Un tempo nacqui in mezzo a un caldo di lana.
Furono urla e fatica, in una notte di luglio inoltrato. Drohobycz era là fuori, ad aspettarmi, ferma e piantata in mezzo alla Galizia, appena davanti ai Carpazi che vegliavano da sempre sulle sue case.
Uscii da mia madre con la riluttanza di chi è costretto ad abbandonare la tranquillità di un rifugio nel quale per nove mesi avevo sognato.
Ero annodato nel cordone che mi legava al mio nido: fu Marne Rosenzweig a strapparmi dal rifugio chiedendo alle donne le forbici.
«Si è impigliato nelle reti, l’uccellino, e non riesce più a volare» disse ridendo, e con le stesse lame con cui mio padre tagliava le sue stoffe, fece due tagli netti e mi liberò per il mondo.
Strano benvenuto, sospeso a capo all’ingiù tra le risa e sculacciato dalle mani robuste della levatrice. Strano rito, lavato da un’acqua troppo calda che sciabordava nel catino già arrossata dal sangue mio e di mia madre. Ero una testa enorme sopra un corpo da gnomo e brancolavo nel buio ancora in cerca d’aria per piangere il mio dissenso.
Mi presero allora le mani di mio padre, Jakub il mercante, e mi sollevarono come una benedizione, alto sopra la sua testa, di fronte a una folla di invitati. Un maschio è un miracolo del cielo, è la tua stirpe che reclama altro tempo, un altro commerciante che venda stoffe e panni alla Galizia.
In quel girotondo di saluti fui lanciato come in un ballo addosso alla vita e mi sembrò pesante, quel girare di mano in mano verso l’alto, quei visi schiacciati sopra il mio e le voci forti a ripetere auguri a me e grazie al Signore, sia benedetto il Nome suo e il ricordo. E gli odori, dei muri, dei tappeti e delle cose, di tutte quelle cose che mi giravano intorno come una giostra.
Si dice che un bambino appena nato non possa vedere più di tanto. Può darsi: ma io vidi a un tratto la stanza farsi lontana, gli oggetti e le persone farsi piccoli man mano che la danza incalzava unita alle preghiere, e la tappezzeria arabescata che girava e le mani calde e sudate di mio padre che mi bruciavano i fianchi e dietro alle sue spalle vidi un grande uccello barcollante che si posò sopra il davanzale e dalla finestra spalancata sul buio spiccò in silenzio il volo su Drohobycz.
È più facile parlare ora e dall’alto del tempo trascorso, di cose, persone, luoghi che sono state uguali alla mia pelle, che io ho sognato e visto per ogni giorno che ricordo della mia vita. Il tempo ha un sapore strano e ci obbliga a catalogare, a mettere in fila sopra un filo di lana i singoli pezzi che invece potrebbero stare sparpagliati per terra, privi di un senso preciso.
Dunque, raccontando ora, cerco di esporre i fatti alzando la testa che da bimbo tenevo rivolta per terra, trascinandomi sui pavimenti della casa, in quella stanza che per molto tempo per me fu Drohobycz, prima ancora di essere capace di tenermi in piedi e tentare la corsa.
Dopo la mia tempestosa venuta al mondo, probabilmente dormii in un privilegio intemporale, senza altri battiti se non quello del mio cuore e di quello di mia madre.
Fui svegliato con il rito, il berìth milah che mi attendeva dopo otto sacrosanti giorni. La vista era incerta ma chiare mi giunsero le parole, urlate dal mohel prima di rendermi puro al cospetto del Signore.
«Benedetto tu» urlava con voce acuta da donna.
«Benedetto tu, o Signore, Dio nostro e Re del mondo, che hai creato il frutto della vita, che hai consacrato fin dal grembo della madre questo maschio, imponendogli sulla carne il segno caratteristico che trasmetterà a tutte le generazioni; in onore di questo, o Signore vivente, tu che sei la nostra parte e la nostra difesa, preserva la stirpe da ogni male, in grazia del segno del patto che imprimesti nella nostra carne. Benedetto sia tu, o Signore, che stabilisci il patto.»
«Dio nostro e dei nostri padri, mantieni sano questo maschio all’affetto di sua madre e di suo padre. Possa sempre rallegrarsi il padre della sua progenie e gioisca la madre del frutto delle proprie viscere, come sta scritto ed è detto: Io passai su di te e ti vidi avvolta nel suo sangue e dissi per il tuo sangue vivrai.»
