Artemis si sedette sulla poltrona di pelle color sangue di bue di fronte a Beckett e Myles. Sua madre era a letto per una leggera influenza, e dato che il padre era da lei insieme al medico, Artemis aveva deciso di dare una mano tenendo occupati i piccoli. E quale occupazione poteva essere migliore di una lezioncina?
Per l’occasione, il ragazzo aveva optato per un abbigliamento casual: camicia di seta azzurro cielo, pantaloni grigi in fresco lana e mocassini. Aveva pettinato all’indietro i capelli neri, lasciando libera la fronte, ed esibiva un’espressione gioviale che, a quanto aveva sentito dire, piaceva molto ai bambini.
«Artemis fa cacca?» chiese Beckett, accovacciato sul tappeto tunisino con indosso solo una canottiera macchiata d’erba che aveva tirato fino alle ginocchia.
«No, Beckett» rispose allegramente Artemis. «Sto cercando di mostrarmi gioviale. E tu non dovresti avere il pannolino?»
«Pannolino» sbuffò Myles, che aveva imparato a usare da solo il vasino all’età di quattordici mesi, raggiungendo la tazza del gabinetto con una scala costruita con i volumi dell’enciclopedia.
«No pannolino» disse imbronciato Beckett, schiaffeggiando una mosca ronzante intrappolata nei riccioli biondi appiccicosi. «Beckett no vuole pannolino.»
Artemis dubitava che la tata si fosse dimenticata di metterglielo, e per un momento si chiese dove fosse finito quel pannolino.
«Molto bene, Beckett» riprese. «Per ora lasciamo stare l’argomento pannolino e dedichiamoci alla lezione odierna.»
«Cioccolato su scaffali» suggerì Beckett, tendendo le dita verso un cioccolato immaginario.
«Sì, giusto. A volte il cioccolato si trova sugli scaffali.»
«Anche espresso» aggiunse Beckett, i cui gusti peculiari comprendevano le bustine per fare l’espresso e la melassa. Nella stessa tazza, possibilmente. Una volta era riuscito a ingurgitare parecchie cucchiaiate del suo intruglio preferito prima che gli venisse strappato via con la forza. Dopodiché, era rimasto sveglio per ventotto ore.
«Imparare parole nuove, Artemis?» chiese Myles, ansioso di tornare a occuparsi di un barattolo pieno di muffa in camera sua. «Sto facendo uno sperimento con il Professor Primate.»
Il Professor Primate era uno scimmiotto di pezza e, talvolta, anche collega di laboratorio di Myles. Il pupazzo passava la maggior parte del tempo sul tavolo degli sperimenti, dentro un barattolo di vetro borosilicato. Artemis aveva riprogrammato il registratore nella pancia della scimmia in modo che reagisse alla voce di Myles con frasi tipo: «È vivo! È vivo!», e: «Questo giorno passerà alla storia, professor Myles».
«Fra poco potrai tornare nel tuo laboratorio» disse Artemis in tono di approvazione. Lui e Myles erano della stessa pasta: scienziati nati. «Dunque, ragazzi, oggi affronteremo alcuni termini da usare al ristorante.»
«Le termiti somigliano ai vermi?» s’informò Beckett, che non era famoso per soffermarsi a lungo su un qualsiasi argomento.
L’osservazione prese Artemis alla sprovvista. I vermi non erano di sicuro sul menu, anche se potevano esserci le lumache. «Lascia perdere i vermi.»
«Lasciar perdere vermi!» inorridì Beckett.
«Solo per un po’» lo rassicurò Artemis. «Appena avremo finito con le parole, potrai occuparti di quello che vuoi. E, se ti comporti bene, forse ti porterò a vedere i cavalli.»
Andare a cavallo era l’unica forma di esercizio fisico a cui Artemis si fosse mai dedicato. Soprattutto perché era il cavallo a fare la maggior parte del lavoro.
Beckett si puntò un dito sul petto. «Beckett» annunciò fiero, i vermi già un ricordo lontano.
Myles sospirò. «Sempli-ciotto.»
Artemis cominciava a pentirsi di avere organizzato la lezione, ma poiché aveva iniziato, era deciso a portarla avanti.
«Myles, non definire sempliciotto tuo fratello.»
«Nessun problema, Artemis. A lui piace. È vero che sei un sempliciotto, Beckett?»
«Beckett sempli-ciotto» annuì felice il piccolo.
Artemis si stropicciò le mani. «Va bene, fratelli. Al lavoro. Immaginate di essere seduti al tavolo di un caffè a Montmartre.»
«A Parigi» precisò Myles, raddrizzandosi con aria compiaciuta la cravatta sottratta al padre.
«A Parigi, giusto. E per quanto ci proviate, non riuscite a richiamare l’attenzione del cameriere. Allora che fate?»
I piccoli lo fissarono con espressione vacua, e Artemis cominciò a chiedersi se per loro il livello della lezione non fosse un po’ troppo alto. Fu perciò con sollievo, anche se con un certo stupore, che vide una scintilla di comprensione accendersi negli occhi di Beckett.
«Mmm… dico a Leale di bump-bump-bumpargli la testa?»
Myles annuì, ammirato. «Concordo con sempli-ciotto.»
«No!» esclamò Artemis. «Vi basterà sollevare un dito e dire chiaramente: Ici, garçon.»
«Issi-che?»
«No, Beckett, non “issi”.» Artemis sospirò. Era impossibile. Assolutamente impossibile. E neanche aveva cominciato a usare i cartellini dimostrativi o il nuovo puntatore laser modificato e capace, a seconda di com’era regolato, sia di evidenziare una parola sia di perforare svariate lastre di acciaio.
