Piccolo mondo antico
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Piccolo mondo antico

  1. 432 pagine
  2. Italian
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Piccolo mondo antico

Informazioni su questo libro

Pubblicato nel 1895, Piccolo mondo antico apre la tetralogia di romanzi comprendente anche Piccolo mondo moderno, Il Santo e Leila, rimanendo l'opera più significativa e riuscita di Fogazzaro. Libro esemplare del Risorgimento italiano, narra le vicende dei due sposi Franco Maironi e Luisa Rigey, giovani di idee liberali, sullo sfondo della storia italiana dal 1848 al '59. Sul dramma politico vissuto dai protagonisti si innesta un altro dramma, non meno profondo: lo straziante dolore per la perdita della figlioletta annegata, che da un lato indurisce la razionalista Luisa, dall'altro spinge Franco, più contemplativo, a consacrarsi per intero all'ideale patriottico, gettandosi con entusiasmo illuminato nell'azione. Definito da Piero Nardi, che di Fogazzaro è stato forse il massimo critico, un'"opera di interesse molteplice e di commovente complessità", capace di far "vibrare tutte le corde del patetico e del comico", Piccolo mondo antico rimane indelebilmente impresso nella memoria del lettore per la verità con cui vi appaiono gli uomini e le loro passioni.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804492870
eBook ISBN
9788852030215

PARTE SECONDA

I

Pescatori

Il Dottor Francesco Zérboli, I. R. Commissario di Porlezza, approdò alla I. R. Ricevitoria di Oria il 10 settembre 1854, proprio quando un sole veramente imperiale e regio sormontava il bastione poderoso della Galbiga, sfolgorava la rosea casetta della Ricevitoria, gli oleandri e i fagiuoli della signora Peppina Bianconi, chiamando, secondo i regolamenti, all’ufficio il signor Carlo Bianconi suo marito, quel tale Ricevitore cui la musica manoscritta puzzava di cospirazione. Il Bianconi, detto dalla sposa «el mè Carlascia» e dal popolo «el Biancòn», un omone alto, grosso e duro, col mento pelato, con due baffoni grigi, con due occhi grossi e spenti di mastino fedele, discese a ricevere l’altro I. R. mento pelato di categoria superiore. I due non si rassomigliavano proprio che nella nudità austriaca del mento. Lo Zérboli, vestito di nero e inguantato, era piccolo e tozzo, portava due baffetti biondi appiccicati alla faccia giallognola, bucata da due scintille d’occhietti sarcastici e sprezzanti. Aveva i capelli piantati così basso sulla fronte ch’era solito raderne una lista, restandogliene spesso un’ombra, quasi di bestialità. Prontissimo di persona, d’occhi e di lingua, parlava un italiano nasale, modulato alla trentina, con facile cortesia. Disse al Ricevitore che doveva tenere un convocato, il consiglio comunale d’allora, a Castello e che aveva preferito venir per tempo, fare la salita, col fresco, da Oria invece che da Casarico o da Albogasio, onde procurarsi il piacere di salutare il signor Ricevitore.
Il bestione fedele non capì subito che c’era un secondo fine, ringraziò con un miscuglio di frasi ossequiose e di risatine stupide, fregandosi le mani, offerse caffè, latte, uova, l’aria aperta del giardino. Colui accettò il caffè e rifiutò l’aria aperta con un cenno del capo e una strizzatina d’occhi così eloquente che il Carlascia, vociato su per le scale «Peppina! Caffè!», fece passare il Commissario in ufficio, dove, sentendosi trasmutare, secondo la sua doppia natura, da Ricevitore di dogana in agente di polizia, si fece devoto il cuore e austero il viso come per una unione sacramentale col monarca. Questo ufficio era un ignobile bugigattolo a pian terreno, con le inferriate ai due finestrini, una infetta cellula primitiva che aveva già il puzzo della grande monarchia. Il Commissario vi si piantò a sedere in mezzo, guardando l’uscio chiuso che dall’approdo metteva nell’anticamera; quello che dall’anticamera metteva nell’ufficio era rimasto aperto, per ordine suo.
