Il pozzo e il pendolo e altri racconti del terrore
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Il pozzo e il pendolo e altri racconti del terrore

  1. 328 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il pozzo e il pendolo e altri racconti del terrore

Informazioni su questo libro

Il meglio delle storie del mistero e del terrore del grande maestro del brivido (1809-49): dodici celebri racconti, tra cui quello che dà il titolo all'intera raccolta, dalle atmosfere torbide e inquietanti e dalle trame allucinanti, ma sempre capaci di penetrare a fondo nell'animo umano.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804623557
eBook ISBN
9788852030635

La rovina della casa degli Usher

Son cœur est un luth suspendu;
Sitôt qu’on le touche il résonne.
DE BÉRANGER
Per tutta una fosca giornata, oscura e sorda, d’autunno, col cielo greve e basso di nuvole, avevo cavalcato da solo traverso a una campagna singolarmente lugubre fino a che mi trovai, mentre già cadeva l’ombra della sera, in vista della malinconica casa degli Usher. Non so come, ma appena l’ebbi guardata una sensazione d’insopportabile tristezza mi prese l’anima. Insopportabile, dico, già che non le si univa il sentimento poetico e perciò quasi piacevole che accompagna in genere le immagini naturali anche quando siano le più cupe della desolazione e del terrore. Guardavo la scena che mi stava davanti: e lo spettacolo della casa e del paesaggio all’intorno, le fredde mura, le finestre come vuote orbite, i radi filari di giunchi e alcuni bianchi tronchi risecchiti, mi davano un avvilimento così estremo che potrei paragonarlo soltanto allo stato del mangiatore d’oppio durante l’amaro ritorno alla realtà quotidiana, l’orribile momento in cui il velo dilegua. Era un gelo nel cuore; e una oppressione, un malessere, e nella mente un invincibile orrore, che la rendeva inerte ad ogni stimolo della fantasia. Che cosa, dunque, mi soffermai a pensare, rendeva tanto penosa la contemplazione della casa degli Usher? Ma rimaneva un mistero insolubile; né io riuscivo ad aver ragione delle ubbie tenebrose che mi si affollavano dentro mentre riflettevo. E fui costretto a ritrarmi sulla conclusione poco soddisfacente che esistono combinazioni di oggetti naturali e semplicissimi che hanno potere di rattristarci fino a un tal punto, ancorché l’analisi di questo potere dipenda da considerazioni troppo profonde rispetto a noi. Pensavo che forse una qualsiasi differenza nella disposizione degli elementi della scena, dei particolari del quadro, sarebbe bastata a modificare o persino forse a distruggere tanta forza di dolorosa impressione; spinto da questo pensiero, condussi il cavallo sulla riva scoscesa d’un lugubre stagno d’acque morte che si stendeva, nel suo nero luccicore, presso la dimora; e guardai, ma ne ebbi un tremito ancora più profondo; guardai, riflesse, capovolte, le immagini dei giunchi di cenere, dei tronchi sinistri e delle finestre simili ad occhi vuoti.
Era in questo soggiorno di malinconia, che io mi disponevo nondimeno a vivere per qualche tempo. Il proprietario, Roderick Usher, era stato fra i più cari compagni della mia infanzia, sebbene parecchi anni fossero trascorsi dall’ultimo nostro incontro. E tuttavia, una lettera mi aveva ultimamente raggiunto in una lontana regione del paese, una lettera di lui, il disperato tono della quale non ammetteva altra risposta che la mia presenza. La calligrafia palesava una agitazione nervosa. Ed Usher mi parlava di una acuta malattia fisica, d’uno squilibrio mentale che l’opprimeva, e d’un ardente desiderio di vedermi, chiamandomi il suo migliore ed anzi unico amico; nella gioia della mia presenza, sperava trovare qualche sollievo al suo male. Fu il tono di queste parole e di molte altre ancora, fu la profusione di cuore che accompagnava questa preghiera, a non concedermi modo di esitare; e senz’altro obbedii, pur meravigliandomene, come d’un ordine singolare.
