
- 252 pagine
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Anniversario fatale (Urania)
Informazioni su questo libro
Hodgins McCormick è uno storico nordista che vive in una versione "parallela" degli Stati Uniti dove il Sud ha vinto la Guerra Civile. Ma quando McCormick, usando la macchina del tempo, torna al momento della battaglia di Gettysburg e casualmente ne cambia le sorti, ecco nascere la nostra linea temporale: un corso storico che non prevede la scoperta dei viaggi nel passato e intrappola McCormick in una realtà per lui nuova, ricca di sviluppi inaspettati. Allo storico di professione non rimane altra scelta che scrivere un resoconto di quello che era stato il suo tempo alternato, offrendoci in questo modo un affascinante esempio di storia "parallela".
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
FantascienzaANNIVERSARIO
FATALE
Traduzione di Marzio Tosello

1
Malgrado stia scrivendo queste pagine nell’anno 1877, non nascerò fino al 1921. Né le date né i tempi dei verbi sono sbagliati: lasciatemi spiegare.
Come ho detto, nascerò nel 1921, ma fu soltanto al principio degli anni Trenta, quando avevo all’incirca dieci anni, che cominciai a rendermi conto di quanto fosse misero e infelice il mondo che mi circondava. Forse giunsi a questa constatazione attraverso il ritratto a pastello di nonno Hodgins che pende, con grande solennità, sopra il camino.
Nonno Hodgins, dal quale ho preso, certo con un po’ di magniloquenza, il nome Hodgins McCormick Backmaker, era un veterano della Guerra d’indipendenza sudista. Come molti altri giovani aveva indossato la divisa blu per rispondere all’appello dello sconsiderato quanto testardo signor Lincoln (che alcuni preferiscono definire martire; dipende solo dal punto di vista da cui uno guarda le cose).
Il nonno aveva perso un braccio durante la Grande ritirata da Filadelfia, dopo che Washington era caduta nelle mani vittoriose dell’armata della Virginia del Nord comandata dal generale Lee. La guerra, per il soldato Hodgins, era così finita sei mesi prima della capitolazione avvenuta a Reading, e del riconoscimento dell’indipendenza degli Stati Confederati il 4 luglio 1864. Amareggiato e mutilato, il nonno era tornato a casa, a Wappinger Falls, e come molti altri veterani aveva cercato di rifarsi una vita in un mondo ormai diverso e senza più speranze.
Da questo punto di vista la pace di Richmond era da considerarsi giusta e persino generosa per gli sconfitti. Tutt’e due i belligeranti, per motivi contrapposti, ricordavano l’ammutinamento delle armate confederate del Cumberland e del Tennessee che, malgrado la sconfitta subita a Chattanooga e l’ordine di resa, avevano continuato a combattere sanguinosamente. Il Sud avrebbe potuto facilmente suddividere la nazione, così come avrebbero voluto i suoi più fanatici patrioti, fino al punto da staccare l’Ovest e farne un protettorato. Invece, i cavallereschi sudisti si contentarono di tracciare i nuovi confini seguendo quelli tradizionali. La linea Mason-Dixon assegnò loro il Delaware e il Maryland, ma essi generosamente restituirono i terreni paludosi a ovest della Virginia che non erano inclusi nel tracciato. Naturalmente il Missouri venne incluso nella Confederazione, e i contesi territori del Colorado e del Deseret vennero lasciati alla vecchia Unione; solo il Kansas e la California (unitamente, per comprensibili ragioni di difesa, all’estremità del Nevada) vennero assegnati al Sud.
Ma la pace di Richmond aveva fatto gravare sullo sconfitto Nord le spese di guerra, questo angosciava nonno Hodgins più della perdita del braccio. L’inflazione postbellica, galoppante sotto l’amministrazione Vallandigham, si fece vertiginosa all’epoca del presidente Seymour fino a divenire la diretta conseguenza dei gravi disordini del ’73 e del ’74. Fu solo dopo che i whigs riuscirono a eleggere Butler alla presidenza nel 1876 che si diede l’avvio a un’energica politica deflazionistica e la moneta e le proprietà acquisirono stabilità. Ma a quel momento tutti i valori normali erano già stati distrutti. Frattanto, le indennità di guerra continuavano a essere pagate in oro. Il nonno, e centinaia d’altri come lui, non riuscirono mai a rifarsi del tutto.
