul suo scranno rinascimentale. La ragazza che le sta di fronte non sembra troppo soddisfatta. Si tormenta la falda dell’ampio cappello bianco di paglia.
«Ma chi è? Lo conosco già? Finora c’è stato soltanto un gioco di sguardi con due o tre ufficiali. Almeno dimmi se è biondo o bruno...»
«Tu chiedi cose difficili. Ridammi la mano.»
Ester torna a concentrarsi su quel palmo soffice, appena pennellato di rosa. Una mano ancora infantile. Quella ragazza ha visto poca vita. Per ora.
«Direi che prevalgono in lui i colori chiari. Sì, è biondo, ma ha la tempra robusta e decisa di un uomo bruno... Sarà uno schianto nella tua vita, un vero colpo di fulmine che ti strapperà ai tuoi soliti orizzonti.»
Finalmente il viso della giovane donna si apre in un sorriso.
«Lo sapevo! Hai sentito, Maria Teresa?» dice rivolta all’amica seduta impassibile accanto a lei. «È biondo, passionale e mi rapirà il cuore!»
La chiromante tira un sospiro di sollievo. Potrà aumentare la parcella per quelle nobildonne. In realtà l’altra non ha chiesto nulla. Si è limitata a osservare in silenzio, chiusa nel suo abito blu in georgette col grande collo in pizzo.
Ester la fissa con curiosità. Si sente stranamente attratta dalla misteriosa accompagnatrice della sua cliente, quasi calamitata. È una sensazione che conosce e che le fa paura. Le è capitata poche volte, e sa che non può sottrarsi a quello strano richiamo.
La ragazza forse ha percepito qualcosa. Si agita inquieta sulla sedia, poi si alza di scatto. «Ada, paga e andiamo, è tardi!» esclama con tono leggermente allarmato.
«Tardi? Cara, secondo me ti preoccupi troppo. Vedrai che il viaggio andrà benissimo. Nessuno oserà darci fastidio.»
Maria Teresa non ne è così certa. È venuta a Roma soltanto per portare con sé a Verona la sua amica, nella villa di Gargagnago. È convinta che sarà più al sicuro nella Repubblica di Salò. Con tutti questi partigiani in circolazione c’è poco da stare tranquilli. Dovranno attraversare in auto la Linea Gotica e tutto il pericoloso territorio di confine che divide gli Alleati dai tedeschi, e lei vuole partire al più presto.
Le due stanno finalmente uscendo dalla stanza con le pareti damascate in viola, quando la maga afferra Maria Teresa per le spalle. La ragazza si gira e vede che è alterata, le sue iridi si sono rovesciate all’indietro mostrando il bianco dei bulbi oculari.
«Dietro i suoi occhi, a distanze incalcolabili, vedo un uomo grandissimo.» Ester parla con voce diversa, come se avesse del cotone in bocca. «Un uomo che ha cantato le stelle e gli angeli. È morto da moltissimo tempo, ma il suo nome risuona ancora in tutto il mondo.»
La contessina Maria Teresa Alighieri guarda sbalordita l’amica per capire se la maga avesse saputo qualcosa da lei. Ada, intuendo la domanda muta dell’altra, scuote il capo.
Poi Ester si rituffa sul suo scranno e chiude gli occhi. Sembra essere precipitata nel sonno.
Le due ragazze escono silenziosamente. Maria Teresa è davvero colpita. Ha sempre detto di non credere ai fenomeni paranormali, ma oggi le sue certezze razionali vacillano pericolosamente. Aveva deciso soltanto all’ultimo momento di accompagnare Ada dalla maga più famosa di Roma, nessuno ne era al corrente.
«Ma come ha fatto? Non conosceva neppure il mio nome! Non mi aveva mai visto...»
«Cara, non ne ho la m...