STEPHEN GUNN
OPERAZIONE BERSERKER
L’EREDITÀ CARGESE
Lo avevamo lasciato prostrato nel fisico e nell’animo al termine della sua prima avventura nel Suriname, Raid a Kourou, e con il secondo episodio, L’eredità Cargese, rientrava piuttosto rocambolescamente a Parigi, per iniziare una carriera di agente free lance che ha spostato un po’ il fulcro della sua saga dal combat allo spionaggio.
In tutti questi anni mi sono chiesto se non ci fosse stato qualche episodio nascosto, non raccontato, che lo aveva riportato in Francia malgrado la caccia spietata che ancora gli davano i suoi ex commilitoni della Legione Straniera. Quando si è prospettata la possibilità di presentare in una veste finalmente degna le avventure del Professionista su Segretissimo, la fantasia si è scatenata.
Per uno di quei processi che mi risulta difficile spiegare ma che i lettori gradiscono perché sono sintomo di vitalità e passione dell’autore (le migliori garanzie affinché il romanzo riesca bene) ho scritto un’avventura di raccordo che serve anche a chiarire molte cose.
Non solo Chance trova il modo di rientrare in Francia grazie all’aiuto di un ufficiale della marina olandese, ma viene proiettato in un’avventura tra i ghiacci in cui s’incastrano tasselli in grado di rivelare fatti e personaggi che il lettore incontrerà nei prossimi romanzi. La Società 666 e il gruppo neonazista dei Lupi Mannari hanno qui la loro origine.
E poi ho ritrovato il gusto di scrivere una grande spy story sulla falsariga di quelle degli anni Sessanta e Settanta, quando Segretissimo era un bestseller e le copertine di Carlo Jacono anticipavano per la fantasia del lettore tutto un mondo di avventure e seduzioni.
Così è nata Operazione Berserker, la storia inedita che apre questo volume e che anticipa L’eredità Cargese fornendole anche una base di maggiore credibilità.
Stephen Gunn
Königsberg, autunno 1944
— È davvero finita, allora? Il Reich ha perso e noi stiamo trafugandone il tesoro...
Nel vento freddo del pomeriggio inoltrato la voce del giovane ufficiale si perdeva in un lamento quasi incomprensibile. L’uomo più anziano al suo fianco, però, aveva udito benissimo. Rivolse uno sguardo duro all’ufficiale dei cadetti Horatio Ritter, rigido nel cappotto troppo leggero per il clima della regione baltica.
— Se dovessero sentirla dire una cosa del genere a Berlino, la fucilerebbero all’istante, mio giovane amico.
Il viso quasi imberbe di Horatio, arrossato dal gelo, si contrasse. Il ragazzo riservò un’occhiata timorosa all’ufficiale delle SS che sfidava le intemperie. Il colonnello Steiner era noto a tutti per il coraggio e la ferocia dimostrati sul campo. La sua leggenda lo aveva preceduto a Königsberg dov’era arrivato una settimana prima. Saliente di Kursk, penisola di Talman, Stalingrado. Il viso sembrava un teschio coperto da un sottile velo di cartapecora.
— Non si preoccupi, Ritter, ho visto massacrare bravi soldati e uomini d’onore in nome della follia troppo a lungo per condividere ancora certi fanatismi. Lei quanti anni ha?
L’altro tossicchiò con evidente imbarazzo. — Diciassette... diciotto anni, signore. Ma... ho già affrontato il mio battesimo del fuoco.
Steiner teneva gli occhi su un punto della laguna di Königsberg. Fioche luci giallastre rischiaravano la notte. — Lo immagino, altrimenti non l’avrebbero scelta per un compito così importante. E cos’ha visto, giovane Ritter? Campi di sterminio che esalavano fumate di gas? Fosse comuni? Villaggi dati alle fiamme? Donne stuprate e bambini soldato mandati con fucili antiquati a combattere i carri armati alleati?
