Albero genealogico complesso, quello dei Gassmann. Con due enne, come è riportato sui nostri documenti. Papà ne tolse una perché faceva più attore e meno tedesco, e perché così semplificava la vita ai romani che ai primi provini lo chiamavano “Sgama”. Io lo scrivo con una enne quando parlo di lui come personaggio pubblico, con due quando intendo l’uomo.
Prima di me aveva già avuto due figlie da due mogli diverse: la prima, Paola, nata dal suo matrimonio con Nora Ricci, la seconda, Vittoria, nata dal suo matrimonio con Shelley Winters. Nora era una donna intelligente, affascinante, spiritosa, discendente da una dinastia di teatranti. Figlia del grande attore Renzo Ricci e nipote del maestro Ermete Zacconi, del quale mio padre raccontava aneddoti strepitosi.
Durante una tournée del Maestro Zacconi, credo a Livorno, gli attori non ancora pagati, dopo due settimane in scena cominciarono ad avere fame e lui rispose: «E che problema c’è? C’è il mare, c’è il pesce...». Insomma, si dovevano arrangiare pescando. Quando oggi noi teatranti ci lamentiamo di come vanno le cose, questo episodio lo prendo come esempio. Ai miei dico: «È sempre meglio che andare a lavorare, no?». Mio padre ci ricordava sempre che siamo dei privilegiati. La sua frase tipica era: «Finché ce lo fanno fare».
Il Maestro Zacconi aveva un segretario anziano, accanto a lui da una vita, con la barba folta e bianca, che sul letto di morte gli si avvicinò e bisbigliò: «Maestro, non ci lasci». Il Maestro spalancò gli occhi e rispose: «Eccomi Padre, sono pronto», scambiandolo per Dio. O perlomeno questa è la mitologia teatrale che in casa si tramandava. Era un’epoca romantica, che manca moltissimo, una di quelle cose di cui hai nostalgia pur non avendola mai vissuta. Ed è vero che mio padre in seguito si accoppiò gioiosamente alla frivolezza delle tante soubrettine; ma all’inizio, appena ventenne, gli capitò anche di subire attenzioni indesiderate, venendo ripetutamente convocato in camerino da una vecchia e nota attrice mentre lei era genitalmente impegnata in un bidet. Quando si dice condividere proprio tutto.
Con mia sorella Paola ho un rapporto molto piacevole, lei è colta e raffinata, completamente diversa da me. Lei è il teatro, perfetta dizione e grande tecnica, il cinema e il resto non la interessano. È una persona davvero perbene, non si scompone, non eccede, non trascende, una borghese perfetta, ed è stata così sin dalla nascita. Era lei la saggia del gruppo, lo è stata a qualsiasi età: anche mio padre la considerava più giudiziosa di lui. Professionalmente nutriva per lei “una enorme stima e persino una vaga soggezione”. Frequentare lei e suo marito Ugo è la garanzia che non succederà nulla di sgradevole.
Quest’anno sono fiero di aver prodotto per la prima volta un suo spettacolo, con Pagliai appunto, dal titolo Wordstars, sugli ultimi giorni di vita di Samuel Beckett, dove Paola si lascia andare addirittura alla comicità. Fa la parte di una moglie morta e cornuta, chiusa prima nel frigo e poi nell’armadio, ed è fenomenale in quel ruolo grottesco. È sorprendente per il pubblico, non lo è per me. Io l’avevo sempre immaginata così, e mio padre l’aveva già utilizzata in questo modo a teatro in Quattro risate in famiglia. Credo che, anche se con molte differenze, il percorso che ha compiuto con papà somigli per certi versi a quello che io ho fatto con mia madre.
Si sono incontrati tardi, ma si sono incontrati. Vittorio scriveva nel suo Un grande avvenire dietro le spalle: “La mia distratta paternità dei primi anni mi ha impedito di fissare i dettagli della sua crescita, non ho visto spuntare il suo primo dentino, non c’ero quando andò il primo giorno a scuola, e in troppe altre occasioni. L’ho recuperata quando era già una giovane donna, abbiamo fatto a tempo per diventare sempre più amici ed è certo la persona di tutta la famiglia a cui ricorrerei in un momento di crisi, a cui affiderei un segreto o un compito delicato, ma ho scoperto che anche lei ha i suoi vuoti e una grande fame di affetto. Da allora, quando le faccio una carezza, è per cercare di dirle che può contare sul mio”.
