Il fiume scendeva dai ghiacciai, freddo e limpido e sempre tumultuoso, e riempiva la valle con il suo fragore mentre passava ribollendo tra le gole e fluiva davanti ai campi di grano per precipitarsi verso le pianure lontane. Da quasi un anno Jane aveva avuto continuamente quel suono negli orecchi: a volte era fortissimo, quando andava a fare il bagno o si avviava per i tortuosi sentieri sulle rupi, tra un villaggio e l’altro; a volte era smorzato, come adesso, quando si trovava piuttosto in alto, sul fianco della montagna, e il fiume dei Cinque Leoni era soltanto uno scintillio e un mormorio in distanza. Quando avesse lasciato la valle, il silenzio le sarebbe sembrato snervante: come accade agli abitanti delle grandi città che vanno a passare le vacanze in campagna e non riescono a dormire perché c’è troppo silenzio. Mentre stava in ascolto, udì qualcos’altro, e si rese conto che il suono nuovo aveva portato quello vecchio alla sua attenzione. Più forte del coro del fiume le giungeva la voce baritonale di un aereo a elica.
Jane aprì gli occhi. Era un Antonov, il lento ricognitore il cui ringhio incessante preannunciava di solito l’arrivo dei bombardieri a reazione, più veloci e rumorosi. Si sollevò a sedere, allarmata, e guardò il lato opposto della valle.
Era nel suo rifugio segreto, un ampio cornicione piatto a metà d’una rupe. La roccia sporgente la nascondeva senza impedire il passaggio del sole, e sarebbe bastata a togliere a chiunque non fosse uno scalatore esperto la tentazione di scendere fino a lei. Più in basso, l’accesso al rifugio era ripido e pietroso e completamente brullo: nessuno avrebbe potuto salire senza che Jane lo vedesse e lo udisse. E comunque, nessuno aveva un motivo per venire lì. Aveva trovato quel posto una volta che s’era sperduta, allontanandosi dai sentieri. L’isolamento che le offriva era importante, perché veniva lì a spogliarsi e sdraiarsi al sole, e gli afgani erano pudichi come suore di clausura; se l’avessero vista nuda l’avrebbero linciata.
Sulla destra, il fianco polveroso della collina digradava bruscamente; e in basso, dove il pendio incominciava ad appiattirsi nei pressi del fiume, c’era il villaggio di Banda, cinquanta o sessanta case aggrappate a un tratto di terreno accidentato e sassoso che nessuno poteva coltivare. Le case erano di pietre grigie e di mattoni d’argilla, e i tetti piatti erano di terra pressata su stuoie. Accanto alla piccola moschea di legno c’era un gruppo di case distrutte: uno dei bombardieri russi le aveva centrate un paio di mesi prima. Jane poteva vedere chiaramente il villaggio, sebbene fosse lontano una ventina di minuti di difficile percorso. Scrutò i tetti e i cortili cintati e i sentieri di fango, per vedere se c’era qualche bambino sperduto: ma per fortuna non ce n’erano. Banda era deserta sotto il rovente cielo azzurro.
A sinistra, la valle si allargava. I campicelli sassosi erano costellati dai crateri delle bombe; e sulle pendici più basse delle montagne erano crollati alcuni degli antichi muretti delle terrazze. Il grano era maturo, ma nessuno lo mieteva.
Al di là dei campi, ai piedi della muraglia a strapiombo che formava il versante più lontano della valle, scorreva il fiume dei Cinque Leoni, profondo in alcuni tratti, basso in altri, ora ampio e ora stretto, ma sempre convulso e pietroso. Jane lo osservò, in tutta la parte visibile. Non c’erano donne che facevano il bagno o lavavano i panni, non c’erano bambini che giocavano nell’acqua, né uomini che conducevano i cavalli o gli asini attraverso il guado.
Jane pensò di rivestirsi e di lasciare il suo rifugio per salire più in alto sul fianco della montagna, fino alle grotte. Gli abitanti del villaggio erano là : gli uomini dormivano dopo una notte trascorsa a lavorare i campi, le donne cucinavano e cercavano di impedire ai bambini di andarsene in giro, le mucche erano chiuse nei recinti, le capre erano legate e i cani si disputavano gli avanzi. Probabilmente lì Jane era al sicuro perché i russi bombardavano i villaggi, non le pendici brulle dei monti: ma c’era sempre il pericolo che qualcuno sganciasse una bomba in un punto sbagliato e una grotta l’avrebbe protetta, a meno che non l’avessero centrata direttamente.