Nonostante l’intimità che ci aveva uniti da ragazzi io sapevo ben poco del mio amico. Egli aveva mantenuto, d’abitudine, un eccessivo riserbo. Mi era noto tuttavia che la sua famiglia antichissima si era distinta da tempo immemorabile, per il temperamento d’una speciale sensibilità dispiegato, attraverso i secoli, in opere d’arte elevata, e, da ultimo, in ripetuti atti d’una generosa quanto discreta carità, come nella vocazione appassionata per i labirinti della scienza musicale (più, forse, che per le sue ortodosse e facilmente riconoscibili bellezze). Avevo appreso anche che dal tronco tanto glorioso dell’antica razza degli Usher non erano sorti mai durevoli rami; che, in altre parole, a parte qualche effimera eccezione, l’intera famiglia si era perpetuata nella pura sua discendenza diretta. Era stata questa mancanza, pensavo, e intanto fantasticavo sul perfetto combaciare del carattere del luogo con quello ben noto della razza, e riflettevo sull’influenza che in tanti secoli l’uno poteva aver esercitato sull’altro; era stata forse questa mancanza di deviazione collaterale e la conseguente trasmissione continua di padre in figlio dell’eredità del patrimonio e del nome, a identificarli l’uno nell’altro fino a trasformare il titolo originario della proprietà nell’equivoco e strano appellativo di “casa degli Usher”, l’appellativo che, per la rustica gente del luogo, sembrava comprendere insieme la famiglia e la sua dimora.
Ho detto che il mio atto abbastanza infantile, di guardare giù nello stagno, aveva avuto per sola conseguenza d’approfondire la prima, singolare impressione. E certo la coscienza del rapido intensificarsi della mia superstizione – perché la chiamerei altrimenti? – ne era stato in qualche modo l’agente principale. Questa, lo sapevo da tempo, è la regola paradossale di tutti i sentimenti che hanno alla loro base il terrore. E forse soltanto per questo, quando sollevai di nuovo lo sguardo dal riflesso nello stagno verso la casa, subii una bizzarra immaginazione, così ridicola, davvero, che ne parlo soltanto per mostrar l’impeto delle sensazioni che m’opprimevano. La mia fantasia era così eccitata che credetti di notare intorno alla proprietà un’atmosfera particolare, “sua” e degli immediati dintorni, un’atmosfera diversa da quella del cielo, ma che esalavano gli alberi intristiti, e la muraglia grigia e la silenziosa palude, una vaporosità pestilenziale e mistica, appena visibile ma fosca, inerte e color di piombo.
Respingendo da me quel che doveva essere stato un sogno, cercai d’esaminar meglio l’aspetto reale dell’edificio. Carattere principale ne pareva un’eccessiva antichità. I secoli l’avevano profondamente scolorito, e minute fungosità ricoprivano la facciata, fino al tetto, come un delicato intreccio di tessuto. Ma tutto questo non aveva provocato deperimenti straordinari; la fabbrica era intatta, e c’era una contraddizione violenta fra il consistere ancora perfetto delle sue parti e il deperimento delle singole pietre, che mi faceva pensare all’integrità speciosa di qualche vecchia tavola di legno rimasta lungamente a marcire in una cantina dimenticata, lontano dall’aria esterna. Ma, a parte questa corrosione di tutta la superficie, la casa pareva ancora abbastanza salda; forse l’occhio d’un puntuale osservatore avrebbe scoperto una quasi impercettibile fessura, che, partendo dall’alto della facciata, percorreva il muro a zig-zag perdendosi infine nelle acque malsane della palude.
Sempre osservando queste cose, avevo cavalcato lungo il rialzo che portava alla casa. Qui il guardiano mi prese il cavallo; e passai sotto l’arco gotico dell’androne. Un servo dal passo furtivo mi guidò allora, in silenzio, per corridoi bui e intricati verso lo studio del padrone. Molto di quel che incontravo per via valeva, non so come, a rafforzare le oscure impressioni di prima; sebbene le cose fra cui passavo – i foschi arazzi alle pareti, i pavimenti color d’ebano, e gli intarsi dei soffitti, e i trofei fantasmagorici le cui armature rumoreggiavano dietro i miei passi – fossero ancora quelle, o simili a quelle cui io ero abituato dall’infanzia; sebbene non esitassi a riconoscerle per tali, esse destavano in me immagini che non mi erano affatto familiari, e io me ne stupivo. Lungo una scala, incontrai il medico di casa; mi parve che la sua fisionomia esprimesse un misto di bassa malignità e di timore. M’incrociò con evidente trepidazione, e passò oltre; il domestico, in quel punto, aprì una porta e mi introdusse.