Shelley Winters l’ho conosciuta quando ha recitato nel ruolo di se stessa, come insegnante dell’Actor’s Studio nel film La bomba, che è anche l’ultimo a cui partecipò mio padre. Attrice memorabile in Incontro al Central Park, Il diario di Anna Frank, Il grande Gatsby, Un posto al sole, L’inquilino al terzo piano, Lolita di Kubrick. Purtroppo io l’ho incontrata tardi, depressa, ingrassata, non proprio il vitino di vespa che aveva stregato papà fino a farlo emigrare in America, tuttavia una donna ancora molto divertente. Veniva a casa, mangiava, beveva e poi si stravaccava sul divano e russava fregandosene di tutto e tutti. Si sposarono a Juarez, in Messico, e si lasciarono a breve, ufficializzando il fatto in Italia con una assurda, o meglio ingenua, conferenza stampa: lei gli dava dell’egoista immaturo che la tradiva con una ragazzina, lui la rimproverava di essere gelosa, ossessivamente possessiva e di attaccarsi a una storia ormai irrecuperabile. A dimostrazione che la bufera era superata, Shelley in camerino tentò di colpire con le forbici la nuova fiamma di papà.
Dalla loro unione intanto era nata Vittoria, la mia sorellastra americana, un’altra capocciona. Bilaureata ad Harvard, prima in Lettere, poi in Medicina. Vive in Connecticut con Bob e ha due figli, curiosamente il più grande si chiama Ari, che in ebraico è Leo, come mio figlio. Ci vediamo poco, ma qualche anno fa abbiamo organizzato una vacanza insieme in Sardegna, dividendo una villetta bifamiliare. La sua famiglia non mangia maiale in quanto ebrea e siamo andati una sera a cena in un posto dove la specialità era “su porceddu”. Lo ordinai e le spiegai cosa fosse, tanto suo marito non capiva l’italiano. Vittoria non resistette e mi chiese di farglielo assaggiare di nascosto. Buonissimo. Una prelibatezza. Lui ci beccò e ci chiese cosa stessimo mangiando. «Coniglio» risposi per salvarla. Al che Bob si incuriosì e me ne chiese un pezzo. Cercai di dissuaderlo: «Guarda che è un po’ pesante». Lui insistette e disgraziatamente impazzì per il sapore. Per tre settimane ha ordinato solo quello. Chiedeva al cameriere: «For me Porceddu, thanks» credendo di chiedere del coniglio. È strano come, nonostante passino gli anni, in famiglia io rimanga il teppistello bugiardo che combina casini. Mio padre mi ha dato un unico vero consiglio: «Nella vita fai quello che ti pare, ma fallo bene». E io sono sempre stato il figlio che non studiava, ho cambiato tutte le scuole di Roma, quello lo facevo bene. Facevo sega a scuola con la stessa creativa impudenza di Totti col pallone. Ero il giullare di casa che faceva ridere papà. Papà – proprio lui che fino a quarant’anni era stato un mentitore cronico – si meravigliava che io inventassi anche sulle cose più inutili. Ho sempre raccontato fandonie, ma a fin di bene. Se una cosa faceva ridere o destava attenzione, la romanzavo a oltranza. Ricordo che da ragazzino ero in viaggio-studio a Dublino e alla famiglia che mi ospitava spiegai che l’Italia era attaccata all’Africa più di quanto pensassero, e che avevamo grandi coltivazioni di noci di cocco. Famosissime erano quelle romane.
Dopo di me venne al mondo Jacopo, figlio di mio padre e di Diletta D’Andrea, la sua donna definitiva. Fu una vertigine di vita per Vittorio. Noi eravamo già tutti grandi e non c’era motivo di esserne gelosi. Jacopo è il mio fratellino, abbiamo un rapporto molto fisico, di affettuoso stritolamento e a volte mi sento in colpa per non essergli abbastanza vicino. Fa il regista con buoni risultati, parla cinque lingue, è un grande lettore, forse anche più di mio padre, e quando cerco testi interessanti da rappresentare chiedo a lui, faccio prima che a consultare una biblioteca.
