Il libro delle estati
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Il libro delle estati

  1. 312 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il libro delle estati

Informazioni su questo libro

Cosa fare quando un passato lontano torna a bussare alla porta, facendo riemergere i ricordi più importanti?
È quello che succede a Beth Lowe, una giovane donna inglese che vive a Londra, quando il padre le consegna un pacco per lei proveniente dall'Ungheria. La sua prima reazione è di stupore e di rabbia: non vuole avere più niente a che fare con quel paese e con tutto quello che ha significato per lei. Una volta rimasta sola, però Beth apre il pacco e trova un album di fotografie e ricordi, il "Libro delle estati", creato dalla madre Marika nel corso degli anni, oltre a una lettera che le annuncia l'improvvisa morte della donna. Turbata ed esitante, Beth comincia a sfogliare l'album e, pagina dopo pagina, rivive le indimenticabili estati trascorse con la madre in Ungheria. Marika aveva deciso di tornare a vivere nel suo paese vent'anni prima, quando la figlia era ancora piccola, lasciandola in Inghilterra con il padre. Dopo il trauma iniziale Beth inizia a farle visita ogni anno in Ungheria durante le vacanze estive. Sono giornate meravigliose e bucoliche: Beth scopre il mondo, la natura, e si apre alla vita, accompagnata dall'affetto della sua vivace, fiera ed esotica madre ungherese e dall'amore tenero di Tamás, un ragazzino del posto.
L'ultima estate, quando Beth ha ormai sedici anni, succede però qualcosa che cambierà per sempre la sua esistenza e le farà troncare i rapporti con Marika e con quella terra. Fino a quando "Il libro delle estati" non riporta prepotentemente il passato al presente, vivido come un tempo.
Nella sua opera d'esordio, Emylia Hall tratteggia con tocco delicato e poetico i sentimenti contrastanti che accompagnano la crescita e la ricerca d'identità di una ragazzina divisa tra due mondi lontanissimi, l'Inghilterra e l'Ungheria, e soprattutto tra una madre irresistibile ma imperfetta e un padre affettuoso ma distante. Il libro delle estati è un romanzo di formazione evocativo e commovente, che restituisce con assoluta immediatezza la magia e l'ardore degli anni dell'infanzia e dell'adolescenza.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804620983
eBook ISBN
9788852027550

Emylia Hall

IL LIBRO DELLE ESTATI

Traduzione di Teresa Albanese

Mondadori
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

IL LIBRO DELLE ESTATI

Per Robin e la famiglia Hall
Quando tu sarai vecchia, tentennante
tra fuoco e veglia prendi questo libro,
leggilo senza fretta e sogna la dolcezza
dei tuoi occhi d’un tempo e le loro ombre.
W. B. YEATS, Quando tu sarai vecchia

