Karen Thompson Walker
L’età dei miracoli
ROMANZO
Traduzione di Silvia Stramenga
Ai miei genitori
e a Casey
Non ce ne siamo accorti subito. Non potevamo prevederlo.
Non ci siamo resi conto, all’inizio, del tempo in più che debordava dalla superficie levigata dei giorni, come un tumore che si gonfia sotto la pelle.
Allora eravamo distratti dalla guerra e dal clima. Non avevamo alcun interesse per la rotazione della terra. Le bombe continuavano a esplodere nelle strade di paesi lontani. Gli uragani andavano e venivano. L’estate volgeva al termine. Iniziava un altro anno scolastico. Gli orologi segnavano le ore come al solito. I secondi si sgranavano come perle convertendosi in minuti. I minuti diventavano ore. Nulla lasciava presagire che quelle ore non si stessero a loro volta trasformando in giorni, ciascuno esattamente uguale all’altro, con la stessa durata fissa nota a ogni essere umano.
Ma vi furono coloro che più tardi avrebbero dichiarato di aver riconosciuto i segni della catastrofe prima di tutti noi. Erano i lavoratori del turno di notte, i custodi dei cimiteri, i magazzinieri, e gli scaricatori di porto, i conducenti di tir, oppure i portatori di fardelli diversi: gli insonni, gli inquieti, i malati. Gente abituata ad attendere che passasse la notte. Con gli occhi arrossati dall’insonnia, alcuni avevano notato un certo persistere dell’oscurità nelle mattine precedenti all’annuncio, ma ognuno di loro lo aveva preso come un’errata percezione tutta personale di una mente solitaria, irrequieta.
Il 6 ottobre gli esperti comunicarono ufficialmente la notizia. Questo è, ovviamente, il giorno che tutti noi ricordiamo. Qualcosa era cambiato, dissero, c’era stato un rallentamento, e da quell’istante l’abbiamo chiamato proprio così: il rallentamento.
«Non abbiamo modo di sapere se questa tendenza si manterrà o no» aveva dichiarato uno scienziato timido e barbuto durante una conferenza stampa improvvisata, ora tristemente nota. Si era schiarito la gola e aveva deglutito mentre i flash delle macchine fotografiche gli lampeggiavano negli occhi. Poi era venuto il momento fatidico, ripetuto così spesso in seguito che le cadenze particolari del discorso dello scienziato – le pause, le inflessioni della voce e il leggero accento proprio del Midwest – sarebbero rimaste legate per sempre a quell’annuncio. L’uomo aveva proseguito: «Ma temo che si manterrà».
Il giorno si era allungato di cinquantasei minuti durante la notte.
All’inizio la gente si posizionava agli angoli delle strade e urlava che la fine del mondo era prossima. Esperti vennero a parlarci a scuola. Mi ricordo che guardavo il nostro vicino, il signor Valencia, riempire il suo garage di bottiglie d’acqua e scorte di cibo in scatola, come se si stesse preparando – almeno così mi sembra adesso – per un disastro molto meno grave.
I negozi di alimentari furono presto svuotati, gli scaffali ripuliti come ossa di pollo.
Le autostrade si intasarono immediatamente. La gente aveva udito le ultime notizie e se ne voleva andare. Intere famiglie erano stipate in piccoli camper e si accingevano ad attraversare i confini dello stato. Scappavano in tutte le direzioni, come animali colti di sorpresa da un lampo di luce.
Ma ovviamente non esisteva nessun luogo sulla terra dove rifugiarsi.
La notizia fu data un sabato.
Il cambiamento passò inosservato, almeno a casa nostra. Stavamo ancora dormendo quando il sole era spuntato quella mattina, per cui non notammo nulla di insolito riguardo all’ora in cui era sorto. Quelle ultime ore, prima che apprendessimo del rallentamento, rimangono impresse nella mia memoria anche dopo tutti questi anni, come se fossero intrappolate dietro un vetro.
La notte precedente la mia amica Hanna aveva dormito a casa nostra e ci eravamo accampate con i sacchi a pelo sul pavimento del soggiorno, come avevamo fatto centinaia di altre notti, l’una accanto all’altra. Ci svegliammo con il ronzio del motore delle falciatrici d’erba e dei cani che abbaiavano, con il leggero cigolio del tappeto elastico su cui saltavano i gemelli della casa accanto. Nel giro di un’ora avremmo indossato le nostre uniformi da calcio blu, raccolto i capelli sulla nuca, spalmato la crema solare, e i tacchetti delle nostre scarpe avrebbero risuonato sul pavimento di piastrelle.