Diletta a sua volta aveva già avuto un figlio da Luciano Salce, Emanuele, al quale sono molto affezionato. Ho convissuto con lui fino alla maggiore età e tra noi c’è stato un approccio duro e conflittuale ma allo stesso tempo pieno di gentilezze e di affetti non esternati. È una di quelle persone, di quelle poche persone, per le quali sarei pronto a fare di tutto sapendolo nei guai, come quando un antico nemico diventa il vero buono, l’eroe salvatore, come capita soltanto nei film. Oramai gli scontri dell’adolescenza sono passati e rimangono i ricordi delle nostre avventure giovanili, però continua a esserci una strana resistenza tra noi due, come se volessimo ancora dimostrare l’uno all’altro di essere diventati uomini. Lui mi ricorda il periodo della scuola, dove nessuno dei due brillava particolarmente, e che ci obbligava a orari e amicizie comuni. Sono più grande di lui di un anno e mezzo, ma Emanuele mi ha preceduto e ha preso la patente prima di me. Ha sempre avuto una grinta superiore alla mia, una concentrazione che mi impressionava, contrastata però da una fantasia forse volutamente meno sviluppata della mia. O semplicemente io mi so vendere meglio. Mi ricordo di una piccola avventura che vivemmo insieme da piccoli, durante una vacanza a Cortina. Era mattina presto, mio padre e Diletta dormivano ancora, e noi decidemmo di uscire per una passeggiata sulla neve che quell’anno era abbondante. Ci trovammo in breve tempo lontani da casa, in un bosco fitto, dove spesso andavamo a giocare coi nostri amici. Continuammo a salire per una decina di minuti fino a quando arrivammo a una casa in costruzione. Entrammo. Le stanze c’erano già, anche il bagno aveva già tutto, e decidemmo di approfittarne. Mi calai i pantaloni e iniziai a fare il mio bisogno. Intanto Emanuele chiuse la porta che dava sul corridoio. Il bagno era privo di finestre e pregai mio fratello, così ho sempre chiamato Emanuele, di aprire la porta per far entrare un po’ di luce. Era bloccata. Appena realizzammo la gravità della situazione, cominciammo a battere contro l’uscio nel tentativo di smuoverlo, staccammo parti del bagno per usarle come strumenti da sfondamento, ma niente. Resisteva inesorabile. Fummo presi dalla disperazione. Emanuele scoppiò in lacrime e io, in un attimo di responsabilità da fratello maggiore che sa quali carte giocare per quella partita difficile, gli dissi di smetterla, cosa che lui fece. Fu un breve bluff, avevo le carte sbagliate per la partita da giocare. Ero assolutamente impreparato a ciò che stava accadendo. Crollai. E alcuni istanti dopo fui io che iniziai a piangere, a frignare più forte di lui, trascinando di nuovo anche Emanuele nella più cupa e vergognosa disperazione infantile. Gridammo credo almeno per tre ore, nella speranza che qualcuno ci sentisse. In quei momenti il nostro terrore più nero era di arrivare in ritardo a casa per il pranzo ed essere sgridati da mio padre, che in quel periodo, come ogni volta che era in vacanza, non era dell’umore più chiaro. Era inflessibile sulla puntualità dei pasti. Alla fine ci vennero ad aprire i muratori e noi scappammo senza nemmeno ringraziarli per paura che si accorgessero che avevamo distrutto tutto. Ci gettammo a capofitto giù per la vallata, ruzzolando nella neve fresca come cerbiatti impazziti, e arrivammo a casa che i nostri genitori non si erano ancora svegliati. Due veri eroi. Fu il nostro segreto. Uno dei tanti, avendo diviso la stessa stanza per molti anni. A tre anni, la prima volta che incontrò mio padre, Emanuele gli mollò un calcio negli stinchi. Tanto per spiegargli cosa lo avrebbe aspettato.
E lui, Vittorio, descriveva il loro rapporto come un lungo combattimento, in cui entrambi avevano sofferto dure perdite: “Emanuele mi ha amato e respinto, provocato e mitizzato. Quando siamo soli la lotta si ribalta in interesse e stima reciproca, riprende quando c’è con noi altra gente, divampa alla presenza di Diletta, che è in un certo qual modo il nostro campo di battaglia, la preda disputata fra il capo anziano e il giovane aspirante alla guida del branco”.
Papà era sollevato del fatto che io ed Emanuele fossimo complici, avessimo un codice di comunicazione che escludeva gli altri e ci consentiva di costruire e descrivere un mondo nostro; allo stesso tempo soffriva perché si sentiva estromesso, avrebbe voluto battere la nostra lingua cifrata, svelarla e sondare i nostri segreti. Allora si chiedeva: “Ma... scopano i ragazzi? E molto, e bene, dove, in quali orari? Da mio figlio Alessandro, e dal figlio di Diletta, Emanuele, non ricevo molti lumi. Rifiutano certi dialoghi, d’altronde, si sa, il peggior metodo per un genitore è di essere inquirente o indelicato. Ci rumino sopra, però. Parte del mio attuale esaurimento nervoso deriva da questa impotenza a comunicare coi figli. Allora tento il sistema analogico, avvio qualche discorso sulle mie esperienze da giovane, ammiccando con l’occhietto furbo come a dire che ‘fra uomini certe cose si raccontano volentieri, no?’. Niente, silenzio di tomba, risolini di sufficienza. Va bene, tenetevi i vostri segreti sulla scoperta della topa e andate al diavolo”. Papà si chiedeva in questo modo se i miei silenzi fossero caratteriali o imputabili a un’infanzia assai particolare, del quale si sentiva responsabile. Se lo chiedeva, ma non lo chiedeva a me.