PROLOGO

È nelle notti bianche come queste, quando fuori la neve preme contro gli infissi e la brina ricopre i vetri, che Marika prende il libro. Sfoglia le pagine e sparisce in quelle giornate piene di sole.
Ecco Erzsi al mattino presto, quando la luce morbida scioglieva la rugiada e li invitava tutti a uscire, con le guance arrossate. Eccola nel tardo pomeriggio, quando il caldo si faceva più feroce e li tramortiva, spingendoli a cercare un po’ di ristoro sul prato secco, nel laghetto del bosco, sotto le fronde delle acacie. Eccola nel lento calare della sera, quando il sole, sfinito, sprofondava dietro le colline evanescenti, e si ritrovavano a oziare sulla terrazza, crogiolandosi ai suoi ultimi raggi.
Marika osserva le fotografie e sente che loro, di sfuggita, ricambiano il suo sguardo.
Ha un rapporto strano con quel libro. Lo ha fatto lei, con dita ansiose e lacrime che sbavavano l’inchiostro, colori, colla, ritagli e frammenti. Ha scattato le foto senza farsi notare, per cui le immagini di quelle pagine sembrano segreti sussurrati. La copertina di stoffa è decorata con fiori, svolazzi e scarabocchi di un bianco scintillante, boccioli mai appassiti. Non come i fiori veri, quelli che si arrampicano sulla veranda e avvizziscono e muoiono al calare della sera. Ricorda come aveva mescolato i colori, come le era venuto il torcicollo a forza di chinarsi in modo scomposto sui fogli quadrati, la risata affettuosa di Zoltán quando le aveva visto spuntare la lingua dalle labbra per la concentrazione. Alle lettere aveva pensato dopo, per questo le parole erano disposte alla rinfusa tra i petali in uno scarabocchio storto e ondeggiante: Il libro delle estati. Un nome nato dalla gioia della prima, e dall’attesa di quelle che sarebbero venute.
Marika ama quel libro quasi quanto lo odia, perché sfogliarlo è come viaggiare nel tempo. Sfogliarlo la incatena.
Quelle fotografie pulsano di vita, la invitano a entrare. Sente il profumo della crema al cocco spalmata sulla pelle chiara per evitare un’esplosione di lentiggini. Sente il profumo del legno bruciato che resta impigliato tra i capelli, come dopo una danza tra le fiamme. Sente il profumo dei sorbetti alla ciliegia dal gusto dolce e pungente. China la testa sulle pagine, travolta dalle emozioni, e alla fine l’unico odore che riesce a percepire è quello della carta. Secco, stantio, privo di vita.
Sente una voce che chiama il suo nome. Chiude il libro e lo rimette sullo scaffale. Torna alla sua vita di adesso. La vita che, a un certo punto, ha scelto, lasciando perdere il resto. E tutto ciò che è perso rimane tra le pagine del libro.

