
- 406 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il rapporto Pelican
Informazioni su questo libro
Gli uomini migliori dell'FBI indagano sull'omicidio di due giudici della Corte Suprema avvenuto nella stessa notte. Ma sarà una studentessa in legge a trovare il bandolo dell'intricata matassa in cui sono coinvolti i massimi vertici dello stato.
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Informazioni
1
A guardarlo non si sarebbe certo detto che fosse capace di causare un tale trambusto, ma quello che vedeva là sotto era in gran parte imputabile a lui. E andava bene così. Aveva novantun anni, era paralizzato, inchiodato su una sedia a rotelle e collegato a una bombola di ossigeno. Il secondo ictus, sette anni prima, aveva rischiato di ucciderlo, ma Abraham Rosenberg era ancora vivo, e perfino con i tubicini nel naso la sua autorevolezza in campo legale era superiore a quella degli altri otto giudici. Era l’unica leggenda che restava alla Corte, e il fatto che respirasse ancora esasperava gran parte della folla in tumulto.
Stava su una piccola sedia a rotelle in un ufficio al piano terreno del palazzo della Corte Suprema. Toccava con i piedi la finestra e si sforzava di tendersi in avanti mentre cresceva il baccano. Detestava i poliziotti; eppure vederli schierati in file compatte e ordinate gli dava una sensazione di sicurezza. Rimanevano immobili sulle loro posizioni mentre una folla di almeno cinquantamila persone urlava la sua sete di sangue.
«Non ne avevo mai visti tanti!» gridò Rosenberg verso la finestra. Era quasi sordo. Jason Kline, il suo assistente anziano, era in piedi dietro di lui. Era il primo lunedì di ottobre, il giorno dell’inizio del nuovo mandato, ed era diventato una celebrazione tradizionale del Primo Emendamento. Una celebrazione solenne. Rosenberg era eccitato. Per lui libertà di parola significava libertà di organizzare tumulti.
«Ci sono gli indiani?» chiese alzando la voce.
Jason Kline si chinò per parlargli all’orecchio destro. «Sì!»
«Con i colori di guerra?»
«Sì! In tenuta da combattimento.»
«E stanno danzando?»
«Sì.»
Gli indiani, i neri, i bianchi, i bruni, le donne, i gay, gli amanti degli alberi, gli animalisti, i sostenitori della supremazia dei bianchi, i sostenitori della supremazia dei neri, i contestatori fiscali, i tagliaboschi, gli agricoltori… era una marea imponente di protesta. E i poliziotti anti-disordini impugnavano gli sfollagente neri.
«Gli indiani dovrebbero amarmi!»
«Ne sono sicuro.» Kline annuì e sorrise all’ometto fragile che stringeva i pugni. La sua era un’ideologia molto semplice: il governo aveva la precedenza sugli affari, l’individuo sul governo, l’ambiente su tutto. In quanto agli indiani… dategli tutto ciò che vogliono.
Le grida, le preghiere, i canti, il salmodiare e gli urli diventarono ancora più forti, e i poliziotti serrarono le file senza darlo troppo a vedere. La folla era più numerosa e agitata che negli anni precedenti. L’atmosfera era più tesa. La violenza era all’ordine del giorno. Erano state piazzate bombe in molte cliniche abortiste, parecchi medici erano stati aggrediti e picchiati. Uno, anzi, era stato ucciso a Pensacola, imbavagliato e legato in posizione fetale e bruciato con l’acido. Gli scontri per le strade erano avvenimenti di ogni settimana. Chiese e preti erano stati attaccati da gay militanti. I sostenitori della supremazia bianca agivano attraverso una decina di note organizzazioni paramilitari abbastanza confuse, e si erano fatti più audaci negli assalti contro neri, ispanici e asiatici. L’odio era ormai diventato il passatempo prediletto dell’America.
E naturalmente la Corte era un bersaglio facile. Dopo il 1990 le minacce gravi contro i giudici erano decuplicate. La polizia della Corte Suprema aveva triplicato gli effettivi. Almeno due agenti dell’Fbi erano stati assegnati alla protezione di ogni giudice, mentre altri cinquanta erano occupati a fare indagini sulle minacce.
«Mi odiano, non è vero?» chiese Rosenberg a voce alta mentre guardava dalla finestra.
«Sì, qualcuno sì» rispose Kline con aria divertita.
A Rosenberg piaceva sentirselo dire. Sorrise e aspirò profondamente. L’ottanta per cento delle minacce di morte era indirizzato a lui.
«Vede qualche cartello?» chiese. Era semicieco.
«Sì, parecchi.»
«Cosa dicono?»
«Le solite cose. A morte Rosenberg. Rosenberg, vai in pensione. Toglietegli l’ossigeno.»
«Sono anni che sventolano gli stessi maledetti cartelli. Perché non ne fanno di nuovi?»