Io e Emanuele ci siamo persi, poi ritrovati. È preparato, ha fatto varie cose, dal paracadutista all’aiuto-regista e poi ha trovato la sua strada, si è come stappato. Nel mio spettacolo teatrale La parola ai giurati mi mancava un battutaro e pensai a lui. Siccome sulla carta si trattava di un ruolo marginale, quasi temevo si offendesse. Invece accettò e con la sua intelligenza riuscì a ritagliarsi sempre più spazio, finché non diventò il motore comico dello spettacolo. Poi ha scritto e interpretato Mumble Mumble dove parla del rapporto coi suoi due padri, Salce e Gassmann, e dove esce fuori l’umorismo sottile ereditato da Luciano, una delle nostre menti più raffinate, cinico fino a farsi male, oltre che, in pochi lo sanno, ottimo chitarrista. Anche lì la vicenda è intricata. Luciano e Vittorio erano amici d’infanzia, sono cresciuti insieme, poi Salce ha sposato Diletta, e alla fine pure mio padre l’ha sposata. Da piccoli Vittorio e Diletta vivevano nello stesso palazzo: lui era già noto, un attore di successo, lei una ragazzina che lo spiava dalla finestra.
Diletta per me è stata una seconda madre. Vera. Passionale. Autentica. Motivo per cui abbiamo litigato spesso. Perché, essendo molto chioccia e protettiva, tende a mantenere immutata la percezione affettuosa delle persone che ha visto amorevolmente crescere, condannandole alla condizione di eterni bambini. Mi considera un figlio a tutti gli effetti e questa passione materna mi lusinga, anche se si è occupata meno di me che dei suoi figli veri. E questo non è affatto un rimprovero, anzi per me è stato un vero vantaggio perché non sono abituato a una madre così madre. Ho necessità di una forte indipendenza, in stile Mayniel. Ho molto rispetto per Diletta e per la sua generosa opera di cuscinetto nel nostro intreccio familiare. È stata incredibilmente brava a tenere i rapporti distesi con tutte le ex di mio padre. Non poche e non facili. Donna solida, forte, accogliente. Si è sobbarcata l’organizzazione di una famiglia così complessa, lavorando con l’abilità strategica di un vero diplomatico. Ci vuole molta pazienza a tollerare uno come me: io perdo le staffe, pretendo di avere ragione, sono aggressivo, e fragile, divento insopportabile.
I Gassmann sono davvero tanti e tutti diversi. Eppure mi sembra di notare un tratto comune, oltre alla sensibilità artistica e quel taglio asiatico degli occhi tutto nostro. Siamo chiusi e contemplativi, nessuno di noi è un vero estroverso. Ad esempio io, Vittoria e Jacopo odiamo tutti e tre le feste. Avevo dodici anni e chiesi a mia madre per regalo di compleanno di non invitare mai più gli amichetti a casa e di non farmi la torta. A dieci anni, mi pare, innervosito da alcuni compagni che si divertivano a toccare i miei giocattoli nuovi, mi chiusi disperato nella mia stanza per poi uscirne pochi minuti dopo paonazzo e con un manganello di quelli che si comprano a Carnevale, picchiando chiunque mi capitasse a tiro. Non so perché avessi questi eccessi d’ira. Forse l’emozione dei regali, la preparazione alla festa, la vista dei dolci, tutto quell’essere al centro dell’attenzione, quell’esibizionismo, mi scatenavano un sentimento violento anche verso il mio amico migliore.
Jacopo, rispetto a tutti noi fratelli e sorelle, è stato un privilegiato. O almeno così scriveva mio padre nella sua biografia, in quanto era “l’unico a vivere infanzia e adolescenza con la rassicurante certezza che i suoi genitori si amano e non si separeranno mai”. Non so se il conforto di questa consapevolezza l’abbia reso davvero un privilegiato.
Certo ha goduto dell’immagine stabile della coppia dei genitori, e questa per un figlio è sempre una gioia. Quando manca questa serenità confortevole può capitare, come è capitato a me, di volerla poi riprodurre in proprio, colmando le lacune; infatti io, al contrario di papà, sono rigorosamente monogamico e faccio i salti mortali, guidando per centinaia di chilometri quando sono in tournée, pur di tornare a casa ed essere al fianco di mia moglie Sabrina e di mio figlio Leo.
Però c’è da dire che Jacopo ha anche vissuto il periodo più instabile di mio padre, la sua umoralità, il suo malessere, ha conosciuto profondamente questo genitore anomalo durante la sua nevrotica depressione e mi permetto di credere che non sia stato così facile avere a che fare con un padre così.
Io e Vittoria da piccolissimi sviluppammo un’ovvia e leggendaria mitologia per la figura di papà. Lei perché viveva in America, io perché nella prima fase stavo più con mia m...