Da quello che ricordo, ero un ragazzino durante gli anni ’20 e ’30, i miei genitori parlavano sempre con amarezza di quanto la guerra avesse rovinato tutto. E non parlavano della recente Guerra degli imperatori, quella del 1914-16, ma di quella d’indipendenza sudista che ancora, a circa settant’anni di distanza, impediva la prosperità di quanto era rimasto degli Stati Uniti.
Né loro erano gli unici a pensarla così. Gli uomini che bighellonavano nella fucina mentre mio padre ferrava loro i cavalli, quelli che aspettavano nei pressi dell’ufficio postale, tutti i mesi, la notizia di una vincita alla lotteria che li avrebbe risollevati, anche loro maledicevano spesso i confederati o discutevano su cosa sarebbe potuto succedere se Meade fosse stato un generale migliore o se Lee fosse stato peggio di quello che era, e parlavano anche dei nuovi modelli di bicicletta con meccanismi particolari che rendevano più facile pedalare su per le colline, oppure dell’ultimo scandalo dell’imperatore dei francesi, Napoleone VI.
Ascoltandoli, cercavo di immaginarmi come poteva essere stata la vita ai tempi di nonno Hodgins; di visualizzare il lontano passato, quella strana era così vivida in cui, incredibile ma vero, la gente come noi e i nostri vicini possedeva le proprie fattorie senza che fossero gravate da ipoteche né dissanguate dalle tasse. Nei lineamenti a pastello che componevano la faccia di nonno Hodgins cercavo qualche segno che lo differenziasse dai suoi discendenti.
— Ma “cosa” ha fatto per perdere la fattoria? — chiedevo alla mamma.
— Cosa? Niente ha fatto. Non c’è riuscito. E adesso togliti di torno: ho un sacco di lavoro da sbrigare, io.
Come poteva essere che nonno Hodgins non avesse colpa di quello che gli era successo? Non riuscivo proprio a capirlo così e nello stesso modo non riuscivo a capire come nel passato un uomo avesse potuto avere un lavoro il cui salario fosse sufficiente a mantenere lui e la sua famiglia, prima che il sistema del lavoro a contratto divenisse così comune che praticamente la sola alternativa alla povertà era quella di vendersi a una compagnia.
Quel sistema lo capivo bene, perché c’era una fabbrica a Wappinger Falls che produceva vestiti scadenti molto diversi da quelli che la mamma confezionava col suo telaio a mano. Mamma, che era vicina alla cinquantina, avrebbe potuto venderli a ottimi prezzi, e anche lei ammetteva che il lavoro sarebbe stato più facile che il tessere da sé le stoffe per competere con i prodotti della Compagnia. Ma, com’era solita dire crollando ostinatamente la testa, “libera sono nata e libera morirò”.
Ai tempi di nonno Hodgins, se dovevo credere a quel che diceva la gente o alle dicerie familiari, ci si sposava giovani e si creavano grandi famiglie; ci sarebbero dovute essere almeno cinque generazioni fra lui e me anziché due. Con molti zii e zie, cugini, fratelli e sorelle. Ora ci si sposava più tardi, e un solo figlio era la regola.
Se non ci fosse stata la guerra... Era questo il ritornello che si sentiva in tutte le occasioni. Se non ci fosse stata la guerra, gli uomini e le donne migliori non sarebbero emigrati: i turisti non sarebbero venuti come se dovessero visitare un ghetto, e le grandi potenze ci avrebbero pensato due volte prima di mandare le loro truppe a ristabilire l’ordine ogni volta che uno dei loro cittadini veniva importunato.
Se non fosse stato per la guerra, quel destestabile individuo di Boston (detestabile per mia madre ma abbastanza affascinante per me, con quel panciotto dai colori vivaci e il profuno di saponetta e di lozione per capelli) non sarebbe venuto regolarmente a comperare per una miseria le stoffe.
— Uno straniero! — esclamò lei una volta, dopo che quello se n’era andato. — Uno che spedisce le merci migliori fuori dal paese.