Mi trovai in una stanza dall’alto soffitto e ampissima. Le lunghe finestre gotiche erano così alte, sul nero pavimento di quercia, da divenir assolutamente inaccessibili. E la debole luce cremisi che traversava i vetri ingraticciati bastava appena a lasciar distinguere gli oggetti principali; gli occhi si sarebbero sforzati invano di raggiungere i lontani angoli della stanza, o i recessi della volta intagliata. Oscuri arazzi ricoprivano le pareti; c’era una profusione di mobilio, antico, ingombrante, logoro e sparsi ovunque libri e strumenti musicali che non riuscivano ad animare la scena. Mi accorgevo di respirare un’aria di pena: un’aria di buia malinconia, profonda e irredimibile che sovrastava, e pervadeva tutto.
Usher, al mio ingresso, lasciò il sofà sul quale era sdraiato, e mi venne incontro con una calda vivacità che mi parve, al primo momento, fatta d’enfasi esagerata con qualche sforzo, per adempiere i noiosi doveri d’un uomo di mondo. Ma bastò che guardassi il suo volto, per convincermi della sua completa sincerità. Ci sedemmo; e, per qualche istante, siccome egli taceva, lo contemplai con un senso di spavento e di pietà. Certo, in un periodo tanto breve, nessun uomo aveva subito mai cambiamento terribile come questo di Roderick Usher! Potevo a stento persuadermi dell’identità di questo spettro che stava davanti a me, con il compagno della mia infanzia; pure, il suo viso aveva sempre avuto caratteristiche singolari. Il pallore eccezionale, gli occhi ampi e liquidi, pieni di luce, le labbra esangui e piuttosto sottili, ma meravigliosamente disegnate; il naso affilato e lievemente ricurvo, dalle narici stranamente larghe per la sua forma; il mento modellato con delicatezza, e che tradiva, con la sua scarsa prominenza, un difetto di volontà; i capelli morbidi e fini, tutto questo, cui si aggiungeva l’enorme ampiezza della fronte, formava una fisionomia che non era facile dimenticare.
Ma, ora, un cambiamento così intenso vi era stato portato dall’accentuarsi eccessivo di quelle caratteristiche, che io non sapevo quasi a quale persona parlassi. Ora, la pallidezza da fantasma del volto, e il sorprendente splendore dello sguardo mi colpivano in modo speciale; e mi mettevano paura. Inoltre egli aveva lasciato che i suoi capelli sottili crescessero a piacer loro; vedendoli spumeggiare intorno al suo viso in mille fili selvaggi io non potevo, nonostante ogni sforzo, riferire questa strana immagine d’arabesco a una qualunque idea di semplice umanità.
Avvertii subito nel contegno del mio amico qualche cosa d’incoerente, ossia d’inconsistente e mi accorsi presto come provenisse dal continuo tentativo, debole e senza speranza, di sormontare un’abituale trepidazione, un eccesso di agitazione nervosa. Mi ci aveva del resto preparato, non solo la sua lettera, ma anche il ricordo di certi momenti della sua infanzia; e tutto quanto si poteva dedurre dalla sua peculiare conformazione fisica e dal temperamento. Nel contegno di Usher si erano sempre alternate vivacità e debolezza; la voce che si perdeva sovente in un tremito d’indecisione (e, allora, pareva che gli spiriti vitali fossero del tutto scomparsi), saliva rapidamente a un tono di concisione energica, a una pronuncia acuta e dura, compatta e insieme vuota, a quell’articolazione gutturale ma perfettamente modulata, che si osserva nei più disperati bevitori e negli oppiomani incorreggibili durante i loro più intensi periodi d’eccitazione.
Fu dunque così che egli m’intrattenne intorno alle ragioni della mia visita, il desiderio ardente che aveva di vedermi, e il conforto che sperava di trovare in me. Abbastanza a lungo, parlò di quel che costituiva secondo lui la natura del suo male. Si trattava, secondo le sue parole, d’una ancestrale irrimediabile malattia; no, d’una semplice affezione nervosa, egli aggiunse immediatamente; che sarebbe certo scomparsa tra poco. Essa si manifestava con una moltitudine di sensazioni anormali; mentre me le citava, più d’una riuscì a interessarmi e a turbarmi; ma forse c’entrò molto il tono delle parole. Lo tormentava una morbosa acutezza dei sensi. Soltanto i cibi privi quasi di sapore gli riusciva di tollerare; soltanto di certe stoffe, si poteva vestire; il profumo dei fiori lo soffocava; gli occhi si sentiva torturati dalla più debole luce; ed ogni musica, salvo certi suoni degli strumenti a corda, gli dava orrore.