1

Quel venerdì era iniziato come una tipica giornata estiva inglese, con un sole timido ma in ascesa e qualche lembo di nuvole che all’ora di colazione erano già state spazzate via. Aspettavo una visita di mio padre, quindi avrei dovuto sapere che, malgrado l’inizio promettente, non sarebbe mai stata una giornata normale. Era la prima volta che veniva a trovarmi a Londra, anche se io non mi ero certo trasferita da poco. A diciassette anni avevo deciso di frequentare l’accademia di belle arti e non avevo avuto dubbi sul fatto che dovesse essere a Londra. Avevo voglia di perdermi, e quello sembrava il luogo ideale. Ricordo il giorno in cui me n’ero andata di casa, dodici anni prima. Mio padre era in piedi accanto alla macchina nel parcheggio della stazione, con una mano nodosa sollevata in segno di saluto, mentre l’altra già frugava in tasca alla ricerca delle chiavi. Poi ricordo il borbottio dello scarico quando mi passò di fianco all’ingresso della stazione, senza neanche vedermi perché era curvo sul volante come se fosse in ritardo. Lo guardai andare via, tutto ciò che restava della mia famiglia.
Famiglia. Una parola che mi ha sempre messo in imbarazzo. Per qualcun altro significherà cene sconclusionate con i gomiti sul tavolo e vecchie battute rigirate e stiracchiate come l’impasto da infornare. O zie rimbambite e zii dalla pazienza infinita, abiti fuori moda e baffi flosci, la stretta soffocante di un abbraccio affettuoso. O anche soltanto una casa su una strada. Impronte di mani impresse nel cemento fresco. Le corde sfilacciate e aggrovigliate di una vecchia altalena sul ramo di un melo. Per me, invece? Niente di tutto questo. È una parola che mi disfa, come un filo tirato da un maglione che ti si srotola nelle mani, dipanandosi in fretta.
Dai tempi dell’accademia, avevo vissuto su entrambe le sponde del fiume, in appartamenti minuscoli o villette sconfinate, da sola in un umido seminterrato a Bloomsbury o con altre sette persone in una casa diroccata ma un tempo lussuosa ai margini di Camden. La mia ultima casa era una dignitosa casa a schiera a Mile End, con un giardinetto incolto e uno gnomo abbandonato. La mia coinquilina Lily cantava Frank Sinatra mentre faceva il bagno e portava un caschetto nero pece, lucido come la melassa. La nostra via si snodava all’ombra di un ammasso di alti caseggiati e a tre porte di distanza dalla nostra c’era una Fiat abbandonata da chissà quando, con il lunotto posteriore crepato come una pista di pattinaggio sul ghiaccio. Una volta avevo visto un gatto bianco e nero disteso sul marciapiede, morto, un’immagine che non ero più riuscita a levarmi dalla testa. Un’altra volta, uscendo dal portone, avevo trovato uno stormo di piccioni che beccava la carcassa di un pollo arrosto. Me l’ero filata fingendo di non vedere, come un cittadino frenetico che preferisce chiudere un occhio davanti al crimine. Solo cinque minuti in bicicletta, però, e potevo ritrovarmi a pancia all’aria a Victoria Park, con un mucchio di libri e riviste. Mi fermavo in un bar dove quando il sole splendeva la padrona mi offriva una tazza di caffè e mi sedevo a un tavolino traballante mentre lei fumava sigarette da quattro soldi nel suo grembiule azzurro. Lì, tutto sommato, mi sentivo a casa. Era un posto in cui sentivo di poter accogliere mio padre senza che entrassero in gioco sentimenti più complicati.
Mio padre era sempre stato più vecchio degli altri padri e, quando ero piccola, mi faceva ridere dicendo che era nato anziano, tanto che nella culla gli occhiali gli scivolavano dal naso e aveva già le ginocchia grinzose. Mentre gli altri papà urlavano e ridevano, indossavano i Levi’s e nei giorni d’estate costruivano scivoli acquatici con la tela cerata, mio padre si chiudeva nello studio, con le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti, immerso nei suoi libri. Ogni tanto andavo a stanarlo, guidata dal tonfo delicato di una porta o da uno scricchiolio delle scale. Lui mi sfiorava la guancia con un dito chiamandomi la sua piccola Betty, e io mi aggrappavo ai suoi pantaloni di velluto.
