Nemico di Stato (Segretissimo)
eBook - ePub

Nemico di Stato (Segretissimo)

  1. 266 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Nemico di Stato (Segretissimo)

Informazioni su questo libro

David Trevellyan, operativo dell'intelligence della Royal Navy inglese, è stato addestrato per combattere. Per agire sotto copertura, a mani libere, con l'approvazione più o meno tacita dei superiori. Nel suo mondo il pericolo è uno stato permanente. E quando una notte, a New York, trova in un vicolo un uomo ucciso a colpi d'arma da fuoco e la polizia ferma lui come sospettato, capisce che dovrà fare ricorso a tutto ciò che ha imparato. Perché non si tratta di un banale equivoco: stanno cercando di incastrarlo, e nessuno lo tirerà fuori dai guai. Da questo momento la sua missione è semplice: restare vivo. E per riuscirci dovrà essere rapido e rimanere lucido. Pensare e agire nello stesso tempo. Improvvisare. Nel suo mestiere il segreto è essere pronto a tutto e muoversi sempre prima degli altri. Questa volta più che mai, per David il prezzo del fallimento sarà la morte. Il successo la sua redenzione.
All'interno, il racconto " LEX - Law Enforcement X" di Errico Passaro.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
eBook ISBN
9788852028182
ANDREW GRANT

NEMICO
DI STATO

Traduzione di Giuseppe Settanni
Mondadori

NEMICO
DI STATO

Per Janet Reid e Pete Wolverton;
il mio agente, il mio editore
e adesso miei amici

PERSONAGGI PRINCIPALI
DAVID TREVELLYAN
capitano di corvetta della Royal Navy
TANYA WILSON
collega di Trevellyan presso il consolato britannico
KELVIN TAYLOR
responsabile operativo della Tungsten Security, contractor in Iraq
BRUCE ROSSNER
MITCHELL VARLEY
LOUIS BREUER
dirigenti delle Operazioni speciali dell’FBI
BARTMAN LAVINE
KYLE WESTON
agenti delle Operazioni speciali dell’FBI
LESLEY
capo di una banda criminale
JULIANNE MORGAN
giornalista

