
- 368 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Al centro della poetica di Mauro Corona c'è il legame indissolubile tra l'uomo e la natura. Legame che le abitudini di vita metropolitane sembrano negare, ma che non può sfuggire all'uomo dei boschi e delle montagne, abituato ad ascoltare i racconti delle rocce su cui arrampica, del legno che intaglia, dello stormire degli alberi e delle orme degli animali. Abituato a guardare le creature del bosco negli occhi. Perché il bosco è magico, ha i suoi mille occhi e le sue mille voci. Bisogna essere persone speciali per saperle ascoltare. Mauro Corona proprio da quegli occhi e da quelle voci ha raccolto le storie di quando il mondo era giovane, la puzzola vanitosa, il riccio liscio e il ghiro insonne... fino ad arrivare a capire che molto meglio degli uomini gli animali conoscono il mistero della vita e della morte. E possono insegnarcelo. Un volume che raccoglie due amatissimi libri di Corona - "Cani, camosci, cuculi (e un corvo)" e "Storie del bosco antico" - e che vive del respiro delle creature, offrendo il ritratto di un mondo duro e poetico, animato di una sapienza antica e indispensabile.
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Informazioni
Print ISBN
9788804620891eBook ISBN
9788852027284Secondo quaderno
Inizio questo quaderno il 5 luglio 2006. Fuori piove, giornata giusta da scribacchiare. Ho acceso la stufa per l’umidità . Si ha la sensazione che l’estate sia bell’e finita, e questo non rallegra lo spirito. Ma si tira avanti lo stesso, del resto cosa si può fare? Andare all’osteria sarebbe una buona soluzione ma non aiuta a scrivere. A differenza di grandi autori del passato (Roth, Pessoa, Hemingway eccetera) io non riesco a scrivere una sola parola da ubriaco. Riesco solo a fare casini, quando ho bevuto, qualche volta anche casini seri.
Michelangelo e la Duna
Circa quindici anni fa avevo un pastore tedesco di nome Michelangelo. Morì molto vecchio la notte di Natale. Prima di morire mi chiamò con un brontolio. Pareva il solito saluto, credevo stesse bene. Invece mi leccò una mano, s’accasciò e spirò. Fu il suo ultimo augurio di Natale. Aveva quindici anni. Furono quindici anni di vita insieme. Si andava nei boschi a camminare, correre, fare legna o semplicemente a vagare per la montagna.
In casa dormiva accanto a me su una vecchia poltrona consunta, regalatami dal vecchio Ottavio espressamente per il cane. A quei tempi vivevo di scultura e non nuotavo certo nell’oro. Oggi la situazione è migliorata ma allora, con tre figli piccoli, affitto, luce, telefono, gasolio e tutte le spese di chi tiene famiglia, campare era assai duro. Nonostante le ristrettezze economiche, ero riuscito a comprarmi la Fiat Uno di seconda mano, che però sfasciai di lì a poco causa una sbronza epica. Piuttosto abbacchiato andai dall’amico Sante Lorenzi, carrozziere di Claut, ché mi trovasse un catorcio per tirare avanti. Il cane mi era costato due sculture in maggiociondolo, che consegnai nelle mani di Mimmo Ungarelli, titolare dell’omonimo canile a Montesanto in provincia di Ferrara. Sante Lorenzi disse: «Ho quello che fa per te». Con poche lire ritirai una Fiat Duna usata, rossa fiammante.
A quel tempo non sapevo che la Duna era bersaglio di battute al vetriolo da parte di fighetti il cui unico capitale intellettivo è la banalità dei luoghi comuni. Non lo sapevo ma ebbi modo di rendermene conto di lì a poco. Al rifugio Pordenone in val Cimoliana parcheggiai la mia Duna scarlatta e tirai fuori le corde per scalare il Campanile di Montanaja. Accanto a me, un amico di Pordenone rimase inorridito. Non credeva ai suoi occhi. Io che mi spostavo su una Duna! Un po’ sorpreso chiesi spiegazioni di cotanto orrore. Venni a sapere così dall’erudito che solo falliti e poveri diavoli approdano alla spiaggia della Duna. Ultima spiaggia di un modello tragicomico che disonora chi lo possiede, nonché la gloriosa fabbrica torinese. In virtù dell’affetto che provava per me, l’amico mi consigliò un modello di salvamento che, disse, non era granché ma, sacrabolto, sempre meglio del mio. Così almeno salvavo la faccia, concluse. Non capivo tutto quel disprezzo per la Duna. A me, sinceramente, la vettura andava benone e, non avendo necessità di salvare alcuna faccia, mi piaceva pure.