L’assistente non rispose. Abe si sarebbe dovuto ritirare già da anni; ma un giorno l’avrebbero portato fuori su una barella. I suoi tre assistenti svolgevano quasi tutte le ricerche, ma Rosenberg si ostinava a voler scrivere personalmente i suoi pareri. Con un grosso pennarello scribacchiava le parole su un blocco per appunti a fogli bianchi, come un alunno della prima elementare che impara a scrivere. Lavorava lentamente; ma dato che la sua era una carica a vita, il tempo non aveva molta importanza. Gli assistenti controllavano i suoi pareri e molto di rado scoprivano qualche errore.
Rosenberg ridacchiò. «Dovremmo gettare Runyan in pasto agli indiani.» Il primo giudice era John Runyan, un conservatore inflessibile nominato da un repubblicano e odiato dagli indiani e da quasi tutte le altre minoranze. Sette giudici su nove erano stati nominati da presidenti repubblicani. Erano quindici anni che Rosenberg aspettava un democratico insediato alla Casa Bianca. Voleva andarsene, ne sentiva il bisogno, ma non sopportava l’idea che un tipo di destra come Runyan occupasse il suo seggio amatissimo.
Poteva aspettare. Poteva starsene lì sulla sedia a rotelle, respirare l’ossigeno e proteggere gli indiani, i neri, le donne, i poveri, gli handicappati e l’ambiente fino a quando fosse arrivato a centocinque anni. E nessuno al mondo avrebbe potuto impedirglielo, a meno di ucciderlo. E non sarebbe stata una cattiva idea.
La testa del grand’uomo ciondolò, tremolò e si appoggiò sulla spalla. Si era riaddormentato. Kline si scostò senza far rumore e proseguì la ricerca nella biblioteca. Sarebbe tornato fra mezz’ora per controllare l’ossigeno e dare le pillole ad Abe.
L’ufficio del primo giudice è al piano terreno, ed è più grande e lussuoso degli altri otto. L’anticamera viene utilizzata per piccoli ricevimenti e riunioni ufficiali, e il primo giudice lavora nell’ufficio interno.
La porta dell’ufficio interno era chiusa, e dentro c’erano il primo giudice, i suoi tre assistenti, il capitano della polizia della Corte Suprema, tre agenti dell’Fbi e K.O. Lewis, vicedirettore dell’Fbi. L’atmosfera era solenne, e tutti facevano il possibile per ignorare il chiasso che saliva dalle strade. Ma era difficile. Il primo giudice e Lewis discutevano l’ultima serie delle minacce di morte, e tutti gli altri ascoltavano. Gli assistenti prendevano appunti.
Nei sessanta giorni precedenti l’Fbi aveva registrato più di duecento minacce, un nuovo primato. C’era il solito assortimento di lettere minatorie che incitavano “Fate saltare in aria la Corte!” ma molte erano più precise e indicavano nomi, cause, problemi.
Runyan non cercava di nascondere la sua ansia. Aveva davanti un rapporto riservato dell’Fbi e leggeva i nomi degli individui e delle organizzazioni sospettati di avere inviato le minacce. Il Ku Klux Klan, gli ariani, i nazisti, i palestinesi, i separatisti neri, i difensori della vita, gli omofobici. Perfino l’Ira. Sembrava che ci fossero tutti, tranne il Rotary e i boy scout. Un gruppo medio-orientale spalleggiato dagli iraniani aveva minacciato di spargere sangue sul suolo americano come rappresaglia per la morte di due ministri della Giustizia a Teheran. Non esisteva neppure l’ombra di un indizio che potesse collegare quegli omicidi alla nuova unità di terroristi americani di fama recente, chiamata Underground Army, Esercito Clandestino, che aveva ucciso nel Texas un giudice federale con un’autobomba. Non c’erano stati arresti, ma l’UA aveva rivendicato l’attentato. Inoltre, era sospettato di una dozzina di esplosioni avvenute negli uffici dell’Aclu, ma faceva sempre lavori molto puliti, senza lasciare tracce.
«E i terroristi portoricani?» chiese Runyan senza alzare gli occhi.
«Non hanno molto peso. Non sono loro, quelli che ci preoccupano» rispose K.O. Lewis con noncuranza. «Continuano a minacciare da vent’anni.»
«Be’, forse stavolta hanno fatto qualcosa. Il clima è quello giusto, non le sembra?»
«Lasci perdere i portoricani, capo.» A Runyan piaceva sentirsi chiamare capo. Non signor primo giudice, ma semplicemente capo. «Quelli minacciano solo perché lo fanno tutti gli altri.»
«Molto divertente» disse senza sorridere. «Molto divertente. Mi dispiacerebbe se qualche gruppo restasse escluso.» Runyan buttò il rapporto sulla scrivania e si massaggiò le tempie. «Parliamo della sicurezza.» E chiuse gli occhi.
K.O. Lewis posò la sua copia del rapporto sulla scrivania del capo. «Ecco, il direttore pensa che dovremmo assegnare quattro agenti a ogni giudice, almeno per i prossimi novanta giorni. Ci serviremo di berline scortate per andare e tornare dal lavoro, e la polizia della Corte Suprema garantirà il suo appoggio e la sicurezza del palazzo.»
