
- 168 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il palio delle contrade morte
Informazioni su questo libro
Una villa sconosciuta, una morte misteriosa e la corsa più incredibile che la storia del Palio ricordi. Le vacanze di una coppia di milanesi prendono una direzione imprevista...
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Informazioni
Print ISBN
9788804273752eBook ISBN
9788852031052IV
Intorno alla concava, inclinata piazza del Campo (che ha la forma di una conchiglia ed è pavimentata in cotto, a spina di pesce) corre un anello di pietra lungo poco più di 300 metri. Su questo perimetro, cinque giorni prima del Palio, una speciale miscela di tufo e sabbia, conservata e curata d’anno in anno in certe cantine dei magazzini del comune, viene sparsa e pressata per uno spessore di 20 cm e una larghezza di 7 metri e 50. Si dice allora che “c’è la terra in piazza”, ossia che la febbre della gara è entrata nello stadio acuto.
La corsa (detta anche “carriera”) è brevissima. I cavalli, montati a pelo dai fantini, devono percorrere tre soli giri di pista, e lo fanno in un centinaio di secondi. Ma quel minuto e mezzo, atteso, preparato, immaginato, sognato per un anno intero da un’intera città, e intollerabilmente represso dall’ultima, sapiente, torturante dilazione del corteo storico, esplode infine con un furore liberatorio che non ha eguali in nessun’altra competizione del mondo. È come lo scatto di un’immensa molla, come un’eruzione vulcanica, come lo sfondamento di una diga, come...
Val. (con la massima disinvoltura) «Come un orgasmo.»
G.baldo «Ecco, appunto.»
Avv. (tra sé) «Santo cielo.»
G.baldo «Se si dimentica questo non si capisce niente, del Palio. Il climax è fulmineo, ma la tensione si è venuta accumulando, arroventando, per tutto l’anno.»
Val. (tono intelligente) «Un’erezione che dura 365 giorni, insomma.»
G.baldo (stesso tono) «È un paragone a cui spesso ho pensato anch’io.»
Avv. (tra sé) «Gli sporcaccioni schifosi.»
Non fu però lo sporcaccione – ricorda l’avvocato – ad aprire lo sportello di Valeria e a farle segno di scendere sotto il suo grande ombrello verde, ma un giovane domestico filippino o comunque asiatico, occhi a mandorla, pelle scura e un casco di capelli nerissimi. Lo scrosciare della pioggia rendeva le spiegazioni più difficili, con Valeria che ripeteva diglielo tu, lui che si sporgeva a gridare che s’erano sbagliati, e il filippino che restava lì senza parlare, sorridendo enigmatico.
(Che lingua parlano i filippini? ricorda di aver pensato. Lo spagnolo? L’inglese? Il filippino? A parte che quello, per il niente che ne sapeva lui, poteva non essere affatto filippino.)
Poi dalla loggia emerse l’alta e aristocratica figura del non ancora Guidobaldo, che indifferente alle intemperie, a passo normale, venne fino alla macchina e tagliò corto al battibecco dei coniugi (“Anch’io m’ero accorta che qualcosa non quadrava, il viale di Paolino è tutto di cipressi.” “Ma se hai riconosciuto perfino il cane!”) invitandoli autorevolmente a togliersi da quel diluvio, entrare un momento in casa, telefonare di lì ai loro amici, e altre ospitali amabilità.
Può ora l’avvocato, col senno del poi, dire che pensò subito all’amabilità di un ragno? No, non può onestamente dirlo. Con tutti i suoi “Ma poveretti!”, “Ma che seccatura!”, “Ma è una cosa tremenda!”, l’uomo lo faceva sentire come un interessante superstite, compreso in quello 0,5% venuto via al momento giusto da Pompei. Porse la mano a Valeria e con l’ombrello del filippino la scortò fino alla loggia, poi tornò indietro per portare in salvo anche lui.
Anche qui, insomma, il salto fu rapido ma del tutto naturale, e come s’era infilato senza accorgersene nella grandinata, così l’avvocato venne a trovarsi in quell’atrio vasto e cupo, dove un paio di globi opachi, con sopra degli stemmi dipinti, diffondevano il minimo indispensabile di chiarore su archi, colonne, basse volte, mobili neri, grandi ritratti di dame e gentiluomini, e sulla povera Valeria, in piedi ai piedi di uno scalone che scendeva direttamente dal vuoto siderale. Ma la sorte non gli lasciò un solo attimo per esitare, sospettare sia pure in modo vago (e in che altro modo, del resto?).
Il cane di prima ringhiò da un suo angolo e venne ad annusare, mentre una porta si apriva cigolando e compariva una donna alta e ossuta, con un bicchiere in mano.
«Non erano loro» le disse l’uomo.