Il mezzo era solido, spazioso, motore forte, rampante. Nel bagagliaio, dopo aver rovesciato il sedile, caricavo cinque quintali di legna e me la portavo a casa. Tutte le sere, dopo il lavoro nel bosco, riempivo l’auto di tronchi lunghi un metro e tornavo in paese. In un mese avevo accumulato più di cento quintali di legna. Non male per quella Duna che, nel frattempo, era diventata il mio camper. Michelangelo e io andavamo a camminare per monti e boschi. Di notte, anziché dormire in quei formicai umani che sono i rifugi alpini, tra russamenti di ogni tono e puzza di piedi, stendevo un materassino nella Duna e ci dormivamo beatamente.
Se andavo a scalare montagne, legavo Michelangelo al paraurti della bistrattata macchina garantendomi così l’incolumità da quella brutta genia che sono gli svaligiatori di automobili. Una volta, mentre bevevo vino al rifugio Pordenone, mi avevano scassato la Uno e rubato tutto il materiale da arrampicata.
Insomma la Duna, per me e Michelangelo, era diventata la seconda casa, nonché trattore per trasporto legna da ardere e da scolpire. Quando mi serviva un pezzo di pino cirmolo, partivo con l’auto più bistrattata del mondo, andavo alle segherie bellunesi, caricavo il tronco prescelto e tornavo a casa. Tutto questo senza l’assillo o l’angoscia di scalfirne la vernice, sporcarla o danneggiarla da qualche parte. Era una macchina da lavoro, non una fighetta.
La mia Duna odorava di pino cembro come un bosco d’alta montagna. Il cane Michelangelo si era affezionato all’auto disgraziata e, in ultima, ci dormiva dentro perché lasciavo il bagagliaio aperto. Anch’io, a volte, ci dormivo insieme al cane. Quando le risse coniugali mi facevano sbattere la porta di casa e aprire quella dell’osteria, smaltivo la sbornia e la notte coricato sulla Duna. Tutto questo non faceva che aumentare le battute sarcastiche e le prese in giro degli amici, che non mancavano di far dell’ironia sul mio albergo a quattro ruote anziché a quattro stelle.
Alla fine cominciai ad averne abbastanza. I giudizi negativi e costanti sono come la pubblicità : prima ti rendono dubbioso, poi ti convincono a cambiare. La stupidità del mondo è spossante e un bel momento, per zittirla, la agevoli. Devo ai sorrisi ironici degli amici se cambiai automobile. Complice una fortunata svolta economica data dalla vendita del primo libro, decisi di disfarmi della Duna. Non ne potevo più del sarcasmo altrui. Mi dispiaceva rottamarla, così la cedetti a un amico del paese vicino che, guarda caso, ce l’ha ancora e, come me, la usa per andare a legna. In questo gesto liberatorio, però, non tenni conto del cane Michelangelo, il quale non prese bene la separazione dalla sua cuccia a quattro ruote. Ogni volta che incontrava il mio amico con la Duna, ringhiava cattivo piazzandosi davanti alla portiera per non farlo salire o non farlo scendere. Quella era la sua tana, non tollerava che uno sconosciuto la usasse impunemente.
