Si è fatto tutto il possibile
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Si è fatto tutto il possibile

  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Si è fatto tutto il possibile

Informazioni su questo libro

È mattina presto. Mario Venturi, anestesista, docente universitario e professionista navigato, è chiuso nel suo studio di primario, in ospedale. Ricorda. Ricostruisce l'opprimente cadenza degli eventi che l'hanno portato fin lì. La sua vita, a un certo punto, sembra essersi trasformata in un domino le cui tessere si abbattono una dopo l'altra. A mettere in moto la reazione a catena è stato un tragico errore in sala operatoria. Da allora, lui, uno che la vita l'ha "sempre presa in pugno" e tenuta ben salda, che aveva progressivamente spostato in avanti il proprio limite del giusto, del lecito, del possibile, in nome della carriera, del potere, della soddisfazione personale, è smarrito in un labirinto di passioni contrastanti: rimorsi e paura di affrontare le conseguenze dei propri gesti, sensi di colpa e autoindulgenza, recriminazioni e desiderio di rivalsa. E il peso che si è ritrovato addosso lentamente lo schiaccia. Con mano attenta e infallibile Marco Venturino disseziona la mente di un uomo che, per una tragica fatalità, si ritrova sguarnito al cospetto di un'esistenza che credeva di dominare e che invece gli presenta il conto.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804590804
eBook ISBN
9788852030628

1. INCIPIT IN STUDIO

Ho paura.
...
Ho una paura tremenda, assoluta, vigliacca.
Una paura totale.
Non si dovrebbe avere una paura così. Almeno non nel nostro mondo civile, non nella vita comune, quotidiana, banale e rassicurante che usualmente un professionista, quale sono io, si trova a consumare.
Si ha una paura così in guerra, quando ti aspetti che una bomba completi la sua traiettoria proprio dove finisce la tua. Oppure, in questa opulenta parte del globo che oramai la guerra “non sa più neppure cos’è”, quando per sfortuna ti ritrovi in un vicolo con alla gola il coltello di un teppista, drogato e invasato. Magari in quel caso hai un po’ meno paura perché speri sempre che dando al teppista un po’ di quello che la vita ha regalato a te e non a lui, cioè il danaro, le intenzioni bellicose delle lame si esauriscano in un nulla di fatto. Forse è diverso se sei una donna: quella col coltello alla gola intendo. Già, perché è possibile che al teppista, del danaro gli freghi meno che delle tue cosce. E allora non puoi avere che una paura fottuta: ma io non sono una donna.
Oppure quando dici a un tuo paziente:
«Sei fregato!»
No, be’, non dici proprio così, ma cominci una manfrina fatta di “vedremo”, “non si può mai sapere”, “certo che il caso è complesso”, “sì, si può sempre sperare, però non facciamoci troppe illusioni” eccetera eccetera. Insomma una manfrina dalla quale quello, il paziente, capisce subito:
“Sono fregato!”
E la paura gliela vedi negli occhi, così spessa che ti sembra di poterla raccogliere con un cucchiaio.
Ma io non sono nemmeno un paziente. Di solito sono quello che si trova dall’altra parte. Quello che la manfrina la racconta. Quello col cucchiaio.
Eppure adesso ho paura. Una paura che mi spezza il respiro, che mi affonda un macigno nello stomaco, che mi fa mancare la terra sotto i piedi. Non ci sono bombe, non ci sono coltelli alla gola e sono perfettamente sano. Già, perfettamente sano. Malgrado senta il cuore che mi vuole uscire dal petto e il polso che corre come un disperato, a ogni movimento e a ogni pensiero mi ricopra di sudori che gelano al contatto con l’aria, mi senta soffocare pur tentando di prendere aria a grandi sorsate, le gambe sembrino non riuscire a reggermi e la testa fatichi a tenere un corretto asse d’equilibrio, sono perfettamente sano. Chi può saperlo meglio di me? Sono più di vent’anni che lavoro in ospedale e i malati sono capace di riconoscerli. Almeno credo.