Capii che era lo schiavo impotente d’una strana forma di terrore. «Finirò per morire;» mi disse «io devo morire, di questa maledetta pazzia. Finirò così, così e non altrimenti. Se ho paura di quel che sta per venire, non è altro che per i suoi effetti su di me. Mi dà i brividi, pensare alle conseguenze che un qualsiasi incidente, anche il più banale, può avere su questa agitazione tremenda della mia anima. Davvero, non provo orrore del pericolo che per la sua conseguenza sicura: il terrore. Sento che in questo mio triste stato, in questo stato d’impotenza, vado incontro presto o tardi al momento che la vita e la ragione mi abbandoneranno allo stesso tempo, nel mentre si dibattono contro il sinistro spettro, la PAURA
Appresi anche, per intervalli, e traverso confidenze rotte ed ambigue, un altro strano aspetto della sua situazione morale. Si sentiva incatenato a impressioni superstiziose riguardanti la sua dimora, dalla quale non osava uscire da molti anni – riguardanti un influsso della cui presunta potenza egli parlò con parole troppo tenebrose perché io le possa riportare qui; un influsso ch’erano riusciti ad ottenere su di lui, per via di lunghe sofferenze, talune caratteristiche della forma e della materia stessa della dimora avita; un influsso esercitato a poco a poco, sulla sua esistenza morale, dal fisico delle torri e dei muri grigi e della nera palude che li rifletteva.
Esitando, egli ammetteva tuttavia che gran parte della sua singolare tristezza proveniva da un’origine più naturale e molto più semplice; dalla malattia lunga ed aspra, anzi, dall’evidente avvicinarsi della morte di una sorella adorata, sua sola compagna per molti anni, sua sola parente ormai sulla terra. «La morte di lei» egli proseguì con un’amarezza che non dimenticherò più «mi farà l’ultimo dell’antica razza degli Usher: resterò solo io, così fragile e disperato!» Mentre parlava, lady Madeline (poiché questo era il suo nome) lentamente passò per il fondo della stanza e sparì senza darmi segno d’essersi accorta di me. Mi suscitò uno stupore estremo, e paura: non riuscii però nemmeno a rendermi conto di queste sensazioni. Un’atmosfera di sbalordimento m’opprimeva intanto che i suoi passi si allontanavano. Allorché, infine, una porta si fu richiusa dietro di lei, il mio sguardo cercò con ansia istintiva lo sguardo del fratello; ma egli aveva seppellito il viso tra le mani, e potei soltanto vedere che una bianchezza anormale gli aveva preso le dita smagrite ed umide di lagrime.
La malattia di lady Madeline si faceva gioco da tempo della scienza dei medici. Le strane sue caratteristiche consistevano nell’ostinata apatia, nel progressivo sfinimento del fisico, rotti da crisi rapide e frequenti di semicatalessi. Fino allora ella aveva portato il suo peso con fermezza, e neppur si era rassegnata a restare a letto; ma, sulla fine della mia prima serata nella casa, bisognò che cedesse (così m’informò durante la notte e con immensa agitazione il fratello) alla potenza del male; seppi che probabilmente non sarebbe più apparsa al mio sguardo, che, almeno vivente, non l’avrei più riveduta.
Né Usher né io per alcuni giorni pronunciammo il suo nome; in questo periodo non risparmiai sforzi per confortare il mio amico; e leggevamo o dipingevamo, e ascoltavo talvolta, come dentro un sogno, le sfrenate e suggestive sue improvvisazioni colla chitarra.
Meglio la nostra crescente intimità mi permetteva d’entrare nel fondo della sua anima, e meglio potevo comprendere quanto amaramente inutili fossero tutti gli sfor...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il pozzo e il pendolo e altri racconti del terrore
  3. Metzengerstein
  4. Manoscritto trovato in una bottiglia
  5. L’appuntamento
  6. Berenice
  7. Morella
  8. Ombra
  9. Silenzio
  10. Ligeia
  11. La rovina della casa degli Usher
  12. William Wilson
  13. L’uomo della folla
  14. Una discesa nel Maelstrom
  15. Eleonora
  16. Il ritratto ovale
  17. La maschera della Morte Rossa
  18. Il pozzo e il pendolo
  19. Il cuore rivelatore
  20. Il gatto nero
  21. La cassa oblunga
  22. Il seppellimento prematuro
  23. Il demone della perversità
  24. La verità sul caso di mister Valdemar
  25. La botte di Amontillado
  26. Hop-Frog
  27. Postfazione - di Willa Cather
  28. Edgar Allan Poe
  29. Copyright