In soli quattro mesi di servizio nella Wehrmacht, Horatio Ritter aveva visto tutti quegli orrori e anche di più. Era stato testimone della follia del più grande esercito del mondo che sfogava la rabbia in atti di pura crudeltà per non ammettere la sconfitta.
— Sa, Ritter, quando un regime manda i ragazzi a combattere perché gli uomini sono tutti morti o fuggiti, allora è necessario valutare altre soluzioni.
— La resa? — domandò Ritter con un velo d’indignazione.
— No — sbottò con fierezza l’ufficiale delle SS. — La resa mai, tuttavia è venuto il momento che quel pazzo che ci sta portando all’annientamento assoluto dal suo bunker a Berlino ceda la mano. — Una folata d’aria gelida scosse i due uomini. Parlare di un tentativo di colpo di Stato era ancor più pericoloso che mostrarsi disfattisti. — No, figliolo, noi siamo qui perché il Reich possa rivivere... domani. Con mezzi e armi potenti. Ecco perché ci è stata affidata questa missione. A lei, e a me... Lo ricordi... “Ciò che non ci uccide ci rende più forti.”
— Citare Nietzsche non servirà ad allontanare la disfatta... — disse una voce alle loro spalle.
I due ufficiali si volsero appena inquadrando tra loro la figura curva di un civile con un lungo cappotto. Sottobraccio portava una borsa di pelle con una fibbia pesante, in ottone. Rappresentava un mostro a due teste. L’artigiano che lo aveva forgiato aveva messo tutta la sua abilità per evidenziare zanne, artigli, ali e muscoli tesi. Un dio pagano, implacabile.
— È arrivato, finalmente, professor Vesky... aspettavamo solo lei — osservò ruvidamente l’ufficiale delle SS. — Ha con sé il suo prezioso volume?
Il nuovo venuto era un uomo sulla sessantina, l’aria intelligente e il viso cotto da anni trascorsi al sole. Si chiamava Stefan Vesky ed era a capo della Società esoterica 666, un consesso di studiosi, archeologi, scienziati, esploratori che, sin dal 1930, avevano ricercato in ogni angolo del mondo manoscritti e oggetti mistici per assecondare l’ossessione di Hitler per l’occulto. Ma ora anche la 666 pensava al futuro.
— Io sono pronto — disse. — Guardate il cielo. Sembra che tutti gli abitanti del Mondo Oscuro si siano radunati qui.
Ritter e Steiner sollevarono appena lo sguardo, riconoscendo con un imbarazzato senso di disagio che Vesky aveva ragione. Il cielo era buio, coperto di nuvole color peltro, a tratti lacerate da lampi e da tuoni senza che si decidesse a piovere.
Steiner sospinse gli altri verso il margine della laguna lungo un sentiero tortuoso e non asfaltato. La città di Königsberg con i suoi austeri edifici prussiani, il castello e i magazzini che Hitler aveva fatto erigere era alle loro spalle, oscurata dal coprifuoco. I raid aerei alleati ormai erano quasi incessanti. Ritter e i due più anziani compagni superarono infreddolite tane di mitragliatrici, sbarramenti di cavalli di Frisia, carcasse di tank squarciati dai bombardamenti.
Giunsero sino alla spiaggia della laguna. Due postazioni di cannoni antiaerei da 88 millimetri vegliavano sul lavoro di una ventina di uomini delle SS in tenuta di fatica. Da una baracca stavano trasportando una serie di casse a bordo di un U-Boot di piccole dimensioni, ormeggiato al limitare di un lungo pontile di cemento che si profilava al centro dell’insenatura, nel punto in cui la profondità era tale da permettere al sottomarino di prendere la via per il mare aperto. L’equipaggio in divisa da sommergibilisti del Reich era fermo sull’attenti in attesa di imbarcarsi. Quindici uomini, tra macchinisti, ufficiali e marinai. Gli spruzzi gelati sollevati dal vento non sembravano infastidirli.