Aver paura è un po’ come essere malati. Non sei più integro: è come se dentro di te, proprio come quando sei malato, si fosse creata una zona di minor resistenza, una faglia di debolezza che, se non prontamente ricomposta, ti sgretola facendoti crollare su te stesso.
Per questo rimango seduto su questa poltroncina, accartocciato su di me come una vite puntellata su una collina scoscesa: per non crollare. Fortunatamente è ancora presto e posso rimandare il momento di alzarmi in piedi.
Sono le sei e trenta del mattino. Sono arrivato in studio un po’ presto oggi. Ho tempo. Non mi aspettano in sala operatoria prima delle otto. Ho un’ora e trenta per organizzarmi la fuga.
Che buffo! Sono venuto proprio nel posto dal quale vorrei scappare. Di solito quando uno fugge non si comporta così. E io voglio assolutamente andare via, ma al contempo non posso fare a meno di essere qua. Forse perché non saprei dove altro andare. Forse perché per scappare veramente devo solamente scappare da me stesso.
Questo studio è confortevole. C’è una bella scrivania ampia. Dopo anni di litigi con l’amministrazione dell’ospedale sono riuscito ad avere una bella poltroncina ergonomica alla quale ora mi trovo aggrappato come un naufrago. Ci sono altre tre sedie nello studio. Due sono di fronte a me, dall’altro lato della scrivania, mentre la terza è solinga contro il muro, vicino alla porta. Sono sedie normali, il bilancio non permetteva altre poltroncine. Il bilancio o la burocrazia, non so bene. So solo che per chiedere altre tre poltroncine avrei dovuto compilare tante di quelle richieste e dare così tante spiegazioni che mi è passata la voglia. In fondo, sulle sedie ci si siedono gli altri.
E gli altri solitamente, quando si siedono qua, hanno bisogno di me. Possono essere colleghi di differenti divisioni di questa specie di città che si chiama ospedale, anche molto più potenti e importanti di me: ma quando vengono qua, per quanto possano essere blasonati, vengono per cercare un favore. Oppure sono miei collaboratori: tutta una lunga schiera di sottoposti, dagli aiuti più esperti all’ultimo degli inservienti. Anche loro, quando poggiano il sedere sulle sediole qui davanti, lo fanno per questuare favori, consigli, raccomandazioni, richieste di ferie, di permessi, di appoggi. Chiedono, e io decido se dare o meno. Arroccato sulla mia poltrona come un sovrano sul suo trono, io dispenso la mia volontà e creo sui visi dei questuanti sorrisi o smorfie. Ma la poltrona, segno inequivocabile e distintivo della mia autorità, costringe comunque tutti a dire “grazie”.
Su queste sedie si siedono anche i venditori, gli informatori farmaceutici, i sales manager degli apparecchi elettromedicali: questi non chiedono, implorano. I mercanti dipendono dalla mia scelta, dal mio capriccio più o meno scientifico. La mia decisione se far acquistare il catetere Pinco o il tubo Pallino è il fulcro della leva che muove le loro carriere. Il mio “sì” o il mio “no” è il pendolo che sublima o vanifica tutti i loro sforzi. Quando questi personaggi si siedono qui davanti, io divento veramente IO. E questo IO, seduto di fronte, può dire e pretendere qualunque cosa: loro ascoltano e si adeguano al mio volere.
L’ultima categoria, ma non per importanza, che si ritrova appollaiata su queste seggiole di fronte è quella dei malati, o meglio dei parenti dei malati. Questi ultimi, più di tutti, pendono dalle mie labbra, e le mie sentenze seminano gioia e dolore come la pioggia distribuita da un dio a volte generoso a volte implacabile, ma pur sempre dio: la sua volontà puoi non capirla ma non puoi non accettarla.