— Fa soltanto quello per cui è pagato — obiettò una volta mio padre.
— Fidati di un Backmaker se vuoi tenere alla larga gli stranieri. Tale il padre, tale il figlio. Scommetto che lasceresti entrare una banda di ladri se ci vedessi un tornaconto.
Quello fu il primo cenno allo scandalo di nonno Backmaker. Non c’erano ritratti suoi in giro, men che meno sopra il camino. Avevo l’impressione che mio nonno paterno non fosse solo uno straniero di nascita, ma anche un losco individuo, uno che si era intestardito a credere nelle cose contro cui nonno Hodgins s’era battuto, anche dopo che si erano rivelate sbagliate. Non so come appresi che nonno Backmaker aveva tenuto comizi per chiedere l’eguaglianza dei diritti per i neri e per protestare contro i linciaggi di massa, così frequenti al nord e che contrastavano col trattamento umanitario di cui i neri, pur senza diritto alla cittadinanza, godevano nella Confederazione. Né ricordo di aver sentito il nome di tutti i posti in cui aveva vagabondato prima di sistemarsi a Wapinger Falls. Né che per tutta la sua vita la gente aveva mormorato al suo passaggio “sporco abolizionista!”, un insulto fra i più spregevoli. Io so solo che, in conseguenza di tutto questo, mio padre, un uomo umile, un lavoratore infaticabile, un piccolo uomo tormentato, fu sempre dominato da mia madre, che non gli faceva mai scordare che un Hodgins o un McCormick valevano una dozzina di Backmaker.
Dev’essere stata una brutta sorpresa per lei constatare che io non possedevo le caratteristiche degli Hodgins quali lei mostrava di avere, e che avrebbero dovuto, sempre secondo mia madre, renderci indipendenti. In primo luogo ero inesorabilmente incapace e malaccorto nei mille piccoli lavori che c’erano da fare nella nostra dilapidata casa: non riuscivo a prendere un martello, quando lei me lo chiedeva, per fare cose come fissare una delle assi tremolanti del lato est senza pestarmi il pollice o colpire il vecchio legno non verniciato; non riuscivo a strappare le erbacce dal giardinetto della cucina senza danneggiare la verdura o spargere malaccortamente i semi. Spalavo la neve a velocità sostenuta, perché ero forte e resistente, ma il lavoro che richiedeva abilità manuali non era per me. Ero goffo nel maneggiare i finimenti di Bessie, la nostra giumenta, o nell’aggiogarla al carro quando papà doveva andare a Poughkeepsie, o quando dovevo aiutarlo nei lavori della fattoria o in quelli della cucina. Finiva immancabilmente che i miei tentativi portavano quell’uomo tranquillo a eccessi d’ira. S’appoggiava con le reni al fianco della giumenta, oppure posava il martello sull’incudine e mi diceva tristemente: — Forse è meglio se dai una mano alla mamma, Hodge. Questo non è lavoro per te.
Soltano in una cosa accontentai la mamma. Imparai a leggere e scrivere e lo facevo con grande profitto. Ma anche qui c’era una pecca: lei guardava all’istruzione come a qualcosa che avrebbe potuto distinguere gli Hodgins e i McCormick dalla folla anonima che era divenuta il loro marchio distintivo; come a una qualità che avrebbe potuto in qualche strano modo tirarci fuori dalla povertà. Ma io amavo la lettura in quanto tale e questo probabilmente le ricordava il lassismo di mio padre e il sovversivismo di nonno Backmaker.
— Datti da fare per diventare qualcuno — era il suo solito ammonimento. — Non puoi cambiare il mondo (era un’ovvia allusione a nonno Backmaker) ma se lo vorrai potrai cavarci qualcosa di buono. C’è sempre un modo per uscirne.
Lei non approvava la lotteria dell’ufficio postale alla quale molti affidavano la loro speranza di sfuggire alla povertà o ai loro contratti. In questo mamma andava d’accordo con mio padre: entrambi credevano nel duro lavoro più che nella fortuna.