«Mi parli del signor Maironi» diss’egli.
«Sorvegliato sempre» rispose il Biancòn. «Anssi» soggiunse nel suo italiano di Porta Tosa «aspetti: ci ho qui un rapporto quasi finito.» E si diede a frugare, a palpar fra le sue carte in cerca del rapporto e degli occhiali.
«Manderà, manderà» fece il Commissario che non si aspettava molto dalla prosa del bestione.
«Intanto parli, dica!»
«Malintensionato sempre, questo si sapeva» ricominciò l’eloquente Ricevitore, «e adesso anche si vede. Si è messo a portare quella barba, sa, quella mosca, quella moschetta, quel pisso, quella porcheria...»
«Scusi» fece il Commissario. «Vede, io sono ancora nuovo, ho istruzioni, ho informazioni, ma un’idea esatta dell’uomo e della famiglia non l’ho ancora. Bisogna che Lei me li descriva proprio a fondo così come può. E incominciamo pure da lui.»
«Lui è un superbo, un furioso, un prepotente. Avrà attaccato lite cinquanta volte, qui, per affari di dassio. Vuol aver sempre ragione, vuol darci lessione a me e al sedentario. Caccia fuori due occhiacci come se volesse mangiare la Ricevitoria. L’è che con me non c’è da fare il prepotente, se del resto!... Perché sa di tutto, poi, questo sì. Sa di legge, sa di finansa, sa di musica, sa di fiori, sa di pesci, el diavol a quatter.»
«E lei?»
«Lei? Lei lei lei lei... lei l’è ona gattamorgna ma se la cascia fœura i ong l’è pesg de lü; peggio! Lui quando va in collera diventa rosso e fa un baccano di mille lire; lei diventa pallida e dice insolense d’inferno. Adesso si dice, insolense io non ne tollero... ma insomma... mi capisce. Donna di talento, sa. La mia Peppina ci è innamorata. Donna che si insinua dappertutto, poi. Tante volte qui a Oria invece di chiamare il dottore chiamano lei. Se in una famiglia questionano vanno da lei. Se ci vien il mal di pancia a una bestia domandano lei. I bagàj s’i a tira dree tücc. È magari buona, in carnevale, di fare i magatelli per loro. Sa, i burattini. E in pari tempo è un accidente che suona il cembalo, che sa il francese e il tedesco. Io per mia disgrassia non lo so, il tedesco, e sono andato da lei così delle volte per farmi spiegare carte tedesche che capitano in ufficio.»
«Ah, Lei ci va, in casa Maironi?»
«Sì, qualche volta, per questo.»
Veramente il bestione ci andava pure per farsi spiegare da Franco certi enigmi della tariffa doganale; ma questo non lo disse.
L’interrogatorio del Commissario continuò.
«E la casa, come è messa?»
«Messa bene. Bei pavimenti alla venessiana, soffitti pitturati, canapè con tappeti, cembol, camera da pranso colle pareti tappessate di ritratti ch’è una bellèssa.»
«E l’ingegnere in capo?»
«L’ingegnere in capo è un buon omaccio, allegro, all’antica; mi somiglia a me. Più vecchio però, sa. Del resto qui ci sta pochissimo. Un quindici giorni a questa stagione, altri quindici la primavera e qualche visitina durante l’anno. Quando ha la sua pace, la sua quiete, il suo latte alla mattina, il suo latte alla sera, il suo boccale di Modena a pranso, il suo tarocco, la sua gasètta di Milano, l’ingegnere Ribera è contento. Del resto, tornando alla barba del signor Maironi, c’è anche di peggio. Ho saputo ieri che il signore ha messo un gelsomino in un vaso di legno inverniciato di rosso.»
Il Commissario, uomo d’ingegno e forse indifferente, nel più intimo del cuor suo, a tutti i colori tranne a quello della propria cera e della propria lingua, non poté a meno di alzar un po’ le spalle. Ma poi domandò subito:
«La pianta è fiorita?»
«Non lo so, domanderò alla donna.»
«A chi? A Sua moglie? Ci va, Sua moglie, in casa Maironi?»