Dopodiché, tra quei suoni striduli, la luce fioca di candele e il freddo che pure mi circondò in quel luglio travagliato, l’uomo officiante versò sulla mia bocca una goccia di liquido così rosso e così forte da togliermi il fiato e quindi, con una lama affilata, staccò dal mio piccolo membro un pezzo di carne, infliggendo al mio corpo inesperto la seconda ferita della mia vita.
«Il Signore lo faccia crescere sano, ora che è entrato nel patto, cosicché possa avviarsi allo studio, all’osservanza dei precetti, al matrimonio e a una lunga vita di opere e bene. Così sia di grazia.»
Questo fu l’invito e da quel giorno mi chiamai Bruno.
Il mondo della mia prima infanzia fu il pavimento della stanza che io scrutai attentamente dalla posizione da quadrupede. Fu là che imparai a osservare i graffi che disegnavano il suolo, seguendo attentamente per ore i ghirigori dei segni dell’impiantito. Un intero universo si apriva ai miei occhi: resti del pranzo, briciole di pane azzimo e rappreso, gocce di liquidi a me sconosciuti, bucce di patata.
Vivevo in una mia dimensione. I miei genitori erano più in alto e da lassù mi arrivavano voci, discorsi confusi che dovetti impiegare del tempo a capire.
Forse la testa grossa mi costringeva a tenere gli occhi fissati al basso e così passavo le ore cercando di cogliere il senso di quei graffi, quasi fossero magiche strade. Forse per questo mi è rimasto fisso nella memoria il giorno in cui mio padre tirò fuori del cassetto una carta di Drohobycz, l’appese al muro e seguendo col dito le linee, nominò una a una le strade, elencando una preghiera di nomi:
«Vedi» disse «questa è la città , questi sono i monti e questo è il fiume. Qui c’è via Lesznianska e questa è la Leboska» e andò avanti per piazze e incroci con voce chiara e sempre uguale: questo rito si ripeté tutti i giorni, divenendo un gioco che cullò le mie sere. Ancora non avevo messo fuori il naso nel mondo e già Drohobycz era dentro alla mia mente, segnata e tracciata come quella carta colorata. Da allora, come fanno i bambini imparando dal padre, cominciai a seguire le linee per terra come fossero strade e palazzi ed esplorai, nel mio mondo da basso, un numero incredibile di città che battezzai col mio linguaggio infantile: Wotrlz, Abufkir, Wrothalz, Hrtcersiyj.
Sopra i pavimenti imparai le prime cose del mondo, osservando le scarpe che mi portavano indizi di altri universi lontani. Sotto il tavolo da pranzo, quasi fossero gigantesche piante tropicali, si ergevano dal pavimento e raccontavano ogni volta qualcosa di diverso. Le pantofole di mia madre erano di un panno sporco fatto con una trama intrecciata a quadri colorati. Avevano un alone ombrato scuro e sulla punta erano mangiate, forse da strani insetti, forse da un’entità malvagia. Mio padre, invece, portava scarpe pesanti su cui leggevo le stagioni. La polvere gialla era l’estate di Galizia, che colorava di chiaro anche il cuoio nero, odorava di zolfo e accecava la gola; la neve bianca sulle scarpe era contaminata, aveva minuscoli grani di terra e carbone che rigavano il cuore e mettevano tristezza. Durava pochi minuti generando gocce. Il fango scuro era l’autunno di Drohobycz, che seccava presto nell’angolo vicino la stufa, diventava appiccicoso e denso come il sangue.
Un giorno, dal mondo di sopra arrivò una goccia di quel liquido rosso che mio padre chiamava in quel modo. Picchiò sul pavimento e andò in frantumi, la vidi spezzettarsi davanti al mio sguardo esploratore. A differenza dell’acqua non sparì dopo un respiro. Seccò e diventò dura, come il fango.
La casa era enorme.
La famiglia che abita la casa, talvolta trascura certe stanze come un libro dimenticato su uno scaffale. Io entrai in molte di queste e vidi gli angoli nei quali era cresciuta la leggera muffa dell’oblio, nutrimento degli insetti domestici che le abitavano.
Quelle stanze sembravano avere una vita propria, la stessa luce che hanno le cose di un tempo perduto, coperte da un velo appiccicato alle pareti, incrostate per sempre. Le tappezzerie variopinte che le ricoprivano erano per me la filigrana di un mondo misterioso e incantevole: tralci di ciuffi di alberi impigrivano sui muri, salamandre ci si arrampicavano sopra. A volte sbocciavano i fiori e perdevano i pampini nel giro di qualche giorno, lasciando sul pavimento la loro vita a marcire senza fretta.