Comunque anche il più tenace lavoratore aveva bisogno dell’aiuto della sorte. Ricordo la volta in cui una minimobile, una di quelle piccole locomotive che non avevano bisogno di binari, si ruppe a meno di duecento metri dalla fucina di papà. Era un’opportunità incredibile, d’oro addirittura. Le minimobili, come altri generi di lusso, erano rare negli Stati Uniti, mentre erano sufficientemente comuni in paesi prosperi come l’Unione tedesca o la Confederazione. Noi, per i trasporti, dovevamo affidarci ai sempiterni cavalli o ai treni, pur vecchi e decrepiti com’erano. Per decenni il grande tema discusso dal Congresso fu la mai completata linea Transcontinentale, benché l’America inglese ne avesse già una e sette gli Stati Confederati (i viaggi in aerostato ancorché comuni e molto economici erano guardati con molto sospetto). Solo pochi milionari con affari a Francoforte, Washington-Baltimora o a Leesburg potevano permettersi costose e complicate minimobili che avevano bisogno di un autista per procedere tra i buchi e le voragini che costellavano le nostre strade. Solo uno spirito straordinariamente avventuroso avrebbe lasciato le strade catramate di New York o della città gemella di Brooklyn, dove i cerchioni coperti di caucciù delle minimobili potevano, alla peggio, farsi trainare da un cavallo, perché le strade acquitrinose o erose dalle buche erano le uniche esistenti a nord del fiume Harlem.
Se uno le affrontava, i sobbalzi, gli scossoni, i tremolii continui inevitabilmente rompevano o disgiungevano una delle tante parti delicate di quei complessi meccanismi. E l’unica via di scampo, a parte il telegrafare alla città di provenienza se il guidatore aveva rotto un pezzo quando ne era ancora vicino, era il fabbro più prossimo. I fabbri raramente sapevano qualcosa dei principi delle minimobili, ma con davanti un pezzo rotto potevano fabbricarne un passabile duplicato e, se la macchina non aveva sofferto gravi danni, sostituirlo a quello inutilizzabile. Era abitudine di questi artigiani, per il tempo rubato alla ferratura dei cavalli o ad altri lavori, o anche solo per essere disturbati, di chiedere cifre esorbitanti, qualcosa come venticinque o trenta centesimi l’ora, vendicando in tal modo la loro povertà contadina e la loro autarchia a spese della ricchezza sterile e impotente degli escursionisti cittadini. Un’opportunità del genere accadde a mio padre, come ho detto, nell’autunno del ’33, quando avevo dodici anni. L’autista era arrivato fino all’officina, lasciando il proprietario della minimobile abbandonato e affumicato, nel suo sedile al chiuso. Una rapida visita convinse papà, capace di riparare un orologio o un rastrello rotto con egual bravura, che l’unica era portare la macchina alla fucina dove avrebbe potuto scaldare e raddrizzare un pezzo che non era facile da smontare. (Il guidatore, il proprietario, e anche papà ripeterono più e più volte il nome di quel pezzo, ma io ero così inetto nelle faccende pratiche della vita che non lo ricordavo più già dopo dieci minuti, figuriamoci dopo trent’anni).
— Hodge, corri a prendere la giumenta e vai da Jones. Non cercare di sellarla, cavalcala a pelo. Chiedi a Jones di volermi gentilemnte prestare la sua pariglia.
— Se sarà di ritorno con la pariglia entro venti minuti, regalerò al ragazzo un quarto di dollaro — aggiunse il proprietario della minimobile sporgendo la testa fuori dal finestrino.
Non dirò che partii come il vento, perché la mia professione mi ha istillato un vero disgusto per le esagerazioni e per le iperboli, dirò solo che corsi più veloce che mai. Un quarto, un intero scintillante quarto di dollaro d’argento, un giorno intero di paga per un ragazzo che non riusciva che a trovare lavori saltuari, la paga di mezza giornata di un uomo a patto che non facesse straordinari... E tutta per me, da spendere come volevo!
Corsi fino alla stalla, trascinai fuori Bessie per la cavezza e le saltai in groppa mentre quell’affascinante sogno cresceva e si gonfiava attimo dopo attimo. Con quel quarto stretto in pugno, avrei potuto persuadere papà a portarmi con lui nel prossimo viaggio a Poug...
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