Sentendo una macchina arrivare sul piazzale, spiegò ai Maggioni, avevano creduto che fossero certi amici attesi da Roma. Valeria si scusò dello sbaglio, del disturbo, ci furono smozzicate presentazioni (l’avvocato non capì i nomi dei due, naturalmente, né che relazione ci fosse tra loro) e nuove scuse, proteste, commiserazioni, nuovi percarità e figuriamoci, e nello stesso modo rapido, fluido, per niente allarmante, ci fu il tentativo di telefonare a Paolino & C. da una nicchia dietro un pilastro, il silenzio dell’apparecchio, l’ipotesi che il temporale avesse di nuovo interrotto la linea come spesso accadeva in quel distretto (taglio netto, ragazzi), e ci fu l’invito ad aspettare un momento, a restare lì finché la situazione generale non fosse migliorata, non aveva senso avventurarsi in campagna proprio ora, quei viali e sentieri di terra erano impossibili, ci voleva una fuori strada, avrebbero potuto finire in qualche fosso, con la loro casalinga berlina!
A chi lo dicevano, pensò l’avvocato.
Valeria gli gettò un’occhiata intensa, ma lui non capì se per segnalargli di accettare o di rifiutare, o forse lei stessa non sapeva cosa decidere (ma con le donne, poi, salta sempre fuori che loro intendevano il contrario di quello che hai deciso tu; non le hai capite, una volta di più). Decise comunque di accettare, sia perché era abbastanza stanco e frastornato, sia perché i tuoni e i lampi e rovesci d’acqua che intanto andavano avanti là fuori, sembravano da quel riparo veramente biblici, era un miracolo esserne usciti vivi.
Accettò anche (Valeria non avrebbe mai osato, col suo terrore di “disturbare”) l’offerta di una visitina alla toilette “per lavarsi le mani” e la guida di una filippina giovane e minuta come il filippino, di cui poteva essere la moglie, che li condusse giù per una breve rampa di mattoni, attraverso una loggetta vetrata e gremita di piante, oltre un piccolo atrio dedicato a una testa di cinghiale, e dopo un altro paio di gomiti e svolte li abbandonò a metà di una lunga galleria a finestroni, davanti a una porta di quercia che poteva nascondere un refettorio, una cappella, una sala d’armi.
Andò avanti Valeria, e lui restò a passeggiare come un cretino nella penombra, tra altri antichi ritratti e austeri mobili rischiarati ogni tanto dai bagliori del temporale. L’impressione di essere restato lì “come un cretino”, nel ricordo dell’avvocato, traduce la consapevolezza post factum che c’era già tutto perché dovessero venirgli i capelli dritti: villa sconosciuta, padroni troppo gentili, servi orientali, lo stesso pavimento a grandi scacchi bianchi e neri, su cui l’eco dei suoi passi di pedina risuonava nei momenti di silenzio.
S’affacciò a uno dei finestroni e vide un paesaggio decapitato da grevi e fosche nuvole in lento movimento, che tra le pieghe più basse delle colline coperte di macchia trascinavano cenciosi tamponi biancastri. E a un tratto, in una radura del fondovalle, gli apparve di nuovo il branco di cavalli al galoppo, compatto eppure instabile, un subbuglio di groppe nere, grigie, marroni che si affiancavano e superavano di continuo. Era impossibile contarli (una dozzina? mezza?) e mentre si dileguavano fra ulivi tarchiati e querce da sughero, pensò io non m’intendo di cavalli, ma se sono quelli del maneggio idealistico starebbero meglio in una stalla, mi pare. Cercò anche di orizzontarsi, avrebbe voluto saper scovare e riconoscere “Le Rombaie”, tra quelle colline; ma il cielo basso cancellava i punti cardinali, e lui non disponeva della sequoia solitaria, della miniera abbandonata, della rupe a forma di teschio o altri punti di riferimento tipici del selvaggio west toscano.
Valeria lo raggiunse alla finestra e lui andò in bagno, un pallido camerone pieno di porte, di armadi, di sedie, di quadri alle pareti, al punto che credette di aver sbagliato stanza. Si stava lavando le mani quando udì un grido disperato.
Valeria.
Si precipitò senza pensare a niente, ma (l’inconscio computer del terrore coniugale dava il 40% a un grosso topo, il 20% a un pipistrello, e il resto diviso tra grosso ragno, millepiedi e storta alla caviglia) in nessun caso avrebbe potuto prevedere ciò che vide: Valeria era sempre in piedi davanti al finestrone e una bassa forma nera si agitava dietro di lei, la premeva, la schiacciava contro il davanzale.
Urlò anche lui, corse per liberarla dal cane che l’aveva aggredita alle spalle, e aveva già il piede levato per il calcio, quando l’animale si rialzò di scatto; intravide una faccia scura, due baffetti, un candido ghigno, e un uomo piccolissimo, un nano, fuggì con una risata lungo la galleria.
Valeria gli si aggrappò singhiozzando come un’interessante superstite di Sodoma. O di Gomorra.