Questa è la poltrona ergonomica del comando, questo è il suo senso. Almeno era così fino a oggi. Ora è la zattera di un naufrago. È davvero incredibile come si cambia.
C’è chi sostiene che noi non siamo mai gli stessi: un minuto dopo non siamo quello che eravamo un minuto prima. Ma a me sembra proprio di avere esagerato con i cambiamenti.
Cosa sono diventato?
Forse la risposta a questa domanda dovrebbe procedere dalla risposta a un altro quesito: che cosa ero?
Quante volte mi sono posto la questione? Mai.
Ho vissuto. Sono andato avanti, ecco. Mi sono mosso in un ingranaggio ben oleato che macinava esistenza. Fin da bambino ho camminato lungo una strada che portava verso un orizzonte che credevo definito, ma al quale non arrivavo mai. Era lì, dritto davanti a me, e io procedevo spinto dalla vita stessa, da un’inerzia piena di energia che mi metteva in costante movimento. Ma mentre mi muovevo, mentre m’incamminavo su quella rotta, che cosa ero?
Non lo so.
Perché non mi sono mai posto questa domanda? Non avevo tempo.
Sul muro di fronte alla scrivania c’è una bella litografia di De Chirico. Bella come disegno, bella come effetto cromatico, bella... come punto di arrivo. Già, questa litografia è, o meglio è stata, un punto di arrivo. Me l’hanno regalata i miei collaboratori quando sono diventato professore. Quando l’università mi ha accettato nel suo Empireo, o nei suoi ranghi, se vogliamo dirla in altro modo. Lidia Sassi, il mio aiuto più determinato a fare carriera, ha organizzato la cordata – non ho cuore a dire la colletta – per comprare questo pezzo in una bottega d’arte e combinarmi il festeggiamento.
«Dal più profondo del cuore il nostro abbraccio per un grande risultato. Per noi è sempre stato un “professore” ma ora è il “nostro” professore!»
Ricordo ancora queste parole, con cui Lidia accompagnò il regalo, sbattendomi davanti i suoi occhioni scuri che mi facevano girare la testa tutte le volte che li guardavo. Parlava a nome del mio intero staff, cercando di interpretare con il suo fare insinuante da bambina ingenua le emozioni e le frasi di augurio di tutti i miei collaboratori. Aveva organizzato tutto: il regalo, il discorsetto, la festicciola. Faceva da portavoce ed era odiata da tutti. Perché era più furba, più calcolatrice, più spregiudicata, più vincente, più abile.
Perché gli occhioni che mi facevano girare la testa li vedevano tutti, e tutti sapevano che le servivano per ottenere da me piccoli favori, come un turno un po’ più leggero, una partecipazione in più a un congresso, una guardia festiva in meno: la preferenza che si dà alla cocca del maestro. Ma come resistere a quegli occhioni?
E ogni volta che me li spiattellava addosso io ero convinto: “Adesso me la dà”. E invece niente.
Promesse, ammiccamenti, ipotesi di una possibilità: queste erano le armi di Lidia. Una maestra. Una vera maestra. Forse io non ero abbastanza potente per meritare una donazione completa, oppure Lidia aveva capito che era proprio nella promessa mai mantenuta, nello stimolo del desiderio non appagato, che stava la sua forza, la potenza dell’ascendente che aveva su di me. Anche perché non era certo avara nel regalare i suoi favori. Ma se li avesse dati a me, sarebbe stata una delle tante. Invece così aveva un suo essere unica. L’ho aiutata, certo, ma proprio per i languori che mi venivano dalla voglia non sopita, dalla brama non soddisfatta. Dopo anni di vassallaggio nel mio reparto sono riuscito a farla diventare primario di un servizio di Anestesia cardiochirurgica nell’ospedale di ***. Un bel colpo. Soprattutto se si pensa che Lidia non ha mai fatto Cardiochirurgia in vita sua. Ma la ragazza non è una di quelle che si perdono d’animo. S’è inventata un’esperienza che non ha e in medicina l’inventiva può essere un ottimo surrogato della conoscenza. La capacità di curare viene col tempo, e poi qualunque capo appena un po’ lungimirante sa che nel proprio staff c’è sempre qualcuno che sa il mestiere. Basta far fare a lui e il gioco è fatto. Ho saputo in seguito che la brama di carriera di Lidia non s’è fermata lì. Il direttore generale dell’ospedale dove Lidia lavora è riuscito là dove io ho fallito. Sicuramente lui è più potente di me, o probabilmente non gli bastava la speranza inappagata. Sta di fatto che ora il mio ex aiuto è lanciato come non mai. Forse potrebbe anche farmi concorrenza. Forse dovrei cominciare a temerlo. Forse. Se io fossi lo stesso individuo di un mese fa. Ma la storia è cambiata e io, di quella storia là, non faccio più parte. Addio Lidia.