Una volta nel bosco Piè de Mula, sopra il passo Sant’Osvaldo, si verificò una scena tragicomica. Era novembre, stavo scendendo dal monte Lodina, io dietro il cane avanti. A un certo punto, dopo aver udito il rumore di un’auto che arrancava lungo i tornanti della carrozzabile, Michelangelo si lanciò verso il basso come un fulmine. A nulla valsero i miei richiami per bloccarlo. Dopo un po’ il rumore dell’auto si spense. Udivo distintamente il cane abbaiare aggressivo. Affrettai il passo fino a raggiungere il parcheggio dove la strada termina, vicino alla cava di pietra. Il mio amico, spaventato e molto incazzato, stava chiuso nella Duna con il cane che ringhiava feroce, le zampe appoggiate al finestrino. Ci volle del bello e del buono per ridurlo a più miti consigli. Ma non cedeva. Per farlo desistere, dovetti legarlo con un fil di ferro e trascinarlo via. Fino alla sua morte Michelangelo ringhiò contro il mio amico ogni volta che lo incontrava con la Duna. Quando lo avvertii che il cane era morto se ne uscì con una battuta molto onesta: «Mi dispiace, ma era ora» brontolò.
I cani hanno un solo padrone
I cani scelgono un padrone e se lo tengono per tutta la vita. Quella del cane e quella del padrone. Può succedere, per cause di forza maggiore, che un cane venga accudito da persona che non è il padrone, cioè quello che lui ha scelto all’inizio fiutandolo e dimenando la coda. In questo caso, l’amico a quattro zampe si affezionerà comunque al nuovo proprietario, colmandolo d’affetto e gratitudine. Ma quando (anche dopo anni) comparirà sulla porta il vecchio padrone, non v’è alcun dubbio che il cane lo riconoscerà e lo seguirà immediatamente. A questo proposito basti ricordare Argo, il cane di Ulisse.
Il mio amico Bruno Ditta venti anni fa aveva trovato un cane abbandonato in pieno inverno sulla frana del Vajont, nei pressi della diga. Era un animale molto bello, di media taglia, a pelo lungo e con un musetto vivace e intelligente. Vagava nella neve a bordo strada, lungo i tornanti del bivio. Bruno non fece altro che aprire la portiera dell’automobile. Il cane saltò dentro e s’accucciò sul sedile. Era infreddolito e tremante. Il fatto di entrare con sicurezza nell’abitacolo significava che la bestia era avvezza all’automobile. Il suo sciagurato padrone lo aveva portato fin là in macchina prima di abbandonarlo nella neve. Si era sotto le feste di Natale. Probabilmente il proprietario stava andando in vacanza a Cortina o in altra località amena. Transitando sulla diga, aveva aperto lo sportello e scaricato il povero animale.
Da quel giorno il cane non abbandonò più il suo salvatore. Bruno lo chiamò Maico. Non conosco il motivo né mai gliel’ho chiesto. Era un animale sorprendente, dotato di intelligenza e capacità di apprendere eccezionali. Imparava le cose al terzo insegnamento. Bruno, che è cacciatore, pensò di istruire Maico a scovare lepri e caprioli. Vi riuscì in quindici giorni. L’unico problema era che il cane, non essendo segugio, si lanciava sulle peste senza abbaiare. Allora occorreva stare attenti, il capriolo o la lepre apparivano all’improvviso con Maico silenzioso che li rincorreva a balzi.
Imparò anche a scovare forcelli, coturnici e urogalli. Quando fiutava i volatili improvvisava una specie di ferma, goffa e ridicola ma molto efficace. Fissava il cespuglio dove sapeva esserci la preda, si metteva ventre a terra ringhiando ombroso, poi partiva di scatto, s’infilava tra i rami facendo levare la preda che tiravamo giù di prima o seconda canna.