«Sì, qualche volta ci va.»
Lo Zérboli piantò i suoi occhietti sprezzanti in faccia al Bianconi, e gli articolò ben chiara questa domanda:
«Ci va con profitto o no?»
«Ma! con profitto! Segond! Lei si figura di andare come amica della signora Luisina, per i fiori, per i lavori, per i pettegolessi, e cicìp e ciciâp, sa bene, donne. Io poi ci cavo...»
«Tè chì, tè chì!» esclamò nel suo italiano di Porta Ticinese la signora Peppina Bianconi, venendo avanti col caffè, tutta sorridente. «El sür Commissari! Come goo mai piasè de vedèll! El sarà magàra minga tant bon el caffè, però l’è el prim! La bolgira l’è de minga podè tœul a Lügan!»
«Tetetetetè!» fece il marito, burbero.
«Euh diavol! Disi inscì per rid. El capiss ben, neh, Lü, sür Commissari! L’è quel benedett omasc lì ch’el capiss no! En tœui nanca per mi de caffè, ch’el se figüra! Tœui giusta l’acqua de malva per i girament de testa!»
«Ciciàra minga tant, ciciàra minga tant!» interruppe il marito. Il Commissario, posando la tazza vuota, disse alla buona signora che sarebbe poi andato a vedere i suoi fiori, e questa galanteria parve l’atto di chi, al caffè, butta e fa suonar la moneta sul vassoio perché il tavoleggiante lo pigli e se ne vada.
La signora Peppina intese e, sgomentata per giunta dai grossi occhi feroci del suo Carlascia, si ritirò frettolosamente.
«Senta senta senta» fece il Commissario coprendosi la fronte e stringendosi le tempie colla mano sinistra. «Oh!» esclamò a un tratto, nel raccapezzarsi. «Ecco, volevo sapere se, adesso, l’ingegnere Ribera è a Oria.»
«Non c’è ma verrà fra pochissimi giorni, credo.»
«Spende molto, l’ingegnere Ribera, per questi Maironi?»
«Spende molto, sicuro. Non credo che di casa sua don Franco abbia più di tre svansiche al giorno. Lei poi...» Il Ricevitore si soffiò sul palmo della mano. «Dunque capisce. Hanno la donna di servissio. C’è una bambina di due anni o ché; ci vuole la ragassa, per curare la bambina. Si fanno venire fiori, libri, musica, el diavol a quatter. Alla sera si giuoca a tarocchi, c’è la sua bottèglia. Ce ne vogliono così delle svansiche, mi capisce!»
Il Commissario rifletté un poco e poi, con una faccia nebulosa, con gli occhi al soffitto, con certe parole sconnesse che parevano frammenti d’oracolo, fece intendere che l’ingegnere Ribera, un I. R. impiegato, favorito recentemente dall’I. R. Governo di una promozione in loco, avrebbe dovuto esercitare sui nipoti una influenza migliore. Quindi con altre domande e con altre osservazioni che concernevano specialmente le presenti debolezze dell’ingegnere, insinuò al Bianconi che le sue attenzioni paterne dovevano rivolgersi con particolare segretezza e delicatezza all’I. R. collega, onde illuminare, occorrendo, la Superiorità circa tolleranze che sarebbero scandalose. Gli chiese finalmente se non sapesse che l’avvocato V. di Varenna e un tale di Loveno venivano abbastanza spesso a visitare i Maironi. Il Ricevitore lo sapeva e sapeva dalla sua Peppina che venivano a far musica. «Non credo!» esclamò il Commissario con subita e insolita asprezza. «Sua moglie non capisce niente! Ella si farà menar per il naso, caro Bianconi, a questo modo. Quei due sono soggettacci che starebbero bene a Kufstein. Bisogna informarsi meglio! Informarsi e informarmi. E adesso andiamo in giardino. A proposito! Quando entra da Lugano qualche cosa per la marchesa Maironi...»
Lo Zérboli compié la frase con un gesto di graziosa larghezza e s’incamminò seguito dal mastino, alquanto mogio.