«Ho fatto un sogno stranissimo ieri notte» aveva detto Hanna. Era distesa a pancia in giù, la testa appoggiata su un gomito, i lunghi capelli biondi che le scendevano spettinati dietro le orecchie. La sua era una bellezza pelle e ossa che avrei voluto avere anch’io.
«Tu fai sempre sogni strani» le avevo risposto.
Aveva aperto la cerniera del suo sacco a pelo e si era messa a sedere con le ginocchia premute contro il petto. Al suo polso sottile tintinnava un braccialetto con numerosi ciondoli: tra questi, la metà di un piccolo cuore d’ottone. L’altra metà apparteneva a me.
«Nel sogno ero a casa mia, ma non era veramente casa mia» aveva proseguito lei, «ero con mia madre, ma non era veramente mia madre. Le mie sorelle non erano veramente le mie sorelle.»
«Io i miei sogni li ricordo a malapena» le avevo risposto, e mi ero alzata per far uscire i gatti dal garage.
I miei genitori stavano trascorrendo quella mattinata nello stesso modo in cui ricordo che trascorrevano ogni mattina: leggendo il quotidiano al tavolo da pranzo. Posso ancora vederli, seduti lì: mia madre nel suo accappatoio verde e con i capelli bagnati, che scorreva rapidamente le pagine, mentre mio padre stava seduto in silenzio, completamente vestito, intento a leggere ogni singola notizia nell’ordine in cui appariva nel giornale, ciascun articolo riflesso nelle lenti spesse degli occhiali.
Mio padre avrebbe conservato il giornale di quel giorno per molto tempo, dopo di allora – riposto come un cimelio di famiglia, piegato per bene accanto a quello del giorno in cui sono nata. Le pagine del quotidiano di quel sabato, stampate prima che venisse data la notizia, riportavano un aumento nei prezzi degli immobili di città, l’ulteriore erosione di tratti di spiaggia e progetti per una nuova sopraelevata. Durante quella settimana un surfista locale era stato attaccato da un grande squalo bianco; le guardie alla frontiera avevano scoperto un tunnel della droga lungo cinque chilometri, due metri circa sotto il confine tra il Messico e gli Stati Uniti; il cadavere di una ragazza scomparsa da tempo era stato ritrovato sepolto sotto un mucchio di sassi bianchi nel vasto, desolato deserto più a oriente. L’ora in cui il sole sarebbe sorto e quella in cui sarebbe tramontato erano riportate in un grafico nell’ultima pagina, previsioni che ovviamente non si erano avverate.
Mezz’ora prima di ascoltare il notiziario, mia madre era uscita a comprare dei panini.
Sono convinta che i gatti avessero percepito il cambiamento prima di noi. Erano entrambi siamesi, ma con caratteristiche diverse. Chloe era tranquilla e assonnata, soffice e tenera. Tony era il suo esatto opposto: una creatura vecchia e ansiosa, forse perfino disturbata − con i suoi stessi artigli si strappava ciuffi di peli, che poi lasciava a mucchietti in giro per casa: minuscoli batuffoli di pelo alla deriva sul tappeto.
In quegli ultimi minuti, mentre versavo un mestolo di croccantini nelle loro ciotole, le orecchie di Chloe e Tony avevano cominciato a orientarsi freneticamente verso il giardino. Forse lo avevano percepito in qualche modo, come un cambiamento nell’aria. Conoscevano entrambi il rumore della Volvo di mia madre che risaliva il vialetto di casa, ma più tardi mi sono chiesta se non avessero anche avvertito il giro insolitamente rapido delle ruote mentre lei parcheggiava in fretta e furia, o il panico nell’acuto scricchiolio del freno a mano quando lo aveva tirato su con uno strattone.
Ben presto anch’io ero stata in grado di percepire l’umore di mia madre dal suo passo svelto sulla veranda, dal disordinato sferragliare delle sue chiavi contro la porta – aveva sentito le ultime notizie, ora tristemente note, dall’autoradio durante il tragitto tra la panetteria e casa nostra.
«Accendete subito la televisione» aveva detto. Le mancava il respiro ed era sudata. Aveva lasciato le chiavi nella serratura, da dove avrebbero penzolato per tutto il giorno. «Sta succedendo qualcosa di orrendamente spaventoso.»
Eravamo abituati alla retorica di mia madre. Usava dei paroloni, si infuriava, esagerava o tesseva le lodi di qualcosa in maniera spropositata. Orrendamente spaventoso avrebbe potuto significare qualsiasi cosa. Si trattava di un’ampia frase-rete che raccoglieva un migliaio di possibilità, la maggior parte delle quali innocue: giorni afosi, ingorghi di traffico, tubi che perdevano, lunghe code. Perfino il fumo della sigaretta, se soffiato troppo vicino a lei, poteva essere veramente e realmente spaventoso.
