Il mosaico del tempo grande
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Il mosaico del tempo grande

  1. 238 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il mosaico del tempo grande

Informazioni su questo libro

Una calda, luminosa estate del nuovo millennio: nella piazza assolata di Hora, paese della Calabria fondato secoli fa da esuli albanesi, si ferma un autobus e ne scende una splendida ragazza bionda con un bimbo fra le braccia. Ad assistere al suo arrivo c'è Michele, un giovane fresco di laurea che sta trascorrendo l'ultima estate al paese, prima di emigrare al Nord in cerca di un lavoro. E proprio Michele, grazie alla curiosità inesausta per le storie della sua gente, scoprirà il segreto di Laura Damis, la bionda sconosciuta, e del bambino che porta con sé. Nella cornice di questa memorabile estate mediterranea, Carmine Abate compone un emozionante "mosaico" utilizzando tessere di smagliante vividezza e una lingua che, in un singolare esempio di plurilinguismo, non rinuncia mai al gusto del raccontare. Così, l'iniziazione di un giovane all'amore e alla vita s'intreccia con una vicenda tesa e avvincente come un giallo e con l'epopea degli antenati: una storia lunga di passioni, di sangue, di ossessioni che passano intatte attraverso il "tempo grande" dei popoli e delle generazioni.
Con questo romanzo Abate ha vinto il premio Vittorini e il premio dei lettori Biblioteche di Roma.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804563884
eBook ISBN
9788852031106