La signora Peppina si fece trovare ad annaffiar i fiori con l’aiuto di un ragazzotto. Il Commissario guardò, ammirò e trovò anche modo di dar una lezioncina al poliziotto subalterno. Lodando quei fiori trasse destramente la Bianconi a nominar Franco e sulla persona di Franco non si fermò affatto come se non gliene importasse nulla. Si tenne ai fiori, affermò che Maironi non poteva averne di più belli. Strilli, gemiti e giaculatorie dell’umile signora Peppina che perfino si vergognava d’un paragone simile. E il Commissario insistette. Ma come? Anche le fuchsie di casa Maironi erano più belle? Anche le vainiglie? Anche i pelargoni? Anche i gelsomini?
«I gesümin?» fece la signora Peppina. «Ma el sür Mairon el gà el pussee bell gesümin de la Valsolda, cara Lü!»
Così il Commissario venne poi a sapere molto naturalmente che il famoso «gesümin» non era ancora fiorito. «Vorrei vedere le dalie di don Franco» diss’egli. La ingenua creatura si offerse di accompagnarlo a casa Ribera quel giorno stesso: «Gavarissen inscì mai piasè». Ma il Commissario espresse il desiderio di attendere la venuta dell’I. R. ingegnere in capo della provincia per avere occasione di riverirlo e la signora Peppina fece «eccola!» in segno della sua soddisfazione. Intanto il mastino, umiliato da quell’arte superiore, desiderando mostrar in qualche modo che almeno dello zelo ne aveva anche lui, afferrò per un braccio il ragazzotto dall’annaffiatoio e lo presentò:
«Mio nipote. Figlio d’una mia sorella maritata a Bergamo con un I. R. portiere della Delegassione. Ha l’onore di chiamarsi Francesco Giuseppe, per desiderio mio; ma capisce bene, per il dovuto rispetto, questo non può essere il nome solito.»
«Soa mader la ghe dis Ratì e so pader el ghe dis Ratù, ch’el se figüra!» interloquì la zia.
«Citto, Lei!» fece lo zio, severo. «Io lo chiamo Francesco. Un ragasso bene educato, devo dirlo, molto bene educato. Di’ un po’ su, Francesco, quando sarai grande, cosa farai?»
Ratì rispose a precipizio come se recitasse la Dottrina Cristiana:
«Io quando sarò grande mi comporterò sempre da suddito fedele e devoto di Sua Maestà il nostro Imperatore nonché da buon cristiano; e spero coll’aiuto del Signore diventare un giorno I. R. Ricevitore di Dogana come mio zio, per andar quindi a ricevere il premio delle mie buone opere in paradiso.»
«Bravo bravo bravo» fece lo Zérboli, accarezzando Ratì. «Seguitiamo a farci onore.»
«Ch’el tasa, sür Commissari» saltò fuori da capo la Peppina «che stamattina el baloss el m’ha mangiaa fœura mèss el süccher de la süccherera!»
«Comè comè comè?» fece il Carlascia uscendo di tono per la sorpresa. Si rimise subito e sentenziò: «Colpa tua! Si mettono le cose a posto! Vero, Francesco?».
«Pròpe» rispose Ratì, e il Commissario, seccato da quel battibecco, da quella ridicola riuscita della sua frase paterna, prese bruscamente congedo.