Parlavo del De Chirico che mi osserva dalla parete di fronte: uno dei simboli di quello che è stato il mio successo. Se potesse parlare, chissà cosa direbbe vedendomi adesso, naufrago su questa poltrona, in preda a un terrore che cerco di tenere a bada ripercorrendo il passato. Un passato che riaffiora come il gusto di aglio in bocca.
La fa facile lui, il De Chirico, a osservarmi con la sua prosopopea da opera d’arte. Quando non era che una litografia nello studio del professor Venturi, che sono io, se ne stava lì buono buono sul muro a fare tappezzeria, a fare l’accessorio della mia gloria, l’orpello architettonico del mio successo. E non rompeva i coglioni. Adesso invece mi guarda e mi giudica. Lo so che mi giudica, anzi, peggio, ha pena di me. Come se avesse una piega di disgusto nella cornice e dicesse:
“Poveretto, come è finito!”
Ma cosa ne sa lui! E continua a fissarmi...
È ancora buio e non ho acceso la luce. Quella dei lampioni fuori basta e avanza. Tra poco sarà chiaro. Quel chiaro color grigio topo tendente al marrone tipico del cielo di Milano nelle mattinate uggiose di fine gennaio.
Tra poco inizierà la giornata. Arriverà la gente e il solito quotidiano ricomincerà il suo rito. Arriveranno gli infermieri per preparare le sale operatorie, poi i pazienti, poi i medici, prima gli anestesisti, poi i chirurghi, e via via tutta la gente che giornalmente transita in un blocco operatorio. Chissà chi busserà alla mia porta? Chissà chi dirà, se qualcuno lo dirà:
“Avete visto il professor Venturi?“
E qualcuno lo dirà di sicuro se tra un’ora e mezzo non sarò fuori di qui: ma non sono tanto sicuro di voler uscire. Preferisco sorbirmi lo sguardo compassionevole del De Chirico. Preferisco stare aggrappato alla mia poltrona-zattera. Non ho più la forza di affrontare il mare aperto. Ho troppa paura.
Ma perché sono qui?
Bella domanda.
Risposta numero uno: oggi è un giorno lavorativo. Si opera, e io sono, come tutti i giorni, al mio posto. Ma sono le sei e trenta del mattino! Quando mai mi sono ritrovato nel mio studio alle sei e trenta del mattino? Mai.
La risposta numero uno viene scartata.
Risposta numero due: non so dove altro andare. Questa mi sembra un po’ più calzante. Ma arrivano subito le obiezioni. Ieri sapevo dove andare? E non ho una casa? Oggi è un giorno speciale? Perché oggi alle sei e trenta sono qui e ieri non c’ero? Dov’ero ieri a questa stessa ora? Nel letto di casa mia. E non ce l’ho più quel letto? No, il letto c’è ancora. Mia moglie Giovanna e mio figlio Marco mi hanno buttato fuori? No, anche se non capisco perché.