Mortali inimicizie dividono le 17 contrade di Siena. Si odiano la Lupa e l’Istrice, l’Aquila e la Pantera, la Chiocciola e la Tartuca, si detestano il Bruco e la Giraffa, il Leocorno e la Civetta, il Montone e il Nicchio. La Torre, grossa contrada (essendoci contrade grosse e piccole, ricche e povere), riunisce contro di sé due feroci avversarie, l’Oca e l’Onda.
Nessuno sa più con precisione che cosa ci sia dietro questi contrasti secolari, anche se si osserva che le contrade più accanite nella reciproca animosità sono in generale confinanti. Ma che si tratti di remote questioni d’interesse, di antiche sopraffazioni e prevaricazioni, di dispute territoriali, beffe, offese o tradimenti immemorabili, il tempo ha fissato per sempre la mappa dell’odio contradaiolo. È in nome di questo sentimento che, parallelamente al Palio di sopra, se ne corre un altro sotterraneo, in negativo ma altrettanto esasperato, il cui scopo è di impedire di vincere alla contrada nemica.
Quando la sorte ha finito il suo lavoro ufficiale, ha stabilito chi correrà e su quali cavalli, comincia un vertiginoso intreccio di patti e contropatti, di mediazioni, neutralità attive e passive, favori, prestiti, sabotaggi, giuramenti, che hanno il nome collettivo di “partiti”, e al cui centro c’è esplicitamente il solo fattore in grado di contrastare e correggere in qualche modo la Sorte: la Corruzione. Corruzione di quei dieci mercenari che per cento secondi galopperanno freneticamente sulla terra in piazza: i fantini.
«Andiamo via di qui andiamo via di qui...»
«Ma cos’è successo?»
«Portami via di qui portami via di qui...»
«Va bene, ma chi era, cosa t’ha fatto?»
«Non voglio restare qui non voglio restare qui...»
Il dialogo tra quelle due indistinte figure abbracciate nella penombra della galleria, non andava più in là di così. Lei continuava a tremare e tirar su col naso, lui le dava dei colpetti sulla schiena, le carezzava la nuca, sperando che fosse la cosa giusta, ma col dubbio che avrebbe dovuto invece procurarle acqua o sali, chiamare aiuto, sollevarla di peso (impossibile: col suo poco fiato sarebbe crollato dopo tre metri) e portarla in salvo fino alla macchina, incurante della tempesta.
«Ero lì alla finestra che guardavo fuori,» disse Valeria con un repentino rigurgito di normalità «e con tutti questi tuoni non l’ho neanche sentito arrivare... M’ha alzato la gonna, m’ha tirato giù le...
Ricominciò a sussultare e a rabbrividire.
«Dio che spavento.»
Con la destra prese a massaggiarsi una natica.
«Ma cosa t’ha fatto!»
«M’ha dato un morso.»
«Dove?»
«Qui.»
«Sul sedere?»
«Sì.»
Con totale sbalordimento dell’avvocato, scoppiò a ridere.
«È stato rapidissimo, doveva avere una certa pratica.»
«Ma chi era?»
«Cosa vuoi che ne sappia, non s’è mica presentato.»
«Il filippino no, questo qui aveva i baffi e poi era molto più piccolo.»
«Chiunque fosse, m’ha completamente terrorizzata. Ero lì tranquilla e me lo sono sentito arrivare addosso come...»
«Ma t’ha fatto male?»
«Be’... è stato un bell’assaggio. Chissà se gli sono piaciuta.»
«Valeria!»
Se la tirò dietro fino a una di quelle antiche seggiole con grosse borchie e alto schienale che c’erano tra un finestrone e l’altro, si sedette, la fece girare e le alzò la gonna pieghettata.
«Diamo un’occhiata alla ferita.»
«Ma non era mica un cobra.»
Lo slip era rimasto abbassato a metà...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Il palio delle contrade morte
- I. L’avvocato Maggioni è affacciato ormai
- II. Guardando il corteo storico sfilare
- III. Le contrade di Siena sono 17
- IV. Intorno alla concava, inclinata piazza
- V. L’avvocato stringe a sé Ginevra
- VI. Le contrade di Siena, che sono oggi 17
- VII. Il filippino si accingeva a versarle
- VIII. Dopo l’invito a restare per il pranzo
- IX. Coca-Cola? Oh, sì, grazie!
- X. Sbucati da un vicolo, due uomini
- XI. In che luogo sarà oggi quel bravo
- XII. Nel giro di un’ora al massimo
- XIII. Che ci stava a fare lì?
- XIV. Ginevra è tornata alla finestra
- XV. Valeria non si rese subito conto
- XVI. Una piccola nuvola rosa
- XVII. L’indomani, 15 agosto
- XVIII. La mattina del 16 agosto
- XIX. Ecco: gli alfieri di tutte le contrade
- XX. La piazza è un imbuto isterico
- XXI. Venti secondi. Venticinque secondi
- XXII. Grigio è il cavallo, grigio a un tratto
- XXIII. I dintorni di Siena sono amenissimi
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