Una volta, al monte Toc, sul bordo alto della frana che il 9 ottobre ’63 seminò la morte nella valle, Bruno colpì un capriolo maschio sulla corsa muta di Maico. L’animale non cadde subito, si buttò verso il basso ferito a morte ma ancora in forze per mettersi fuori tiro. Bruno bloccò il cane che voleva inseguire il capriolo. Avrebbe rischiato di ammazzarsi scivolando sulle immense lastronate della frana che fuggono verso il basso per un chilometro e mezzo, verticali e levigate come marmo. Il cane, seduto su un colle d’erba secca, le zampe davanti ritte sull’attenti, incominciò a fissare un punto poco sotto. Bruno e io approfittammo per fare uno spuntino. Offrii a Maico una crosta di formaggio, ma il cane non si degnò nemmeno di fiutarla. Non si voltò. Continuava a fissare quel punto laggiù in basso, immobile come fosse imbalsamato. Bruno gli lanciò la pelle del salame, ma la reazione fu sempre uguale. L’animale non mosse ciglio, né toccò il cibo che il padrone gli offriva. Con il muso fermo come di pietra, fissava quel punto a valle, circa duecento metri sotto di noi. Bruno fu colto da un sospetto. Prese il binocolo, lo puntò nella direzione in cui guardava Maico. Regolò la distanza, mise a fuoco e scoprì il capriolo riverso sul fianco. Era morto. Nell’impossibilità di muoversi, bloccato dal padrone, Maico aveva seguito con lo sguardo l’ultima fuga dell’animale. Là dove era caduto aveva indirizzato lo sguardo, come per dire a noi che la preda stava in quel posto, che non cercassimo da altre parti. Dopo averlo recuperato, sventrammo il capriolo e gettammo le interiora al cane, che le divorò in un lampo. Si fa sempre così: il cane, mangiando le budella degli animali uccisi si ingolosisce e, per averne ancora, s’impegnerà al massimo nella ricerca. Premiandolo ogni volta diventa uno stanatore eccezionale, poiché è sicuro che avrà per pasto le interiora della bestia abbattuta.
Mentre Bruno e io attraversavamo l’interminabile bordo superiore della frana, l’occhio mi scivolò lungo le immense lastronate verticali e un brivido mi corse per la schiena. Se non si vede la frana dall’alto, non ci si rende conto di tutto il materiale scivolato da lassù. Più di tutto impressionano la verticalità e la levigatezza delle placche sopra le quali, in precaria aderenza, stavano trecento milioni di metri cubi di roccia e terra. Guardandosi attorno il cuore si ferma, accelera, torna a fermarsi. Si ha la sensazione che in quel posto vi sia stato un movimento ciclopico, un cataclisma pauroso, come se la terra si fosse spaccata in due e fosse rovinata all’inferno. La frana del monte Toc vista dall’alto mette i brividi. Lo sterminato moncone bianco, rimasto sospeso a formare la punta del monte, sembra debba cadere da un momento all’altro e spazzare come pulviscolo l’incauto viandante che si trova sul sentiero. E poi c’è il silenzio, il silenzio tragico di quella notte. Il silenzio della morte che lassù aleggia a ogni passo e impaurisce chi osa avventurarsi da quelle parti. Solo corvi e gracchi stridono alti nel cielo, roteando le ali come colpi di falce su quello scenario inquietante. C’era un immenso altipiano lassù, prima del Vajont, pieno di case, stalle, fienili, erba buona per il bestiame e fontane ricche d’acqua. Ora rimane soltanto una paurosa rampa verticale, con in fondo la diga del Vajont, immenso foglio di cemento che, dall’alto, pare un ossicino bianco serrato tra le mandibole della valle.
Passo dopo passo, Bruno e io abbandonammo quel deposito di brutti ricordi. Traversando a levante, guadagnammo il colle delle Felci e quindi la casa dell’amico alla frazione Pineda. Maico era stanco e s’accucciò vicino alla stufa. Noi mangiammo il fegato e i polmoni del capriolo fritti nel burro insieme a una decina di cipolle affettate.
Quell’autunno passò tranquillo. Bruno e io lavorammo al taglio del legname per le travature della baita che, l’anno dopo, sarebbe diventata il rifugio Casera Ditta. L’inverno trascorse tra lo scolpire tronchi e soste in osteria. A primavera, quando cantò il cuculo, Bruno partì per la Germania a fare il gelataio, mestiere esercitato fin da giovane. Il cane lo lasciò al fratello Bepi, che poco dopo sarebbe diventato il mitico gestore della casera appena ristrutturata. L’assenza di Bruno durava otto mesi, durante i quali Maico viveva a Pineda con Bepi. Per anni, ogni primavera, ci fu il cambio di padrone che il cane doveva accettare suo malgrado. Da marzo a ottobre stava con Bepi, da novembre a marzo con Bruno. Maico si era affezionato al padrone provvisorio, non lo lasciava nemmeno un secondo. Dove c’era Bepi c’era il cane. Dall’osteria al negozio di alimentari, dall’ambulatorio alla farmacia di Longarone, dal ferramenta o dal barbiere, i due stavano sempre insieme, giorno e notte. Maico dormiva ai piedi del letto dove riposava il padrone in prestito.