«Riproviamo. Alzate un dito e dite Ici, garçon. Insieme, da bravi…»
Ansiosi di accontentare il fratello svitato, i due piccoli obbedirono.
«Ici, garçon» dissero in coro, sollevando un ditino grassoccio. E poi, con un angolo della bocca, Myles bisbigliò al gemello: «Artemis sempli-ciotto».
Artemis sollevò le mani. «Mi arrendo. Avete vinto… Fine della lezione. Perché non andiamo a dipingere qualcosa?»
«Eccellente» commentò Myles. «Io dipingerò il mio barattolo di muffa.»
«Niente da imparare?» chiese Beckett sospettoso.
«No» rispose Artemis, arruffandogli affettuosamente i capelli e pentendosene all’istante. «Non devi imparare niente di niente.»
«Bene. Beckett contento. Vedi?» E il bambino puntò un dito sull’ampio sorriso che gli si allargava sulla faccia.
I tre fratelli erano stesi sul pavimento, immersi fino ai gomiti in barattoli di colori, quando Artemis Fowl Senior entrò nella stanza. Sembrava sfinito per le ore trascorse ad assistere la moglie malata, ma a parte questo era in forma e, a dispetto della gamba artificiale bioibrida, si muoveva con l’agilità di un atleta. La protesi era composta di osso allungato, titanio e una serie di sensori che permettevano ai segnali inviati dal cervello di muoverla. Talvolta, verso la fine della giornata, Artemis Senior riscaldava al microonde un sacchetto di gel e lo usava per alleviarne l’eccessiva rigidità, ma per il resto si comportava come se con quella gamba ci fosse nato.
Artemis si tirò su, gocciolando colori vari. «Ho abbandonato il vocabolario di francese e mi sono messo a giocare con i gemelli.» Sorrise e si pulì le mani. «In effetti, dipingere con le dita è liberatorio. Ho tentato di infilarci una breve lezione sul Cubismo, ma per tutta ricompensa mi hanno schizzato di colori.»
Soltanto allora si accorse che il padre non era semplicemente sfinito. Era preoccupato.
«Che c’è?» chiese, allontanandosi dai gemelli e spostandosi insieme a lui verso la libreria a parete. «L’influenza di mamma è peggiorata?»
Il padre si appoggiò a un piolo di legno della scaletta scorrevole per diminuire la pressione sulla gamba artificiale. Aveva un’espressione strana che Artemis non gli aveva mai visto.
Di colpo si rese conto che il padre era più che preoccupato. Artemis Fowl Senior aveva paura.
«Padre?»
La mano di Artemis Senior strinse il piolo con tanta forza da farlo scricchiolare. Aprì la bocca per parlare, e poi sembrò cambiare idea.
Adesso anche il ragazzo cominciava a preoccuparsi. «Cosa succede, padre? Devi dirmelo.»
«Sì, certo.» L’uomo trasalì, come se si fosse appena ricordato dov’era. «Devo dirti…»
Una lacrima gli cadde sulla camicia, lasciandovi una chiazza di azzurro più scuro.
«Ricordo la prima volta che ho visto tua madre» sussurrò. «Ero a Londra… una festa privata, all’Ivy. Una sala piena di furfanti, e io ero il peggiore di tutti. È stata lei a farmi cambiare, Arty. Mi ha spezzato il cuore e poi l’ha rimesso assieme. Angeline mi ha salvato la vita. E ora…»
Artemis si sentì piegare le ginocchia. Il sangue gli rombava nelle orecchie. «Mia madre sta morendo? È questo che cerchi di dirmi?»
Sembrava un’idea ridicola. Impossibile.
Suo padre batté le palpebre, come riemergendo da un sogno. «Non morirà! Non se noi Fowl abbiamo voce in capitolo, giusto, figliolo? È arrivato il momento di guadagnarti quella tua reputazione di genio.» Gli occhi di Artemis Senior erano lucidi di disperazione. «A qualunque costo, figliolo. A qualunque prezzo.»
Artemis si sentì sommergere da un’ondata di panico.
A qualunque prezzo?
Sta’ calmo, si disse. Ricorda: hai il potere di sistemare questa faccenda.
Ancora non era a conoscenza di tutti i fatti, ma nutriva ugualmente la ragionevole fiducia che, qualunque problema di salute avesse sua madre, fosse curabile con una raffica di magia del Popolo. E lui era l’unico umano sulla Terra cui quella magia scorresse nelle vene.
«Il medico è già andato via?» chiese al padre.
Per un momento la domanda sembrò lasciare perplesso Artemis Senior, poi ricordò. «Andato via? No. È nell’atrio. Ho pensato che forse avresti voluto parlare con lui. Nel caso mi fosse sfuggito di fargli qualche altra domanda…»
Artemis fu solo un po’ sorpreso di trovare nell’atrio non il loro medico di famiglia ma il dottor Hans Schalke, uno dei maggiori esperti europei di malattie rare. Ovviamente il padre l’aveva convocato appena le condizioni di Angeline erano peggiorate. Ora Schalke era in attesa sotto lo stemma in filigrana dei Fowl, e una valigetta di pelle rigida, simile a uno scarafaggio gigantesco, sembrava montare la guardia accanto alle sue caviglie. Mentre si allacciava la cintura dell’impermeabile grigio, il dottore disse qualcosa in tono tagliente alla sua assistente.
In effetti, tutto in lui era tagliente: dall’attaccatura a punta dei capelli, agli zigomi e al naso affilati. Lenti simili a ovali gemelli di vetro gli ingrandivano gli occhi azzurri, e parlava muovendo appena le labbra eternamente piegate all’ingiù.
«Tutti i sintomi» diceva ora con lieve accento tedesco. «In tutti i database. È chiaro?»
L’assistente, una giovane donna minuta che indossav...