IL MOSAICO DEL TEMPO GRANDE

1

La ragazza bionda

La piazza brulicava di occhi maschili. Lei è scesa dal pullman ed è stata trafitta da troppi sguardi curiosi, sul corpo intero, poverina, a cominciare dal viso di un pallore invernale fino alle scarpe da tennis sporche di viaggio. Era alta, una bella stanga, hanno detto in molti, portava sulla schiena uno zaino pesante che un po’ la incurvava. La sua testa sembrava una cascata di miele per via dei capelli biondi, lunghi e ondulati, su cui si posavano come tante avide api i raggi di sole del primo pomeriggio e soprattutto i miei occhi.
Non avevo mai visto capelli così biondi e luminosi. Ero tentato di avvicinarmi e infilare le dita nell’alone di luce morbida. Invece sono restato con gli altri ad ammirarla da lontano. È stato allora che ci siamo accorti di lui. Era un bambino dai riccioli castani, piccolo di corporatura e con le palpebre che si chiudevano e si aprivano a intermittenza, lasciando intravedere due pupille azzurre, smarrite. Stava immobile accanto alla ragazza, un soldatino di piombo sull’attenti.
Il pullman è ripartito dopo che l’autista aveva scaricato dal bagagliaio un’enorme valigia blu notte. Lei è rimasta sola con il bambino al centro della piazza, ha guardato attorno a sé con un’espressione indecifrabile, un miscuglio di stupore ironia curiosità, come se si fosse risvegliata proprio allora in un posto sconosciuto, e finalmente si è rivolta verso di noi. Ci ha fissati con la stessa espressione di prima, tanto che abbiamo distolto lo sguardo per l’imbarazzo, mentre un anziano alle nostre spalle andava gridando nella nostra lingua: «Che ve ne state fessi come baccalà, andate a dare una mano a quella ragazza, lo vedete che ha bisogno di aiuto!».
Lei ha sorriso, dunque aveva capito o almeno intuito, forse non era una straniera come sembrava, forse era addirittura un’arbëreshe di un paese vicino, di Puherìu o Shën Kolli, che aveva sbagliato fermata o era venuta da noi a trovare un parente. Di certo non era di Hora. Le conoscevamo tutte le ragazze del nostro paese, anche quelle nate in Altitalia o all’estero.
Abbiamo cominciato ad avvicinarci titubanti. Senza fretta. Tre o quattro di noi. Il bambino si è piazzato davanti alle gambe della ragazza. Con la sua faccia seria, le sopracciglia aggrottate, pareva un ometto che la volesse difendere da sconosciuti di cui non si fidava.
Lei non si è mossa, ha continuato a squadrarci ma ora il suo sguardo si era fatto più dolce. Aveva gli occhi grigi, anzi celesti, insomma come l’acqua del mare a riva.
«Hai bisogno di aiuto?» le ho chiesto in italiano con un sorriso, allisciandomi la barba.
Lei ha risposto: «Oh sì, grazie. Un momento». E intanto ha sfilato un biglietto da una tasca dei jeans. «Ecco: vorrei sapere dove si trova la via Palacco numero 65, dovrei andare lì: c’è la casa di mio padre, ho la chiave.»
Aveva parlato in italiano, con un forte accento straniero, forse inglese e, mentre noi le indicavamo la discesa che conduce al Palacco e ci stavamo chiedendo chi fosse suo padre e in quale casa abitasse, il bambino è saltato come una molla verso la ragazza, le si è arrampicato al maglione, ha appoggiato il viso al suo petto e poi è rimasto immobile, le mani ben artigliate e le gambe aperte, come folgorato da un fulmine.
D’istinto siamo indietreggiati di un passo.
«Lui è Zef, il mio fratellino» ha detto la ragazza. «È un fifone, soprattutto quando vede gente sconosciuta.» E ha dato un bacio al bambino sulla fronte per tranquillizzarlo.
Allora io mi sono fatto avanti e gli ho accarezzato la guancia con il dorso della mano, ottenendo in cambio un’occhiata spaurita.
La ragazza mi ha sorriso. Aveva i denti bianchissimi e perfetti.
«E allora ci accompagnate al Palacco?»
«Sì, subito» le ho detto ammirandole da vicino i capelli luminosi. «Il Palacco è a due minuti da qui.»