1
Quando vidi il cadavere, pensai di tirare dritto.
Non mi riguardava.
Non c’era alcun motivo logico per immischiarsi.
Proseguii, ma dopo due passi mi fermai. Se il vicolo fosse stato un po’ più sgombro, forse sarei riuscito a continuare per la mia strada. O se quel poveraccio fosse stato abbandonato in una posa un po’ più dignitosa, lo spettacolo mi avrebbe lasciato indifferente. Ma il modo in cui era stato scaricato, come un sacco della spazzatura… non mi consentì di infischiarmene.
Forse fu perché era capitato anche a me di vedermela brutta in certi vicoli squallidi, nel corso degli anni. O forse perché anch’io non avevo un posto che potevo chiamare casa. Quale che fosse la ragione, sentii una strana empatia nei confronti di quel povero barbone. Troppo tardi per dargli un aiuto concreto, era chiaramente morto, ma mi dissi che potevo almeno incaricare qualcuno di portare via quei miseri resti. Sentivo che glielo dovevo. Se non a lui, almeno a me stesso. Con quel gesto pietoso, forse speravo che qualcuno facesse lo stesso per me quando fosse venuto il mio momento. Non mi andava l’idea che le mie ossa tornassero polvere tra mucchi di cartacce e preservativi usati.
Mi avventurai nel vicolo. Il cadavere era distante quattro, cinque metri, riverso sulla schiena e con i piedi verso il marciapiede. Le braccia erano invece allungate nella direzione opposta, con i polsi accostati, sebbene non fossero legati, e le mani parzialmente coperte dai detriti che ingombravano il terreno.
Mi avvicinai e vidi che c’erano dei fori di pallottola negli indumenti dell’uomo. Ne contai sei. Ma non fu il loro numero che attirò la mia attenzione. Fu la loro disposizione. Formavano chiaramente una T. Quattro in orizzontale attraverso il petto, allineati con le spalle, e due sotto, giusto sotto lo sterno. Un lavoretto degno di un professionista. Un tiratore scelto della polizia, forse, o un soldato. Un dettaglio del tutto incongruo con le caratteristiche della vittima. Che dava da pensare.
L’esigenza di chiamare le autorità divenne improvvisamente una faccenda secondaria.
Esaminai il cadavere da tutti i lati. La posizione scomposta faceva pensare a una marionetta a cui avessero tagliato i fili. L’aspetto era quello di un uomo di mezza età, intorno ai cinquantacinque anni. Impossibile essere più precisi. Aveva i capelli incanutiti e sporchi, la barba di tre o quattro giorni. Le unghie erano sporche e scheggiate, ma quelle non erano mani da manovale, e anche l’abbigliamento faceva pensare più a un professionista. Indossava un cappotto blu scuro, una giacca grigia monopetto, una camicia tipo Oxford, che in origine doveva essere stata bianca o crema, e un paio di scarpe nere, ora logore, ma eleganti. Mi diede l’idea di un avvocato o di un consulente finanziario caduto in disgrazia. Gli abiti sembravano di qualità, anche se adesso erano stropicciati, lisi, pieni di macchie e di buchi. Il cappotto e la giacca avevano perso tutti i bottoni. I pantaloni erano tenuti su con un pezzo di corda. Le suole di cuoio erano scollate in vari punti dalla tomaia. La cravatta non c’era più. Forse era stato un brillante professionista di Wall Street, uno che, per così dire, era “caduto da grandi altezze”. Puzzava. Di piscio, vomito e alcol. Non era per nulla piacevole stargli vicino.
Frugai nelle tasche. Dovetti procedere lentamente perché il cadavere era coperto di sangue e non avevo i guanti. Cominciai dal cappotto. Inizialmente mi sembrò che non ci fosse niente, ma tastandolo scoprii che un oggetto duro di forma rettangolare era scivolato attraverso un buco dentro la fodera. Lo sfilai e vidi che era una bottiglia di vetro piatta, piena per metà di un liquido trasparente e incolore. Vodka, stando all’etichetta. Una sottomarca mai sentita prima. Non c’era altro, così passai alla giacca. Prima le tasche interne. Una era tutta strappata, ma trovai qualcosa nell’altra. Il portafoglio della vittima. Era ancora lì. L’assassino, chiunque fosse, non si era curato di portarlo via.
Il portafoglio era sottile. Di pelle nera lucida, e sembrava vecchio. Leggermente piegato, come se il proprietario solitamente lo tenesse nella tasca posteriore dei pantaloni. Niente carte di credito, ma nel comparto per le banconote trovai un tesserino della previdenza sociale con un nome, Alan James McNeil, e un numero, 900-14-0471.
Rimisi il portafoglio al suo posto e mi rialzai. Il passo successivo sarebbe stato di seguire il solco lasciato dal cadavere quando era stato trascinato attraverso la spazzatura. Volevo trovare il punto esatto in cui McNeil era stato ucciso, cercare di capire perché il corpo era stato spostato e il movente dell’assassino. Ma prima che potessi cominciare, fui distratto dal rumore di un veicolo che veniva a grande velocità nella mia direzione. Coincidenza? Difficile. Fino a quel momento il traffico lungo la strada era stato inesistente o quasi. Considerando il modo in cui il cadavere era stato abbandonato, era possibile che qualcuno stesse tornando per reclamarlo. E per fare domande scomode.