Scoprii anche le scale, che scendevano verso il basso e un giorno le affrontai con timore, data la mia posizione scomoda di quadrupede inesperto. Seppure con fatica, trascinato dalla gravità che mi spingeva verso il basso, alla fine conquistai la discesa.
Arrivai a una porta ed entrai nella prima stanza, stringendo leggermente gli occhi per penetrare la penombra che avvolgeva tutto. Il piano inferiore era esattamente uguale a quello da dove ero arrivato, nei mobili, nella tappezzeria, nella disposizione delle stanze. Eppure qualcosa sembrava differente come a volte sembrano differenti, nei sogni, le cose a noi familiari. Passai in rassegna ogni stanza soffermandomi ad ammirare le venature dei mobili, le rughe di quel legno antico al quale sembrava che qualcosa di misterioso avesse piallato ogni difetto. Allungai la mano per accarezzare quella pelle e questa si ruppe, si sgretolò come se le mie dita avessero cercato di serrarsi attorno a un’esile torre di sabbia incrostata di salmastro.
Allora vidi gli insetti, gli animaletti che parevano uscire dalle gambe dei tavoli, dalle giunture del legno e ordinatamente, come soldati di un esercito disciplinato, andavano e venivano verso un luogo sconosciuto.
Cominciai a seguire i loro percorsi attraversando le stanze immobili che sostenevano la casa. Così arrivai alla fine e qui li vidi salire in lunghe spirali ordinate verso un piccolo cratere: superavano con pazienza mille piccoli avvallamenti, un minuscolo passo dopo l’altro montavano verso la cima sulla quale depositavano l’invisibile pezzo di legno rubato, il midollo dei mobili e delle porte, i microscopici peli della tappezzeria, la sostanza della casa alla quale stavano lentamente rosicchiando l’anima.
Ma Drohobycz mi attendeva, appena aperta la porta massiccia che dava su via Florianska dove regnava perenne la confusione di carri, uomini e bestie.
Ancora non mi reggevo sulle gambe, quando mio padre, dopo essersi pettinato la barba scura, una mattina mi sollevò da terra e disse solo «Vieni». Fu la prima volta che vidi quel mondo. Ricordo l’odore di quell’uomo, che mi teneva in braccio col capo vicino alla sua guancia, i peli della barba lunga dentro alla quale tentavo di nascondermi, ricordo la gente che ci salutava, ricordo una carrozza col cavallo e quindi una serie di insegne colorate. Arrivammo davanti a qualcosa che doveva essere importante perché egli si fermò un momento, indietreggiò di due passi come per guardare meglio e indicandomi una vetrina bordata di un legno color cannella disse con voce chiara e forte: «Questa è la bottega».
Entrammo in un antro scuro, occupato da immense scaffalature alte fino al soffitto, un cielo che mi parve vecchio e graffiato come il mio pavimento. Vidi dei banconi, e sopra i banconi pile di scatole e rotoli di panno, scampoli colorati di lane che salivano e scendevano dai muri. La luce era fioca benché dalle finestre entrasse il sole. Ma era un sole anemico, come se entrando in quel luogo perdesse ogni voglia di vivere e di bruciare, arrendendosi all’odore di lana che attaccava la gola.
I commessi salutarono l’ospite imprevisto, affannandosi per mostrarmi l’essenza di quel mondo; prendevano la mia mano e la trascinavano sui panni, mi facevano toccare i vari tipi di trame spiegandomi la differenza, parlavano e citavano nomi sconosciuti di tessuti e di città . Ma la cosa che più mi attrasse, in tutto quel roteare nuovo di voci e cose, fu il Libro, il grande libro che dormiva sul banco, pieno di segni strani e pezzetti di stoffe attaccati sopra. Mi feci posare sul banco per toccarlo, sfogliai con cautela e attenzione quelle pagine enormi, scorsi col dito le righe scritte e, per la prima volta, feci un vero sorriso compiaciuto. Quello fu il mio primo e chiaro desiderio, un libro misterioso su cui disegnare la magia delle parole. La folla intorno disse cose divertite, voltandosi all’indirizzo di mio padre il quale, lisciandosi la barba compiaciuto, disse una sola frase, per lui, solenne: «Mio figlio ha la stoffa del contabile!».
In quei primi tempi della mia vita che ora, quando tutto è già stato, vedo di fronte a me stesi in una limpida scia, oltre che alla bottega fui condotto in un altro luogo che a lungo non riuscii a identificare, confondendolo proprio con la bottega di mio padre.
Come quando fui portato nel mondo, egli una mattina mi sollevò e disse per la seconda volta «Vieni».