La strada era tutta in discesa. La ragazza camminava al mio fianco in modo goffo, come se cercasse di continuo l’equilibrio per non ruzzolare. Emanuele portava la valigia pesante, Cosimo lo zaino, lei il bambino, che stava rannicchiato tra le sue braccia e guardava intimidito il cielo, le rondini, i garofani, le rose e le piante di basilico nei vasi sui davanzali delle finestre.
Arrivati in fondo al Palacco, ho cominciato a sbirciare i numeri delle case. Mi sono spostato sul lato sinistro della strada e dopo pochi passi mi sono fermato. «Ecco il numero 65» ho detto soddisfatto.
La casa aveva una piccola scala davanti, con tre gradini e un pianerottolo ricoperti di kjatre, le pietre piatte di fiume. Dal vecchio muro che dava sulla strada crescevano quattro o cinque bocche di leone rigogliose. La porta era di castagno, vecchia ma robusta, di quelle con un’anta laterale divisa in due, la cui parte superiore di solito si lasciava aperta tutto il giorno, un orecchio e un occhio sul vicolo da dove entravano le voci, la luce e i gatti. Vi avevano abitato i vecchi zu Nicola e za Lina, me li ricordavo bene: da bambino li salutavo ogni volta che passavo di là per andare in piazza. Erano morti uno dopo l’altro in meno di un anno. Avevano tre figli all’estero, in Germania o chissà dove. Al funerale del vecchio mi trovavo a scuola; invece a quello di za Lina avevo visto una figlia e un figlio, entrambi anziani, che piangevano in silenzio, senza disperarsi, e per questo erano stati poi criticati dalle vicine di casa, soprattutto la donna.
«Dunque sei la nipote di zu Nicola e za Lina?» ho chiesto alla ragazza.
Lei ha annuito. All’improvviso pareva emozionata. Ha preso una grande chiave dalla borsa ma prima di infilarla nella toppa ha bussato alla porta.
A Emanuele è venuto un dubbio. «Lo sai, vero, che i tuoi nonni sono morti?»
Di nuovo lei ha annuito, ha aperto ed è entrata nell’atrio con il bambino in braccio. Noi l’abbiamo seguita titubanti.
A parte l’acre odore di chiuso, la casa sembrava in ordine, addirittura pulita, con i pochi mobili ricoperti da lenzuola candide e le pareti imbiancate di recente. La ragazza ha spalancato le finestre, lasciando entrare l’aria calda del pomeriggio. Allora ci siamo accorti tutti, forse anche il bambino, dello strato di polvere bianca, quasi trasparente, che copriva ogni cosa e delle ragnatele che penzolavano dagli angoli del soffitto. Del resto, dalla morte della madre, i due figli venivano in paese sempre più raramente, di solito a Natale, e abitavano nella casa dei genitori per un paio di settimane all’anno.
Emanuele ha guardato prima me e Cosimo, poi ha detto alla ragazza: «Se vuoi, ti diamo una mano a pulire».
«Senza complimenti» ha aggiunto Cosimo. Io ho esibito un sorriso così compiacente da far schifo a me stesso, per dire che ero d’accordo con gli altri due ruffiani.
La ragazza ci ha ringraziato. «Grazie, siete stati gentili, molto gentili. La casa me la pulisco con calma domani. Ora mi butto a letto. Sono stanca morta. Il viaggio è durato quasi trentacinque ore, comprese le coincidenze nelle stazioni. Per non parlare del cambio di clima che mi ha tagliato le gambe. Vengo dall’Olanda. Zef mi sembra più distrutto di me.»
Infatti il bimbo si era sdraiato sul divano come un gattino e se ne stava immobile, le palpebre socchiuse.
La ragazza ci ha accompagnati fino al pianerottolo. Ha guardato le vecchie case del vicolo e per un attimo ha respirato forte. «È un bel posto, mi piace» ha detto con un sorriso bianchissimo. «Ciao, e grazie ancora.»
Ci siamo allontanati con la baldanza dei giovani un po’ sciocchi, quasi saltellando l’uno sopra l’ombra dell’altro, convinti di avere fatto colpo su di lei. Avevamo già imboccato la salita per la piazza quando la ragazza è uscita di corsa sul pianerottolo e ci ha chiamati: «Ehi, ragazzi, ragazzi!».
Ci siamo girati sorpresi. La luce del sole le faceva risplendere i capelli da abbagliarti, proiettava la sua morbida silhouette sul muro, tra le bocche di leone.
«Scusatemi, non mi sono nemmeno presentata: mi chiamo Laura e sono la figlia di Antonio Damis. Mio padre è nato qui, in questa casa.»