«E i viaggi?»
«Viaggiare non sarebbe una buona idea, almeno per il momento. Il direttore pensa che i giudici dovrebbero restare nell’area del Distretto di Columbia sino alla fine dell’anno.»
«Ma siete ammattiti tutti e due? Se chiedessi ai miei colleghi di accettare la sua richiesta, stasera stessa lascerebbero tutti la città e per il mese prossimo non farebbero altro che viaggiare. È assurdo.» Runyan aggrottò la fronte e guardò gli assistenti che scossero la testa con aria disgustata. Era decisamente assurdo.
Lewis non si scompose. Lo aveva previsto. «Come vuole. Era solo un suggerimento.»
«Un suggerimento sciocco.»
«Il direttore non si aspettava la sua collaborazione, in questo. Ma vuole essere informato in anticipo di tutti i viaggi in programma, in modo che possiamo garantire un servizio di sicurezza.»
«Vuole dire che ha intenzione di far scortare ogni giudice tutte le volte che lascia la città?»
«Sì, capo. È quello che intendiamo fare.»
«Sarà inutile. Non è gente abituata ad avere intorno la baby-sitter.»
«Sì, signore. E non sono neppure abituati a trovarsi nel mirino. Noi stiamo solo cercando di proteggere lei e i suoi onorevoli colleghi, signore. Naturalmente, nessuno dice che siamo obbligati a fare qualcosa. Mi pare, signore, che sia stato lei a chiamarci. Se vuole, possiamo anche andarcene.»
Runyan si sporse un po’ in avanti e si dedicò a un fermaglio armeggiando fino a cercare di raddrizzarlo perfettamente. «E qui intorno?»
Lewis sospirò e quasi sorrise. «Non siamo preoccupati per il palazzo, capo. È facile da difendere. Non è qui che ci aspettiamo guai.»
«Dove, allora?»
Lewis indicò la finestra con un cenno. Il chiasso era ancora più forte. «Là fuori, da qualche parte. Le strade sono piene di idioti, di pazzi e di fanatici.»
«E ci odiano tutti.»
«È evidente. Mi ascolti, capo. Siamo molto preoccupati per il giudice Rosenberg. Continua a rifiutarsi di lasciar entrare i nostri in casa sua, e li costringe a restare seduti in macchina tutta la notte in mezzo a una strada. È disposto a permettere che il suo agente preferito della Corte Suprema, Ferguson, mi sembra, stia vicino alla porta di servizio, ma solo dalle dieci di sera alle sei del mattino. Nessuno può entrare in casa tranne il giudice Rosenberg e il suo infermiere. Non è un posto sicuro.»
Runyan si pulì le unghie con il fermaglio e sorrise vagamente tra sé. Se Rosenberg fosse morto, in qualunque modo, sarebbe stato un sollievo. No, sarebbe stata una fortuna. Lui avrebbe dovuto vestirsi di nero e tenere un elogio funebre, ma poi, a porte chiuse, avrebbe riso con i suoi assistenti. Era una prospettiva gradevole.
«Cosa mi consiglia?» chiese.
«Non può parlargli?»
«Ho provato. Gli ho spiegato che probabilmente è l’uomo più odiato d’America, che milioni di persone lo maledicono ogni giorno, che la maggioranza della gente vorrebbe vederlo morto, che riceve lettere minatorie in numero quattro volte superiore a tutti noi messi insieme, e che sarebbe il bersaglio ideale per un attentato.»
Lewis attese un attimo. «E allora?»
«Mi ha mandato al diavolo e si è addormentato.»
Gli assistenti ridacchiarono doverosamente; poi gli agenti dell’Fbi si resero conto che le spiritosaggini erano permesse, e si associarono in una breve risata.
«E allora cosa facciamo?» chiese Lewis, che non si divertiva per niente.
«Lo protegga meglio che può, lo dichiari per iscritto, e non si preoccupi. Quello non ha paura di niente, neppure della morte. E se non suda lui, perché dovrebbe farlo ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Il rapporto Pelican
- Capitolo 1
- Capitolo 2
- Capitolo 3
- Capitolo 4
- Capitolo 5
- Capitolo 6
- Capitolo 7
- Capitolo 8
- Capitolo 9
- Capitolo 10
- Capitolo 11
- Capitolo 12
- Capitolo 13
- Capitolo 14
- Capitolo 15
- Capitolo 16
- Capitolo 17
- Capitolo 18
- Capitolo 19
- Capitolo 20
- Capitolo 21
- Capitolo 22
- Capitolo 23
- Capitolo 24
- Capitolo 25
- Capitolo 26
- Capitolo 27
- Capitolo 28
- Capitolo 29
- Capitolo 30
- Capitolo 31
- Capitolo 32
- Capitolo 33
- Capitolo 34
- Capitolo 35
- Capitolo 36
- Capitolo 37
- Capitolo 38
- Capitolo 39
- Capitolo 40
- Capitolo 41
- Capitolo 42
- Capitolo 43
- Capitolo 44
- Capitolo 45
- Copyright