Ritter non parlava, ma la sua mente correva alle pesanti casse con il simbolo del Reich stampigliato sopra. Contenevano cinquecento chili d’oro massiccio fusi in lingotti nella stessa Königsberg. Il lavoro segreto eseguito in una fucina nell’angolo più oscuro e protetto della città. Ordini di Steiner, che era arrivato con cinque camion pieni di metallo prezioso trafugato chissà dove in tutta Europa depredando ebrei, zingari, polacchi e persino tedeschi.
Insieme a quel tesoro che avrebbe ricostruito il Reich c’era anche un carico che veniva dai sotterranei del castello. Un oscuro e ancor più terribile segreto. L’Arma Finale che Vesky custodiva gelosamente. L’ultimo ritrovato concepito dagli scienziati della 666. Ritter e chiunque altro fosse rimasto a Königsberg per un poco ne aveva sentito parlare, ma non sapeva di cosa si trattasse. Era noto solo il suo nome. Berserker.
Le operazioni di carico erano quasi terminate. Il vento sibilava. Una Kübelwagen armata di mitragliera arrivò tossicchiando. L’alone dei fari illuminò in maniera drammatica i tre uomini.
— È il momento di andare... ormai è deciso — sentenziò Steiner.
— Io non sono d’accordo che il ragazzo debba custodire questa... spetterebbe a me — protestò Vesky dirigendo uno sguardo sprezzante verso Ritter.
Il giovane stava per rispondere, ma Steiner lo anticipò con un cenno della mano. — Ritter appartiene a una delle più antiche famiglie prussiane. I suoi combatterono ad Austerlitz. In questa guerra ha perso suo padre e due fratelli... ciò che resta della Germania ha deciso che sia lui a portare lontano il segreto, finché ci sono tempo e opportunità. Ci ritroveremo in seguito per la gloria... per rinascere.
Vesky storse le labbra. — Fatti che non contano nulla. Io, come capo della Società 666, mi oppongo. Ormai siamo stanchi di servire quel pazzo... e il fatto che voi, fanatici, che vi credete la razza eletta, vogliate prenderne il posto non vi conferisce alcun diritto. Io terrò questa borsa e andrò in Centro America, al posto del ragazzo. Io e io solo...
Steiner non lo lasciò terminare la frase. Inutile ragionare. Con un movimento del polso liberò la lama di quindici centimetri che celava in un bracciale agganciato al polso. Il coltello telescopico si dispiegò con uno scatto. Vesky fu trapassato al cuore. Sputò sangue e insulti, poi crollò sulla crosta di fango e nevischio. Il sangue nero si allargò in una pozza disperdendosi tra decine di rigagnoli nel terreno.
— Stupido vecchio visionario — borbottò Steiner rimettendo al suo posto la lama. Si rivolse a Ritter, che si chinò e raccolse la valigetta. Gli pareva che pesasse quintali. Sconvolto, guardò Steiner e comprese di essere finito in un labirinto ancora più diabolico di quello che aveva immaginato.
— Questi miscredenti della Società 666 hanno fatto il loro tempo. Noi dobbiamo pensare al futuro. Giovane Ritter, salga a bordo della Kübelwagen e segua le istruzioni. Porti questa borsa dove le è stato detto e ne divenga il custode e il guardiano. Quando sarà terminata questa follia, verremo da lei a chiedergliene conto.
Una raccomandazione ma anche una minaccia.
— E lei?
L’ufficiale delle SS si strinse nelle spalle e indicò la torretta dell’U-Boot. Ormai il carico era terminato e l’equipaggio aspettava ordini per imbarcarsi. — Io compirò il mio viaggio sino al nascondiglio segreto. Aspetterò come tutti che venga il momento del ritorno... dei Lupi Mannari.
Ritter represse un brivido. Non più Reich, non più Germania, adesso. Steiner aveva parlato apertamente di ciò che tutti avevano sussurrato. I Lupi Mannari, il nuovo Reich.