Non aveva ancora preso una decisione quando sentì il rombo dei jet. Socchiuse gli occhi controsole per guardarli. Il rombo dilagava nella valle, soffocando la voce tumultuosa del fiume, e gli aerei passavano sopra di lei, diretti verso nord-est. Erano ad alta quota, ma si stavano abbassando… uno, due, tre, quattro rapaci argentei, il culmine dell’ingegneria umana utilizzato per colpire contadini analfabeti e abbattere case di mattoni d’argilla, prima di tornare alla base alla velocità di quasi mille chilometri orari.
Sparirono in un minuto. Per quel giorno, Banda sarebbe stata risparmiata. Jane cominciò lentamente a rilassarsi. Gli aerei a reazione l’atterrivano. Banda era completamente sfuggita ai bombardamenti, la scorsa estate, e tutta la valle aveva avuto un po’ di tregua durante l’inverno; ma poi in primavera tutto era ricominciato, e Banda era stata colpita diverse volte, una proprio nel centro dell’abitato. Da quel giorno, Jane aveva odiato i reattori.
Il coraggio della gente del villaggio era sbalorditivo. Ogni famiglia si era fatta una seconda casa lassù nelle grotte; e ogni mattina saliva la collina per trascorrervi la giornata. Ritornava all’imbrunire, perché la notte i bombardieri non venivano. Lavorare di giorno nei campi era pericoloso, e perciò gli uomini lo facevano di notte… o più esattamente lo facevano i vecchi, perché i giovani erano quasi sempre via, a sparare ai russi all’estremità meridionale della valle o ancora più lontano. Quell’estate i bombardamenti erano più intensi che in tutte le zone in mano ai ribelli, secondo quello che Jean-Pierre aveva saputo dai guerriglieri. Se gli afgani delle altre parti del paese erano come quelli della valle, sarebbero riusciti ad adattarsi e a sopravvivere: avrebbero recuperato i pochi oggetti di valore tra le macerie delle case bombardate, ripiantato instancabilmente gli orti sventrati, curato i feriti e seppellito i morti… e avrebbero mandato i ragazzi sempre più giovani a raggiungere i capi guerriglieri. I russi non sarebbero mai riusciti a sconfiggere quella gente, pensava Jane, a meno che trasformassero l’intero territorio in un deserto radioattivo.
In quanto alla possibilità che i ribelli sconfiggessero i russi… ecco, era un’altra questione. Erano coraggiosi e indomabili, e controllavano la campagna: ma le tribù rivali si odiavano tra loro quasi quanto odiavano gli invasori, e i loro fucili non servivano molto contro i bombardieri a reazione e gli elicotteri blindati.
Jane si sforzò di non pensare alla guerra. Era l’ora più calda della giornata, il momento della siesta, quando era piacevole starsene sola a rilassarsi. Immerse la mano in una sacca di pelle di capra piena di burro chiarificato, incominciò a ungersi la pelle tesa del ventre enorme, e si chiese per l’ennesima volta come aveva potuto essere tanto stupida da restare incinta in Afghanistan.
Era arrivata con una scorta di pillole contraccettive per due anni, un diaframma e una intera scatola di spermicida; eppure, dopo pochissime settimane, aveva dimenticato di ricominciare a prendere le pillole dopo il ciclo mestruale, e poi aveva dimenticato più volte di mettere il diaframma. «Come hai potuto fare un errore simile?» aveva urlato Jean-Pierre, e Jane non aveva saputo cosa rispondere.
Ma ora, mentre stava distesa al sole, radiosamente incinta, con i bei seni inturgiditi e un mal di schiena incessante, si rendeva conto che era stato un errore voluto, imposto dall’inconscio. Aveva voluto un figlio, e sapeva che Jean-Pierre non lo voleva. E così ne aveva avuto uno, per caso.
Perché desideravo tanto un figlio? si chiese. E la risposta le balzò alla mente. Perché mi sentivo sola.
«È vero?» si chiese a voce alta. Sarebbe stata un’ironia. Non aveva mai sentito il peso della solitudine, a Parigi, anche se viveva sola e faceva la spesa solo per sé e si parlava allo specchio per farsi compagnia: ma adesso che era sposata e trascorreva tutte le sere e tutte le notti con il marito, e lavorava al suo fianco per quasi tutto il giorno, si sentiva isolata, impaurita e sola.