A colazione, gli spalmavo la marmellata sul toast e poi glielo servivo, rossa di premura. Lui apriva le nuove scatole dei cereali, lottava con il sacchetto interno di plastica, mi versava i cornflakes nella tazza e ne rubava uno per sé. La domenica sera mi stirava i vestiti per la scuola e li appendeva con cura su grucce con decorazioni di roselline, la parte posteriore ancora sgualcita. A volte, tornando a casa, trovavo un regalo sul tavolo della cucina, sempre nello stesso angolo in fondo. Un libro di storia. Un nuovo quaderno a righe. Tre matite con la punta appena fatta. Facevamo il tè, leggevamo insieme filastrocche nonsense e io me ne andavo a letto sognando Quangle Wangle e una magnifica barca verde pisello.
Andavamo d’amore e d’accordo e sembravamo davvero felici.
Poi le regole erano cambiate. Il discorso era questo: di certe cose parlavamo, di altre no. Finché i confini venivano rispettati, tutto andava a meraviglia, e quello che avrebbe potuto essere un rapporto complicato diventava incredibilmente semplice. Il nostro patto non era il frutto di una progressiva trasformazione, ma era nato da una crisi improvvisa, affrettato da spargimenti di lacrime e promesse infrante, quando avevo sedici anni. Da allora, ci legava una muta complicità, e tutto filava liscio.
Lui non era mai stato il tipo da presentarsi a Londra all’improvviso. I nostri sporadici incontri erano programmati con largo anticipo, ed ero sempre io ad andare a trovarlo nel Devon. “Non sono tagliato per Londra, Beth” ripeteva, e per me era un sollievo che non fosse uno di quei genitori entusiasti, con la smania continua di fare proposte e suggerire programmi. La madre di Lily non faceva che sfogliare il giornale a caccia di nuove mostre e spettacoli, in cerca di scuse per venire a farci visita. Arrivava più o meno una volta ogni due mesi, e Lily in quelle occasioni si trasformava in una turista. Insieme, varcavano la soglia con le borse di Harrods e del Victoria and Albert Museum piene da scoppiare. Prendevano il taxi e andavano a vedere un balletto. Mangiavano nei ristoranti di cui si parlava e a volte mi invitavano a unirmi a loro per il dessert. Con lo stesso zelo, la madre di Lily si dedicava anche al nostro spazio domestico. Strofinava il lavello fino a farlo risplendere, e sostituiva i nostri spazzolini masticati con esemplari nuovi di zecca. Ci comprava pacchi di carta igienica e flaconi di sapone giganti, come se abitassimo in un posto sperduto sulle montagne e rischiassimo di restare bloccate dalla neve. Io osservavo il fenomeno con interesse. Mi chiedevo cosa si provasse ad avere le vite dei genitori così intrecciate alla propria. I tentacoli della madre di Lily raggiungevano persino me, ma per qualche motivo il suo modo di coinvolgermi mi faceva sentire più sola di quanto mi fosse mai capitato prima. Prima di scoprire che avevo bisogno di uno spazzolino nuovo, o di una fetta di torta Pavlova segnalata sulla guida Michelin.
Insomma, per me era stata una sorpresa quando mio padre, tre giorni prima, mi aveva telefonato per annunciarmi che sarebbe venuto a trovarmi quello stesso weekend. “Che fai di bello venerdì? Sei libera?” mi aveva chiesto. Era un territorio inesplorato, che lui violava con nonchalance e una punta di disagio. Per combinazione, avevo un giorno di ferie. Lavoravo in una galleria, e quindi spesso ero impegnata nei weekend, ma quella settimana mi erano stati concessi due rari giorni di libertà. Avevo immaginato un’indolente colazione al chiosco del parco, un giro in bicicletta lungo l’alzaia del canale, un pomeriggio in un soleggiato bar all’aperto, con gli amici che erano abituati a non lavorare nei weekend, ma erano ugualmente ansiosi di festeggiare l’occasione. Eppure avevo risposto, affettando un tono gioviale: “Certo che sono libera, papà, vieni quando vuoi”. Mi ero offerta di andarlo a prendere a Paddington e lui era scoppiato a ridere, dicendo di non essere ancora decrepito. Allora ne avevo approfittato per chiedergli: “Va tutto bene?”, e lui mi aveva risposto “Ma certo”, aggiungendo: “Ho voglia di vederti, tutto qui”. Sul momento, mi era sembrato tutto abbastanza logico: inatteso, ma quasi credibile. Dopo aver riattaccato, non avevo potuto evitare di provare un bizzarro misto di euforia e timore, che avevo deciso di tenere a bada con la forza della rimozione. Mi ero tuffata nei libri di ricette. Invece di passare i tre giorni successivi a rimuginare sui vari scenari che potevano aver provocato quella visita, avevo cucinato, infornato, spolverato, sentendomi una brava figliola come non mi capitava da tempo.