Tutto questo durava fino a ottobre, quando tornava Bruno dalla Germania. Da quel momento non ce n’era per nessuno: Maico s’aggrappava a lui e non lo mollava più fino ai primi di marzo, quando il destino li separava di nuovo. Bruno era il vero padrone, Maico aveva scelto lui e lui sarebbe rimasto a vita. Bepi era un buon amico, un provvisorio cui voler bene, ma quando compariva Bruno non esisteva altra persona all’infuori di lui. Nell’emozione di rivederlo, Maico si faceva pipì addosso e si rotolava per terra come un botolo. Era una scena commovente quando si rotolava tra le gambe del padrone uggiolando di gioia. Mio padre lo diceva sempre: «Il cane sceglie un padrone e quello rimane per sempre». Se i fratelli Ditta s’allontanavano uno di qua e uno di là , Maico seguiva Bruno. Bepi cercava di tirarlo a sé con leccornie di ogni tipo, ma era fatica sprecata. Il cane correva dietro al vero padrone. Maico morì di vecchiaia, quasi cieco. Per i fratelli fu come un lutto famigliare. Ebbero ancora cani, tuttora Bruno ne ha uno da caccia, ma nei racconti d’osteria il ricordo di Maico resta sempre sopra a tutti.
Storia di Roco e suo fratello
Pare che il passo Sant’Osvaldo, tra Erto e Cimolais, sia zona buona per abbandonare cani. Parecchi, infatti, sono i casi di amici dell’uomo trovati a vagare da quelle parti in ogni stagione dell’anno. Molte persone hanno raccolto cani abbandonati nella piana del Tegn o nel Pezzei, radure che s’affacciano sulla strada del passo Sant’Osvaldo.
Una ragazza di nome Martina a novembre trovò un panciuto terranova, liscio come il velluto, accucciato sulla curva sotto la casa alpina. Stava sul bordo del prato, le zampe in avanti e il muso rasente l’erba secca dell’autunno. Nessuno aveva coraggio di avvicinarlo. Ringhiava riottoso e guardava storto. Ma non si muoveva di un millimetro. Erano il dolore, la malinconia e la disperazione per esser stato scaricato da coloro cui voleva bene a irrigidirlo. Qualche automobilista si fermava, provava a prenderlo su ma, intimorito dai ringhi minacciosi, dopo un paio di tentativi desisteva. E avrebbe desistito anche la ragazza se non fosse passato di lì un boscaiolo. Il boscaiolo le disse: «Ti insegno come fare». L’uomo sedette a cinque metri dal cane e cominciò a parlargli guardandolo negli occhi. Dallo zaino tirò fuori un pezzo di pane e glielo lanciò. L’animale non mosse pelo. Il boscaiolo ne lanciò un altro più vicino. Il cane lo annusò. Poi tornò a piallare l’asfalto con il muso, solo gli occhi giravano nell’orbita a scrutare la situazione. Il boscaiolo s’avvicinò di due metri, l’animale ringhiò l’avviso. Altro pane, questa volta sotto il naso. Nemmeno una mossa. Il boscaiolo fumò una sigaretta seduto sullo zaino, trascurando di proposito il cane. Vistosi ignorato, l’animale alzò la testa e guardò il boscaiolo. A questo punto l’uomo, con il resto di pagnotta in mano, s’avvicinò e gliela porse. Il cane non la prese, ma nemmeno ringhiò. L’annusò e mentre l’annusava il boscaiolo gli carezzò la testa. Era fatta. Di lì a poco Martina si portava a casa quel bellissimo cane scuro.