Pensai a una nuova visita al negozio, e forse fu anche questo che dovette generare gli sbagli, ma invece ci incamminammo dalla parte opposta. Ci trovammo di fronte a un’altra porta ma l’effetto, nell’entrare, fu lo stesso: quell’aria buia e soffocante io la conoscevo bene, l’odore dei panni e il sole smorzato dalle piccole finestre colorate, e drappi alle pareti e anche le panche. Tuttavia il tetto mi sembrò più alto smorzato dalla tenue luce di molti candelabri a tanti bracci. E, a un certo punto, vidi il Libro anche in quel luogo, e non appena mio padre vi arrivò vicino, spiccai un salto per precipitarmi a sfogliare le pagine che io desideravo. Cercavo i segni svolazzanti, cercavo i miei pezzetti colorati, forse cercavo la mia verità .
Invece si levò un urlo, un alto lamento come per una ferita, che mi sembrò rivolto contro di me e anche contro la sventatezza di mio padre. Fu come una frustata sulla mia testa pesante che si piegò, da allora, ancora un po’ più in basso e ogni volta entrando al kheder e, dopo, in sinagoga, l’urlo di Rebbe Kowalski mi risuonava dentro. Mio padre, e forse anche il rabbino, non me ne fecero una colpa. Fu soltanto la mossa blasfema di un bimbo curioso, una storia divertente da raccontare sottovoce ai parenti soffocando le risate con la bocca piena di biscotti. Fui io a scottarmi le mani, di fronte a quel Dio che mi lanciava contro urla.
Nei mesi seguenti esplorai a lungo la bottega con la geografia di un altro pavimento da decifrare.
Qui c’erano fili e cimose, pezzetti colorati di cotone, grumi di lana rifilata e anche piume. In questo luogo dove andava passando molta più gente il mondo si presentava interessante.
Dal mio basso punto di osservazione avevo anche l’occasione di ammirare le scarpe più diverse: dagli scarponi grossi dei muratori, a quelli a punta del postino, dai sandali leggeri da signora alle comode pantofole dei commessi, e ogni scarpa lasciava sul terreno un pezzo della sua storia.
A modo mio ero felice. Avevo intanto imparato a stare eretto sul busto, seduto per terra mi appoggiavo alla parete e guardavo in alto. In mezzo alle pile di lane sbucava la testa di mio padre, faceva nascondino tra un bancone e l’altro, mentre serio e compunto officiava il misterioso rito della vendita.
Ammiravo in estasi i movimenti di quel suo grazioso balletto: ruotava le mani, arrotolava le parole, sbarrava e serrava gli occhi per cedere o rifiutare la proposta di un prezzo. Mostrava le pezze, le srotolava con un rapido tocco delle mani, le ammucchiava attorno a sé come fiori giganteschi che salivano verso il soffitto. Poi bastava un gesto, un semplice nome soffiato tra i denti: Tadeusz o Lazlo, i commessi. E costoro accorrevano a potare quei gambi, a calmare l’oceano in tempesta che sconvolgeva il banco, e allora l’orizzonte si acquietava e nuovi colori apparivano davanti a mio padre e al cliente.
Avvenuta la scelta, egli poteva concludere la vendita, accompagnare l’avventore all’uscita con tutte le cerimonie che il rito prevedeva.
Poi rientrava e si raccoglieva un attimo per ringraziare a capo chino Iddio per quel nuovo pezzo di pane, e subito dopo terminava di riordinare commentando ad alta voce con i commessi le astuzie della vendita. Quindi registrava sul Libro l’incasso, annotandolo sulla pagina accanto a un pezzetto della stoffa venduta, e infine lo chiudeva con delicatezza ma con un gesto definitivo.
Così calava il sipario sul teatro del commercio.
Fra gli incantesimi di quella bottega c’erano le visite degli animali: mentre mio padre e i commessi illustravano le merci ai clienti, da dietro una pila di scampoli sbucava un cormorano, guardava ora il commesso e ora il cliente e poi andava ad appollaiarsi sopra un armadio. C’erano file di insetti colorati, di lumachine rosa o di coccinelle che salivano sul bordo del banco in fila indiana, si nascondevano tra le gobbe delle stoffe o sotto le carte. Una volta scorsi anche un cerbiatto sporgere appena il capo dalla porta e dopo spiare per un momento. Ci frequentavano anche vari tipi di uccelli, anche i più strani, con ali colorate e becchi lunghi, di quei tipi di uccelli migratori dell’Oriente. A volte la bottega ne era piena, volavano dappertutto senza sosta, con gran rumore e spargendo penne, senza che mio padre o l’altra gente se ne lamentasse.
Tutto ciò mi divertiva assai ed era per me un passatempo felice, finché un g...