Appena partito lui, il Carlascia menò un «tœu sü el süccher, ti» e un formidabile scapaccione a Francesco Giuseppe che si aspettava tutt’altro e corse a salvarsi tra i fagiuoli. Poi aggiustò le partite di sua moglie con un buon rabbuffo, giurando che in avvenire lo avrebbe tenuto lui lo zucchero, e poiché ella si permise di ribattere «cossa te vœut mai intrigàt ti?» la interruppe «intrigatissim in tütt! intrigatissim in tütt!» e voltatele le spalle, s’avviò a gran passi sbuffando e fremendo, verso il posto dove la diligente sposa gli aveva preparata la lenza e la polenta, e inescò i due poderosi ami da tinche. Poiché in antico quel piccolo mondo era ancora più segregato dal mondo grande che al presente, era più che al presente un mondo di silenzio e di pace, dove i funzionari dello Stato e della Chiesa e, dietro al loro venerabile esempio, anche alquanti sudditi fedeli dedicavano parecchie ore ad una edificante contemplazione. Primo a ponente, il signor Ricevitore slanciava due ami appaiati in capo a una lenza sola, due traditori bocconi di polenta, lontano dalla sponda quanto mai poteva; e quando il filo si era ben disteso, quando il sughero indicatore si era quasi ancorato in placida attesa, l’I. R. uomo posava delicatamente la bacchetta della lenza sul muricciolo, sedeva e contemplava. A levante di lui, la guardia di finanza che allora chiamavano «il sedentario», accoccolata sull’umile molo dell’approdo davanti ad un altro sughero, pipava e contemplava. Pochi passi più in là, il vecchio allampanato Cüstant, imbianchino emerito, sagrestano e fabbriciere, patrizio del villaggio di Oria, seduto sulla poppa della sua barca con una sperticata tuba preistorica in testa, con la magica bacchetta in mano, con le gambe penzoloni sull’acqua, raccolta l’anima nel sughero suo proprio, contemplava. Seduto sull’orlo d’un campicello, all’ombra d’un gelso e d’un cappellone di paglia nera, il piccolo, magro, occhialuto don Brazzova, parroco di Albogasio, rispecchiato dall’acqua limpida, contemplava. In un orto di Albogasio Inferiore, fra le rive del Ceròn e la riva di Mandrœugn, un altro patrizio in giacchetta e scarponi, il fabbriciere Bignetta, detto el Signoron, duro e solenne sopra una sedia del settecento con la famosa bacchetta in mano, vigilava e contemplava. Sotto il fico di Cadate stava in contemplazione don Giuseppe Costabarbieri. A S. Mamette pendevano sull’acqua e contemplavano con grande attività il medico, lo speziale, il calzolaio. A Cressogno contemplava il florido cuoco della marchesa. In faccia a Oria, sull’ombrosa spiaggia deserta del Bisgnago, un dignitoso arciprete della bassa Lombardia usava passar ogni anno quaranta giorni di vita contemplativa. Contemplava solitario, vescovilmente, con tre bacchette ai piedi, i relativi tre pacifici sugheri, due con gli occhi e uno col naso. Chi passando per l’alto lago avesse potuto discernere tutte queste figure meditabonde, inclinate all’acqua, senza veder le bacchette né i fili né i sugheri, si sarebbe creduto nel soggiorno d’un romito popolo ascetico, schivo della terra, che guardasse il cielo giù nello specchio liquido, solo per maggiore comodità.
In fatto tutti quegli ascetici pescavano alle tinche e nessun mistero dell’avvenire umano aveva per essi maggior importanza dei misteri cui arcanamente alludeva il piccolo sughero, quando, posseduto quasi da uno spirito, dava segni d’inquietudine sempre più viva e in fine di alienazione mentale; poiché, dati dei crolli, dei tratti ora avanti ora indietro, pigliava per ultimo, nella confusione delle sue idee, il partito disperato di entrar giù a capofitto nell’abisso. Questi fenomeni avvenivano però di rado e parecchi contemplatori solevano passare delle mezze giornate senza notar la menoma inquietudine nel sughero. Allora ciascuno, senza toglier gli occhi dal piccolo galleggiante, sapeva seguire un invisibile filo d’idee parallelo al filo della lenza. Così avveniva talvolta al buon arciprete di pescar mentalmente una sede episcopale, al Signoron di pescare un bosco ch’era stato dei suoi avi, al cuoco di pescare una certa tinca rosea e bionda della montagna, al Cüstant di pescare una commissione del Governo per dare il bianco al picco di Cressogno. Quanto al Carlascia, il suo secondo filo aveva generalmente un carattere politico. E questo si comprenderà meglio quando si sappia che anche il filo principal...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Canne al vento
  3. Introduzione. Di Daniela Marcheschi
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. Piccolo Mondo Antico
  7. Parte Prima
  8. Parte Seconda
  9. Parte Terza
  10. Postfazione
  11. Antonio Fogazzaro Di Riccardo Bacchelli
  12. Copyright