Alcuni anni dopo mi successe la stessa cosa nel medesimo luogo, con la differenza che era inverno e i cani erano due. Andai un giorno di gennaio al passo Sant’Osvaldo per tirar giù legna dai boschi della val da Diach. Era un freddo boia che faceva congelare gli uccelli, condizione ottima per mandar giù i tronchi lungo i canaloni ghiacciati. Sulla piazzola a bordo strada, dove si parcheggia l’auto, udii dei lamenti. Guardai. In una depressione vidi due cuccioli di cane che forse non raggiungevano il mese d’età . Tutt’attorno cristalli di ghiaccio tappezzavano la neve con fiori azzurrini quasi trasparenti. Dal ruscello della Tuara saliva la nebbiolina gelida della condensa che un sole anemico perforava e muoveva, originando fantasmi che vagavano tra i larici addormentati. Mi avvicinai ai cuccioli; uno era nero, l’altro color miele.
Intirizziti e quasi assiderati, non cercavano neanche di muoversi, forse non riuscivano più. Raccolsi i moribondi e li posai accanto all’auto mentre cercavo le chiavi per aprirla. In quel momento passò un signore in macchina. Era sulla sessantina e quando mi vide alle prese con i cuccioli si fermò. Aprì mezzo finestrino e iniziò a dirmene di ogni colore: «Si vergogni! La denuncio! Le prendo il numero di targa. Lei è una bestia! Abbandonare gli animali a quel modo! Ma ce l’ha un cuore lei?».
Lasciai che si sfogasse, poi gentilmente spiegai al vecchio che quei cagnolini non li stavo buttando, ma raccogliendo. Rimase perplesso. Piuttosto scettico, scese dall’auto per constatare se gli raccontavo balle. Mi fece venire in mente una scena analoga dell’estate precedente dalle parti del Campanile di Montanaja.
Stavo risalendo l’interminabile canalone che porta alla base dell’urlo pietrificato. Ogni tanto raccoglievo schegge di roccia dalle sembianze di gufi o civette per la mia collezione privata. Da molto tempo cerco nei sassi forme animali o di uccelli. Ogni anno scelgo un soggetto diverso e, durante le gite, mi metto alla ricerca di pietre che assomiglino all’animale prescelto. Quel giorno raccolsi una scheggia che mi pareva buona ma, constatato che buona non era, la ributtai sul ghiaione. Sfortuna volle che dove cadde ci fosse un pacchetto di sigarette vuoto, lasciato dal solito maleducato. Poco sotto stava salendo un signore. Questo signore notò il mio braccio che lanciava qualcosa. Quando mi fu appresso, vide il pacchetto di sigarette e fece due più due. Iniziò a darmi dell’incivile e a dire che non si sarebbe mai aspettato che gettassi un pacchetto di sigarette in terra. Tentai di convincerlo che avevo lanciato un sasso, non il pacchetto. S’arrabbiò di più, convinto che lo menassi in giro.
«Mi prende per il culo?» gridò. «L’ho vista, si vergogni.»
Raccolsi il pacchetto con la speranza che fosse vecchio, così da persuadere l’accusatore che stava in terra da giorni. Ma, per dannata sorte, il pacchetto era nuovo di zecca, buttato da qualcuno appena passato. Con il corpo del reato in mano dissi al signore: «Giuro che avevo lanciato un sasso».
«Non faccia il furbo!» rispose. «L’ho vista con i miei occhi buttare il pacchetto in terra, queste cose non si fanno, e lei dovrebbe dare l’esempio.»
Non avevo alcuna possibilità di cavarmela, il tipo era certo al duemila per cento della mia colpevolezza. Mi seccava sapermi innocente e non esser creduto e fui tentato di dirgliene quattro, ma avrei peggiorato la situazione. Quello sarebbe andato a raccontare non solo che ero un maleducato imbrattasentieri, ma pure violento. Allora, in un impeto di residua pazienza, dissi al signore: «Ha ragione, mi scuso, stia certo che non lo farò più». Ficcai il pacchetto vuoto nello zaino e m’allontanai da quel rompicoglioni.
Soddisfatto della vittoria, il tizio rispose: «Certo che non lo deve fare più e non avrebbe dovuto farlo nemmeno questa volta. Ho letto i suoi libri e mi sa che lei predica bene e razzola male». Così dicendo s...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Gli occhi del bosco
- Cani, camosci, cuculi (e un corvo)
- Primo quaderno
- Secondo quaderno
- Terzo quaderno
- Quarto quaderno
- Storie del bosco antico
- Copyright