S’erano sposati a Parigi, poco prima della partenza. Le era sembrata una parte integrante dell’avventura, in un certo senso: un’altra sfida, un altro rischio, un’altra emozione. Tutti avevano detto che erano felici e splendidi e coraggiosi e innamorati. Ed era vero.
Senza dubbio, Jane s’era aspettata troppo. Aveva atteso con ansia l’evolversi dell’amore e dell’intimità con Jean-Pierre. Aveva creduto che le avrebbe parlato del suo primo amore infantile, e di ciò che gli faceva veramente paura; e lei gli avrebbe confidato che suo padre era stato un alcolizzato, e che aveva una fantasia ricorrente in cui veniva violentata da un negro e a volte si succhiava il pollice quand’era in ansia. Ma Jean-Pierre sembrava convinto che i loro rapporti, dopo il matrimonio, dovessero continuare come prima. La trattava con gentilezza, la faceva ridere con i suoi scherzi, si abbandonava inerte fra le sue braccia quand’era depresso, discuteva di politica e di guerra, faceva l’amore con lei una volta alla settimana, in modo esperto, con quel suo giovane corpo agile e quelle mani forti e sensibili da chirurgo, e continuava a comportarsi come amante, anziché come marito. Jane si sentiva ancora incapace di parlargli di piccole cose sciocche e imbarazzanti: se un turbante avrebbe fatto sembrare più lungo il suo naso, e quanto si era indignata quando l’avevano sculacciata per aver rovesciato l’inchiostro rosso sul tappeto del salotto e invece la colpevole era stata sua sorella Pauline. Avrebbe voluto chiedere a qualcuno: È così che deve essere, oppure in futuro andrà meglio? Ma i suoi amici e la sua famiglia erano tanto lontani, e le donne afgane avrebbero giudicato scandalose le sue pretese. Aveva resistito alla tentazione di affrontare Jean-Pierre per dirgli quant’era delusa; non l’aveva fatto, un po’ perché la sua insoddisfazione era così vaga, e un po’ perché temeva la risposta.
Ora, ripensandoci, si rendeva conto che l’idea d’un figlio le era balenata addirittura prima, quando aveva una relazione con Ellis Thaler. Quell’anno era andata in aereo da Parigi a Londra per il battesimo del terzogenito di sua sorella Pauline. Normalmente non l’avrebbe mai fatto, perché detestava quel genere di cerimonie familiari. E aveva persino incominciato a fare la babysitter per una coppia che abitava nel suo palazzo, un antiquario isterico e la moglie aristocratica; e le piaceva quando il piccolo strillava e doveva prenderlo in braccio per vezzeggiarlo e calmarlo.
E poi, lì nella valle, dove il suo compito consisteva nel convincere le donne a lasciar passare più tempo tra una gravidanza e l’altra per avere figli più sani, si era scoperta a condividere la gioia con cui veniva accolta ogni nuova creatura, anche nelle famiglie più povere e numerose. E così la solitudine e l’istinto materno avevano congiurato contro il buon senso.
C’era stato un momento, sia pure un istante fuggevole, in cui si era accorta che inconsciamente voleva restare incinta? Aveva pensato Potrei avere un figlio, nel momento in cui Jean-Pierre la penetrava lentamente, mentre lei lo stringeva a sé? Oppure in quell’attimo di esitazione, immediatamente prima dell’orgasmo, quando lui chiudeva gli occhi e sembrava rinchiudersi in se stesso, come un’astronave che precipita al centro di un sole; o forse dopo, mentre si abbandonava felice al sonno, con lo sperma ancora caldo dentro il suo grembo? «Me ne sono accorta?» disse a voce alta; ma il pensiero di fare l’amore la eccitò e incominciò ad accarezzarsi sensualmente con le mani unte di burro, e dimenticò l’interrogativo, lasciò che vaghe, turbinanti immagini di passione le invadessero la mente.
L’urlo dei reattori la ricondusse nel mondo della realtà . Spalancò gli occhi, spaventata, mentre altri quattro bombardieri sfrecciavano risalendo la valle e scomparivano. Quando il fragore cessò, Jane ricominciò ad accarezzarsi, ma ormai non era più nello stato d’animo adatto. Restò immobile al sole e pensò al bambino.
Jean...