2

L’attesa

Per tutta la serata avevamo parlato di lei, chiedendoci cosa fosse venuta a fare da noi. Giravamo a vuoto, in piazza, davanti alla Bottega del Mosaico chiusa, e poi lungo la Kona, fino all’uscita di Hora, domande su domande senza risposta, pure sul bambino triste e sul padre, e commenti, sui capelli di Laura mai visti nemmeno nelle pubblicità, sui seni, sul culo, sui denti perfetti e sulla bocca da baciare. Io ascoltavo, un po’ infastidito, e non dicevo niente. È inutile negarlo: Laura era piaciuta a tutti. Anche troppo.
Sono rincasato a notte fonda, come facevo sempre in quel periodo, con quella scia di parole che mi inseguiva lungo la strada: la figlia di Antonio Damis, la figa bionda, la ragazza col bambino, la straniera, Laura, è bella davvero, è tra noi.
Ho aperto la porta di casa con la cautela di un ladro, evitando di accendere la luce per non svegliare i miei genitori. Nel buio del salotto ho visto risplendere a intermittenza un cerchietto di brace all’altezza della poltrona. Poi ho sentito la voce burbera di mio padre. «E sheh herën!» ha detto. Ora scorgevo la sua sagoma nera, lo immaginavo con le sopracciglia aggrottate. Ma non era arrabbiato. Mi aveva lanciato solo un rimprovero paterno per l’ora tarda del mio rientro, un modo tutto suo di prenderla alla larga quando aveva qualcosa da dirmi e non sapeva come incominciare. Mi sono seduto nella poltrona accanto alla sua.
«Come mai non sei ancora a letto?» gli ho chiesto con un sorriso invisibile.
«Fa caldo.»
Faceva caldo, non si respirava in salotto. Ho aspettato al buio. Ha detto: «Quel Gojàri più che la vucca d’oro tiene la vucca grande: bjuen si mulliri pa ujë, macina come il mulino senza l’acqua, cioè parla a vanvera e dice cose e nomi che farebbe meglio a vrovicàre perché non è mai buono friculiàre la serpa che dorme».
«Ha raccontato solo una storia.» Davvero non capivo dove volesse arrivare con le sue metafore tortuose.
«Se uno conta una storia, allora la conta giusta o non la conta proprio.»
«Ha raccontato quello che sa.»
«No, ha contato quello che gli cunvène, come faceva il bastardo di Damis.»
«E cosa non avrebbe raccontato?»
«Per esempio, la raccolta dell’oro per favricàre, all’epoca, la chiesa grande di Hora.»
«E cioè?»
«Fattìlo contare da quello sperto di Gojàri: con lui sei ’ncrick e ’ncrock, gli credi pure se ti dice che in Arbanìa volano i muli.»
Si è alzato, poi.
Non ho reagito alla sua provocazione. Gli ho detto: «Lo sai che è arrivata la figlia di Antonio Damis?».
«Purtroppo» ha risposto. «Io mo’ vado a nanna, se non ti spiace, fra un paro d’ore incigno a faticare in campagna.»
Ho visto il cerchietto di brace muoversi verso la stanza da letto e poi sparire. Ero così stanco che mi sono addormentato sul divano.
Il mattino seguente mi sono svegliato verso le nove. «Che ti succede, Michè, stai malamente?» mi ha chiesto la mamma appena mi ha visto. Ero stordito, gli occhi gonfi, non capivo se la mamma fosse davvero preoccupata o ironica. Erano tre settimane, in pratica dal giorno di laurea, che mi svegliavo puntuale all’ora di pranzo. Mangiavo in fretta e uscivo.
«No, sto benissimo. È che ho da fare stamattina.»
«Da fare, alle nove?»
«Ho un appuntamento.»
«E con chi, s’è lecito?»
«Con Gojàri» ho detto per troncare l’interrogatorio. E mi sono chiuso in bagno: avevo bisogno di una doccia fredda. Ho poi indossato i pantaloni bianchi con una sgargiante Lacoste rossa e, preso un caffè, sono uscito di corsa.
La casa di Laura era ancora chiusa. Ho cominciato ad andare su e giù per il vicolo, lo sguardo ciòto di un cane che si morde la coda. Ero impaziente di rivederla, di parlarle, anche se non sapevo cosa le avrei detto. Lei però non apriva né la porta né le finestre, di sicuro stava dormendo alla grande, l’aveva detto che era stanchissima, e poi il vicolo pareva insonorizzato, un paradiso per dormienti, non si sentivano rumori, se non il raschio flebile di una scopa di erica su un pianerottolo, il garrire gioioso di qualche rondine mattutina, i miei passi nervosi, attutiti dalle espadrilles.
«Buongiorno, Michegù, che fai da questi pizzi?» Era la voce di una vecchia zonja con la scopa in mano.
«Aspetto un amico, za Maurèlja» ho risposto gentile.