Fummo lenti a reagire. Mio padre, con indosso la sua maglietta gialla dei San Diego Padres ormai consumata, era rimasto esattamente dov’era: seduto a tavola, con un palmo della mano sulla tazza di caffè e l’altro posato dietro la nuca, mentre terminava di leggere un articolo della pagina economica. Io avevo preso e aperto il sacchetto pieno di panini lasciando che la carta frusciasse sotto le mie dita. Perfino Hanna conosceva mia madre abbastanza bene da non interrompere quello che stava facendo: cercare il formaggio spalmabile sull’ultimo ripiano del frigorifero.
«State guardando?» aveva chiesto mia madre. No, non stavamo guardando.
Mia madre una volta aveva fatto l’attrice. Gli spot pubblicitari in cui è apparsa, soprattutto di articoli per capelli e prodotti da cucina, erano tumulati in una pila di polverose videocassette nere accanto alla televisione. La gente mi racconta sempre di quanto era bella da giovane. Potevo ancora ritrovare quella bellezza nella pelle chiara del suo volto e negli zigomi alti, ma aveva messo su qualche chilo nella mezza età. Adesso insegnava un’ora di recitazione e quattro di storia alla scuola superiore e vivevamo a centocinquantatré chilometri di distanza da Hollywood.
Se ne stava in piedi sopra i nostri sacchi a pelo, a mezzo metro dalla televisione. Ora, quando ci ripenso, la vedo che porta una mano a coppa davanti alla bocca, come faceva sempre quando era preoccupata, ma allora mi sentivo in imbarazzo per il fatto che le sue suole nere goffrate stavano stropicciando il sacco a pelo rosa a pois di Hanna, fatto di cotone delicato, pensato non per gli azzardi dei campeggi all’aperto, ma esclusivamente per la soffice moquette di calde dimore.
«Mi avete sentito?» aveva chiesto mia madre, girandosi a guardarci. Io avevo la bocca piena di pane e formaggio. Un semino di sesamo mi si era conficcato tra i due incisivi anteriori. «Joel!» aveva urlato, rivolgendosi a mio padre. «Sto parlando seriamente! È agghiacciante!»
Mio padre aveva sollevato lo sguardo dal giornale, sempre però tenendo il dito fermamente premuto sulla pagina per non perdere il segno. Come potevamo sapere allora che il meccanismo di funzionamento dell’universo aveva alla fine reso appropriate le parole di fuoco che uscivano dalla bocca di mia madre?
Vivevamo in California, ed eravamo perciò abituati alle perturbazioni della terra. Sapevamo che il suolo poteva spostarsi e tremare. Le batterie delle nostre torce erano sempre cariche e nei nostri ripostigli tenevamo sempre a disposizione tanichette d’acqua da quattro litri. Non ci spaventavamo vedendo delle crepe nei nostri marciapiedi. Le piscine a volte sciabordavano come catini colmi d’acqua. Eravamo ben allenati a muoverci strisciando sotto i tavoli, e sapevamo di dover stare attenti ai frammenti di vetro scagliati in aria. All’inizio di ogni anno scolastico, ciascuno di noi preparava un bel sacchetto di plastica a chiusura ermetica pieno di cibo non deperibile, nel caso che il Big One arrivasse e ci bloccasse a scuola. Ma noi californiani a questa particolare calamità non eravamo più preparati di quelli che avevano costruito le loro case su un terreno più stabile.
Quando infine, quella mattina, Hanna e io ci rendemmo conto di cosa stava succedendo, corremmo fuori per cercarne le prove nel cielo. Ma il cielo era semplicemente il cielo: un azzurro ordinario, senza nuvole. Il sole splendeva come al solito. Una brezza familiare soffiava dal mare, e l’aria odorava, come sempre in quel periodo, di erba appena tagliata, di caprifoglio e cloro. Gli eucalipti ondeggiavano al vento come anemoni di mare, e il tè di mia madre, lasciato in infusione al sole dentro una caraffa, era ora sufficientemente scuro da poter essere bevuto. Da lontano, al di là della recinzione dietro casa, si potevano udire il brusio e l’eco del traffico autostradale. Le linee elettriche continuavano a ronzare. Se avessimo lanciato un pallone da calcio in aria, probabilmente non avremmo neanche notato che sarebbe caduto un po’ più rapidamente a terra, che avrebbe colpito il suolo con maggiore violenza di prima. Avevo undici anni e vivevo in periferia. La mia migliore amica era accanto a me. Nulla mi sembrava fuori posto, o insolito.
In cucina mia madre stava già controllando gli scaffali alla ricerca di beni di prima necessità, apriva gli sportelli delle credenze e ispezionava ...