Il vecchio fu l’ultimo a salire. Horatio Ritter strinse la borsa tra le mani e rimase a guardare le operazioni finali a bordo del sommergibile. Gli ormeggi furono ritirati, i portelli chiusi e solo un lungo suono di sirena accompagnò l’avviarsi dei motori. Le eliche di poppa smossero le onde e l’U-Boot si diresse verso l’uscita dalla laguna.
Un raggio di luna filtrato tra le nubi ne rischiarò brevemente il fianco. Nessuna insegna: solo il nome che, anche a quella distanza, Ritter era in grado di leggere. Lupo dei Ghiacci.
L’U-Boot impiegò quasi mezz’ora per raggiungere il punto di immersione. Un rito silenzioso.
Ritter aprì il portellone della Kübelwagen. Prima di entrare diresse un ultimo sguardo alla torretta che scompariva nelle profondità del Baltico. Fu certamente un’impressione, ma il giovane ufficiale credette davvero di scorgere tra i nuvoloni in corsa sopra il mare lo scintillio di decine di figure dorate. Fanciulle magnifiche dalle lunghe capigliature in sella a cavalli alati. Emettevano strida indistinte e acutissime. Valchirie... Un attimo erano là, presenza palpabile dell’esistenza di un mondo sovrannaturale, e, nell’istante successivo, erano sparite.
La torretta si era finalmente inabissata. Nessuno avrebbe mai più rivisto il Lupo dei Ghiacci... per oltre cinquant’anni.
Santa Lucia, Isole Sopravento, oggi
Lo straniero era arrivato con il postale da St Barts. Naso adunco e capelli scuri. Imponente. Non era un’impressione che si rilevasse dai muscoli, che pure tendevano la camicia fuori dai pantaloni, e neppure dalle mani possenti strette intorno al manico di una borsa di pelle con una cerniera di ottone che costituiva il suo unico bagaglio. C’era qualcosa nell’incedere, nel modo di guardarsi attorno sulla banchina, che rivelava l’abitudine a muoversi con disinvoltura e, sì, con un pizzico di spavalderia in ogni luogo. Di certo era la prima volta che approdava su quel piccolo scoglio simile a una macchia d’olio nell’azzurro dei Caraibi.
Santa Lucia era forse la meno estesa delle Isole Sopravento, tra i possedimenti francesi, le ex colonie inglesi e quelle olandesi dispersi in un oceano che risuonava di ritmi allegri ma anche di sanguinarie leggende di pirati, conquistadores e cannibali. Più piccola della vicina Martinica, era certamente più arretrata e meno nota. Alcune carte non ne riportavano neppure traccia. Un posto dove dimenticare e farsi dimenticare.
Eppure lo straniero, non appena sceso dalla passerella di legno, si era avviato verso il porto con una sicurezza e una cauta tranquillità che non erano passate inosservate. I braccianti del molo, i pescatori neri come antracite, le donne magnifiche dal sangue misto delle schiave liberate e degli indios lo identificarono subito come un uomo pericoloso.
Anche senza un soldo in tasca e senza un amico in una terra sconosciuta, un tipo così non era mai completamente un estraneo. Marciava lentamente al centro del molo di pietra passando tra le nasse e le reti lasciate ad asciugare; si fermò persino a comprare un mango dal cesto di una venditrice creola che pagò con un’aquila d’argento. Ringraziò addentando con gusto il frutto e si toccò il panama chiaro, a tesa larga, con un gesto pieno di galanteria. Lo straniero era attento a tutto ciò che lo circondava e aveva usato quella breve sosta come opportunità per nascondere una manovra di controsorveglianza. Mentre si sfiorava il cappello aveva lasciato vagare lo sguardo dal pontile della nave postale ai banchi sul molo e poi giù, sino alla piazzetta che dava sul porto, tra case di legno di colori sgargianti e viottoli che correvano tra cactus e palme sino alla chiesa. Voleva capire se qualcuno lo seguiva, se avevano già notato la sua presenza e, soprattutto, se la fibbia, con quella forma così particolare raffigurante un...