A mezzogiorno Laura ancora dormiva. Comunque prima o poi l’avrei rivista, era una questione di tempo e il tempo, quell’estate, non mi mancava. E intendevo utilizzarlo per due soli progetti: organizzare ai primi di luglio una bella festa di laurea e soprattutto divertirmi più che potevo, ubriacarmi di sole e di mare e di ragazze, perché sapevo che stavo vivendo l’ultimo periodo spensierato della mia vita. Dopo, in autunno, mi aspettava la ricerca del lavoro. Cioè il buio. Per mia fortuna nessuno in paese mi chiedeva: “Che intendi fare, ora?”. Anche per i miei genitori pareva un discorso da affrontare in un futuro remoto. Al momento si accontentavano, anzi dicevano che erano «gorgogliosi per la laurja e cuntenti per l’ormai prossimo festino».
Nell’attesa dell’autunno buio, leggevo qualche libro di Pavese, soprattutto le poesie di Lavorare stanca, un titolo che sventolavo come una bandiera ironica per esorcizzare il fantasma del lavoro; oppure passavo il tempo davanti al juke-box, m’ingozzavo di canzoni d’amore e spesso andavo a trovare Gojàri nella sua Bottega del Mosaico. Anche lui era per me un velo sul futuro. Era un amico, sapeva il fatto suo, forse avrebbe potuto darmi dei consigli. Eppure mi raccontava solo storie del passato, quasi fossero più importanti del presente e del futuro. Basta.
Più tardi sono salito in piazza, ho preso un caffè al bar e poi sono ritornato sui miei passi.
All’una Laura dormiva ancora. E za Maurèlja si era impiantata sul pianerottolo di casa sua e mi osservava con un’aria beffarda.
«Vuoi un caffè, mentre aspetti? Hai già mangiato? Vuoi un aperitivo?»
Io le rispondevo sempre: «No, za Maurè, grazie», e non vedevo l’ora che rientrasse in casa, che mi lasciasse in pace. Intanto, mi ero stancato di andare su e giù per il vicolo e me ne stavo immobile con una mano infilata nella barba, a guardare sempre nella stessa direzione, una statua sotto il sole tiepido di giugno e sotto lo sguardo curioso di za Maurèlja.
Per fortuna è passato da lì Giovanni, un mio cugino materno, e mi ha invitato ad andare al bar con lui. Ho accettato di buon grado. E poco dopo, mentre bevevo il terzo caffè a stomaco vuoto, mi sentivo come liberato da un incantesimo.
Sono ripassato davanti alla casa di Laura nel tardo pomeriggio. Dopo pranzo ero riuscito ad appisolarmi sul divano e il mio primo pensiero da sveglio era stato per lei e per il bambino. La porta e le finestre erano ancora chiuse e ormai non avevo più speranza che si svegliassero quel giorno. La vecchia za Maurèlja stava immobile sul pianerottolo, seduta su una sedia bassa, le braccia conserte sul corpetto, la coha nera del lutto che la fasciava fino ai piedi ondeggiando nel vento. Sembrava un ornamento del vicolo silenzioso e vuoto. Mi sono preoccupato. Za Maurèlja non mi degnava di uno sguardo, aveva gli occhietti spenti di una morta.
«Ciao, za Maurè» le ho gridato per accertarmi che fosse viva.
In un attimo il suo sguardo è divenuto beffardo. Ha detto: «La guagliona sta dormendo a mondo; ogni tanto si sente il piccolo gajarèllo che raschìa la porta come un gattino incarcerato: vorrebbe uscire all’aria per si liberare in una corriàta».
Altro che morta, aveva capito tutto, faceva la guardiana ai nuovi respiri di vita nel vicolo. Del resto viveva con una figlia anziana che non usciva mai di casa e che stava giornate intere in bagno a impataccarsi la faccia di sapone, diceva la gente; anche mia madre parlava di lei come di «una che non è tanto a piombo». Za Maurèlja era vedova da una vita. Il marito era morto in Altitalia, lasciandola con tre ragazze in età da sposare. Le altre due figlie e i nipoti lavoravano all’estero come molti di Hora.
Sembrava contenta di rivedermi.
In piazza ho incontrato i miei amici e ho raccontato la mattinata inconcludente. Mi hanno detto che avevo gli occhi stanchi, delusi, ma che almeno ero ritornato loquace come sempre. Per un po’ abbiamo camminato senza meta, dalla piazza alla Kona e ritorno. Poi siamo entrati tutti insieme nella Bottega del Mosaico. Gojàri ci ha salutato continuando a incollare tasselli azzurri sulla parete. Era rientrato quel giorno, ha detto, dopo un lungo e faticoso restauro di un’antica icona in una chiesa di Çifti.
«È arrivata la figlia di Antonio Damis dall’Olanda!» gli ho detto con un entusiasmo esagerato, convinto di comunicargli una notizia che non conosceva.
«L’ho già saputo» ha risposto. «Mi hanno riferito che è molto carina, vero?»
«Sì, anche Michele la trova molto carina, ma per me è più carino il bambinello che si è...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il mosaico del tempo grande
  3. L’INIZIO DI TUTTO
  4. IL MOSAICO DEL TEMPO GRANDE
  5. ULTIME OMBRE
  6. DOPO LA FINE
  7. Copyright