Forse perché non me lo sono mai chiesto.
Non mi sono mai chiesto tante cose, perché adesso tutte queste domande?
Forse è per questo che mi trovo qui, per farmi delle domande. Il quiz delle sei e trenta! Potrebbe anche essere divertente, ma non mi sembra che riesca a divertirmi molto. È da un po’ che non mi diverto più. Da un mese esatto. Dal 29 dicembre per l’esattezza. Due giorni prima di Capodanno. Anche questo Capodanno non è stato molto piacevole. Non so perché ma mi viene da chiedermi se mi sia mai divertito. E dàlli con tutte queste domande. Riuscissi almeno a procedere con ordine.
Ricominciamo da capo: perché sono qui? Be’, dopotutto sono il primario del servizio di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale ***, uno, detto tra noi, dei più importanti della città. Inoltre sono anche professore all’università. Potrebbe venire spontaneo chiedersi come un essere umano possa dedicarsi anima e corpo a due realtà così fragili e bisognose di attenzioni quali sono i malati e gli studenti, ma questa doppia investitura è nel mio ambiente piuttosto comune; mi chiedo però perché, e soprattutto perché adesso, questa ingordigia di ruoli mi pare così poco consona alla sobrietà che entrambi gli incarichi richiederebbero, dal momento che ho svolto queste attività per anni senza mai pormi il minimo problema, ma non aggiungiamo domande a domande. Insomma, essendo un tipo tutto sommato all’antica, la mattina mi trovo sul posto di lavoro. Perfetto! Ma sono comunque le sei e trenta, e non si inizia prima di un’ora e mezzo...
Dunque è solo una questione di orario? Se uno dei nostri ausiliari, cioè una figura professionale senza particolari requisiti tecnici ma che svolge un lavoro di base indispensabile per fare tutto il resto, mi vedesse adesso in ospedale direbbe:
“Ma guarda il professor Venturi, deve essere caduto dal letto!” proseguendo poi la sua giornata verso il porto sicuro della fine del suo turno. L’indifferenza del Cesare, però, mi permette di modificare la domanda dal “perché sono qui?” al “come mai a quest’ora?”. Diciamo che il peso esistenziale della questione così perde parecchio impatto. O forse mi illudo.
Ma basta! Non facciamola tanto lunga: mi trovo qui alle sei e trenta perché il 29 dicembre è successa quella cosa. Semplice, no?
Mica tanto.
Perché se si chiedesse al Cesare, oppure a qualcuno dei miei collaboratori più qualificati, o al professor Astolfi – il chirurgo che operava nella mia sala operatoria quel giorno –, o a qualunque altro che il 29 dicembre si trovava in questo blocco operatorio, cosa è accaduto, probabilmente non si riuscirebbe comunque a fare chiarezza.
“Perché, cosa è successo?” direbbe il Cesare.
“Una bella sfortuna, ma quando si operano certi pazienti è il ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Si è fatto tutto il possibile
  3. Nota introduttiva - Il problema dei nomi
  4. Si è fatto tutto il possibile
  5. 1. Incipit in studio
  6. 2. Una vita in carriera
  7. 3. Cattivi maestri
  8. 4. Il 29 dicembre
  9. 5. La morte coglie d’improvviso
  10. 6. Quinto, non ammazzare
  11. 7. Casa, dolce casa
  12. 8. Manca un giorno a Capodanno
  13. 9. Anno nuovo
  14. 10. La notte porta consiglio
  15. 11. Corridoio per il patibolo
  16. 12. Tutto scorre
  17. 13. Il domani appartiene a noi
  18. 14. Sabbie mobili
  19. 15. Ritorno a Tara
  20. 16. Una questione coniugale
  21. 17. Una brava persona
  22. 18. Chi trova un amico
  23. 19. Effetto domino
  24. 20. Il vuoto dentro
  25. 21. La luce che si spegne
  26. Ringraziamenti
  27. Copyright