A quanto pare c’era aria di trasferte improvvisate, perché Lily mi annunciò che nel weekend sarebbe andata in barca con il suo nuovo ragazzo, Sam. Me la immaginai che rideva nella brezza, in mezzo al vento e alla salsedine. Mi dispiaceva che non restasse a casa. Mio padre sarebbe stato felice di conoscerla, e io sarei stata ben contenta di vederla prendere le redini della conversazione, mandandola avanti senza intoppi.
“Ci sarà anche quel ragazzo, Jonathan?” aveva chiesto mio padre al telefono, e mi era toccato ricordargli che io e Johnny ci eravamo lasciati sei mesi prima. Lui dimenticava spesso questo genere di cose, e da parte mia gliene parlavo di sfuggita, se mai lo facevo. Johnny era uno svogliato insegnante di geografia alla scuola media di Lambeth, con la barba incolta e gli occhi ridenti. Eravamo stati insieme per quasi due anni, e in quel periodo credo di non essere mai arrivata a definirmi come la sua ragazza, cosa che in un certo senso non mi era mai importata. Un giorno mi aveva detto che partiva per un viaggio in Sudamerica, chiedendomi se volevo seguirlo. Io ci avevo pensato, mentre lo ascoltavo parlare di cascate vertiginose e giungle tanto fitte da essere buie di giorno come di notte. Alla fine, tuttavia, avevo rifiutato, ed era stato più facile del previsto. Quella notte avevamo fatto l’amore per l’ultima volta, e alla fine Johnny era crollato sul mio petto e io avevo chiuso gli occhi, avvolgendolo con un braccio come se fosse lui a dover essere consolato. Come se fossi io quella che se ne andava. Il giorno della partenza mi aveva preso il mento tra il pollice e l’indice e mi aveva guardato dritto negli occhi. “Penso di averti conosciuto poco” aveva detto, poi, con più sicurezza, aveva aggiunto: “Ma penso di essermi avvicinato più di chiunque altro, Beth. Penso di conoscerti meglio di quanto tu creda”. Io avevo chiuso gli occhi e, riaprendoli, avevo capito che non sarei più stata il suo enigma. Se n’era andato per sempre.
Ragionando su quel che avrei potuto fare con mio padre durante la sua permanenza, la prima cosa a venirmi in mente fu la galleria. Si trovava dalle parti di Brick Lane, in uno spazio che mi piaceva molto. Le enormi vetrate lasciavano entrare un sacco di luce e dentro si provava una sensazione organica, quasi l’impressione di essere finiti in una radura assolata in mezzo a un bosco fitto e oscuro. Da studentessa, pensavo che l’arte esistesse per mostrare alla gente qualcosa di nuovo, non di vecchio, e non avevo rinunciato a quell’idea. Nell’ultima settimana, però, avevamo ospitato la mostra di tre paesaggisti. I loro soggetti soavi e pastorali erano diversi dalle nostre solite opere, ma Luca, il proprietario, un giorno si era svegliato provando nostalgia per qualcosa, così aveva detto, di “più gentile”, che “evocasse tempi tutto sommato più semplici”. Pensavo che a mio padre quei lavori sarebbero piaciuti, che si sarebbe avvicinato alla tela per ammirare la curva di una collina, o un albero in fiore in mezzo a un campo piatto come una frittella. Nei dipinti avrebbe visto qualcosa del Devon e magari, chissà, si sarebbe sentito a casa. E a me avrebbe fatto piacere mostrargli finalmente il mio posto di lavoro. Lui non c’era mai stato, ed ero certa che se lo immaginasse pieno di manichini smembrati e spruzzi inconsulti di vernice, il genere di cose che gli capitava di vedere sui supplementi domenicali dei giornali.
Per la serata, avevo comprato a una bancarella di Roman Road qualche vecchio film in bianco e nero, con colonne sonore inquietanti e rumori di passi nella notte. Piazzarci di fronte al televisore era una delle cose che avevamo sempre fatto insieme, parlando del più e del meno, contenti di qualsiasi programma trasmettessero. Per la cena avevo preparato una grossa pentola di chili e comprato le tortillas nel negozio messicano in un vicolo dietro a Bethnal Green. Non aveva detto quanto sarebbe rimasto, ma per sicurezza avevo preparato asciugamani e lenzuola pulite. Avevo eliminato i volantini pubblicitari che tappezzavano il pavimento del corridoio e sistemato un mazzo di tulipani sul tavolo della cucina
C’è una triste poesia nell’essere ignari di ciò che ci aspetta. Prima di ogni catastrofe che ci investe, c’è stato un tempo in cui non sospettavamo nulla. All’epoca non ci rendevamo conto di quanto fossimo felici. Se solo potessimo imparare a celebrare le giornate normali, quelle che iniziano senza eventi degni di nota e continuano senza infamia né lode. Giornate come tante, in cu...

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