Mi nascosi nel cono d’ombra all’imbocco del vicolo e guardai fuori, in strada. Avevo ragione. Una macchina si stava avvicinando. Una grossa Ford berlina azzurra con una scritta bianca sulla fiancata e luci stroboscopiche sul tetto. Non potevo rischiare di farmi pizzicare in atteggiamento sospetto sul luogo di un delitto, così uscii allo scoperto per chiedere l’intervento degli agenti, ma prima che potessi fare un cenno di richiamo l’autista della volante accese brevemente le luci e la sirena. Poi la Ford puntò dritto verso di me. La vidi superare con un sobbalzo il cordolo del marciapiede e fiondarsi dentro il vicolo. Dovetti saltare all’indietro per non essere investito.
Gli sportelli si spalancarono e due agenti balzarono a terra. L’autista estrasse la pistola. Impugnandola a due mani, e appoggiandola sul bordo del finestrino, me la puntò dritta contro il petto. Il suo compagno spianò un tozzo fucile a pompa. Data la larghezza del vicolo, non era molto importante dove lo puntasse.
— Fermo dove sei — intimò l’autista. — Non ti muovere.
Gli agenti erano tutti e due abbondantemente sopra il metro e ottanta, spalle larghe e grande vigore fisico. Il loro intervento era stato rapido e sincronizzato, si muovevano con decisione e coordinamento perfetto. Due agenti con i quali era meglio non scherzare.
— Metti le mani bene in vista — disse il primo. — Lentamente. Forza.
Stavano commettendo uno sbaglio, ma sarebbe stato inutile cercare di convincerli del contrario. I poliziotti sono uguali dappertutto. Una volta che hanno deciso di fare una cosa, la fanno. Mettersi a discutere serve solo a peggiorare la situazione. Così alzai le mani all’altezza delle spalle, le dita bene aperte, il palmo rivolto in avanti.
Quello con il fucile a pompa ripose l’arma e venne verso di me. Quando mi fu vicino vidi il nome KLEIN inciso sulla targhetta sotto lo stemma della polizia di New York appuntato sul petto.
— Metti le mani sul cofano — disse, spingendomi con un colpo della mano destra tra le scapole.
Mi chinai davanti al muso dell’auto e lui mi infilò il piede destro tra le caviglie. Allargai un po’ di più le gambe, guardando l’autista. Il nome scritto sulla sua targhetta d’identificazione era KAUFMANN. Mi concentrai su quella mentre Klein mi perquisiva. Cominciò con il braccio sinistro, tastando in modo rapido dalla spalla giù fino al polso. Ripeté l’operazione col braccio destro, poi controllò il resto, la vita, le gambe, le caviglie, le tasche del giaccone e dei jeans. Non trovò niente.
— Pulito — lo sentii dire. — Niente armi.
Kaufmann annuì, ma non si rilassò per niente. Teneva sempre la pistola puntata contro di me. Il barbone era stato colpito al petto. Solo pochi minuti prima, a poca distanza da dove mi trovavo adesso. Mi sentii pizzicare la pelle sopra le costole.
— Non preoccuparti — fece Kaufmann. — I colleghi della Scientifica la troveranno sicuramente.
Klein mi prese il braccio sinistro e me lo piegò dietro la schiena. Sentii lo scatto metallico di un gancio a molla che si apriva, poi lo sferragliare della catenella delle manette. Il freddo metallo mi morse la pelle del polso. Il poliziotto mi prese allora il braccio destro, facendomi nel contempo raddrizzare, e completò l’operazione.
— Come ti chiami? — chiese.
Non risposi.
— Hai un documento?
Le manette mi erano state strette intorno ai polsi molto più di quanto fosse necessario.
— Okay, può bastare. Tu adesso vieni con noi alla stazione di polizia. Lasciamo che se la sbrighi la squadra investigativa.
Klein mi afferrò il braccio sinistro giusto sopra il gomito e mi sospinse verso il lato destro dell’auto. Aprì lo sportello, mi mise una mano di piatto sopra la testa e mi fece sedere all’interno. Si assicurò che non sporgesse niente, poi chiuse la portiera. Mancava l’aria, là dietro. Stagnava un odore di disinfettante di tipo industriale misto a un tanfo appiccicoso di esseri umani poco puliti. Dopo cinque minuti vidi sopraggiungere un’altra auto della polizia. Si fermò di traverso vicino all’imbocco del vicolo, con la coda che invadeva la strada. Un’altra Ford, dello stesso modello ma color blu scuro, e priva di contrassegni. Avrebbe avuto bisogno di una bella ripulita. Sul cruscotto era appoggiato un faretto lampeggiante rosso. Due uomini scesero dal veicolo, senza curarsi di spegnere il faretto. Erano sulla cinquantina, in borghese, vestiti con un impermeabile e il distintivo dorato della polizia agganciato al taschino della giacca. Avevano l’aria fredda e distaccata. Tutti e due erano parecchio sovrappeso.
Un furgone bianco, anche questo privo di contrassegni, si fermò dietro l’auto. Due uomini in tuta blu scuro saltarono a terra e si diressero verso Kaufmann e Klein. Quando furono vicini, notai che avevano cucito sulle maniche l’emblema del NYPD, il dipartimento di polizia di New York...

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