La mamma si affacciò alla finestra: «Chi è?». Riconoscendo la voce del figlio, ebbe un’esclamazione quasi di spavento. Poi Fausto li sentì parlare tra loro: «È lui» dicevano.
Scesero insieme ad aprirgli. La mamma si era gettato addosso uno scialle; il babbo aveva infilato i calzoni sulla camicia da notte. Restarono a parlare per le scale.
«Come state?» domandò Fausto.
«Non c’è male;» rispose la mamma «babbo ha avuto una bronchitella; è stato a letto un paio di giorni; ma ora si è rimesso.»
«Una cosa da niente» confermò il padre. «Hai fatto buon viaggio?» chiese.
«Sì, abbastanza. Il treno era quasi in orario. Solo a Pisa ci hanno tenuti fermi per un paio d’ore. E non era nemmeno eccessivamente affollato. Io ero salito in uno di quei carri-bestiame. C’erano parecchi militari sbandati. Dopo Livorno sono saliti anche un bel po’ di villeggianti. E voi, non avete mica intenzione di tornare a Roma?»
«No, no;» rispose la madre «prima aspettiamo che passi questa bufera.»
«Conviene anche a te restar qui» disse il padre.
«Credo infatti che resterò qui» rispose Fausto.
Anche la donna s’era alzata. Salutò Fausto sorridendo. Tanto lei che la mamma insistettero per sapere se aveva bisogno di nulla: «Si fa presto a scendere in cucina e accendere il fuoco». Fausto rispose che aveva mangiato, che non gli occorreva nulla. «Be’, andiamo a letto, allora» fece il padre.
Il giorno seguente Fausto si alzò alle undici e fu pronto appena per l’ora del desinare. Dopo desinare, salì in paese a ricercare un professore che aveva conosciuto l’estate prima.
«Quassù i tedeschi non si sono ancora fatti vedere» gli disse il professore. «Il reparto dei bersaglieri è partito ieri l’altro diretto a Siena; ma pare che si sia disciolto lungo la strada.»
«Ma la gente che intenzioni ha?» disse Fausto. «Non possiamo mica aspettare passivamente l’arrivo degli angloamericani.»
Il professore era del suo parere, ma non aveva idee precise:
«Quassù abbiamo costituito un piccolo gruppo… C’è il commerciante Becorpi, un paio di studenti… Alle sei debbo vedermi col rappresentante dei comunisti.»
A queste parole Fausto si ricordò, per la prima volta dopo molto tempo, dei comunisti del paese. Nel 1929, quando aveva dodici anni, un gruppo di comunisti del paese era comparso davanti al Tribunale Speciale. Se ne parlò molto in casa, trattandosi del loro paese d’origine. Un cugino, che faceva il suo tirocinio di avvocato, assisté a tutte le sedute, e la sera passava a riferire sull’andamento del processo. «Una ragazzata,» diceva «niente altro che una ragazzata. Il Pubblico Ministero l’ha fatto chiaramente intendere nella sua requisitoria. Però, per Baldini ha chiesto dieci anni.»
«Dieci anni! Madonna santa!» esclamò la mamma allarmata.
«Ma vedrai che non glieli daranno: hanno fatto tanto per spaventarli. Se la caveranno con un po’ di spavento. Sono ragazzi che si sono montati la testa. Io darei loro uno scapaccione per uno, e li metterei fuori.»
La sera della sentenza il cugino aveva la faccia scura. «Non credevo proprio» diceva. «L’hanno presa troppo sul serio, che diamine! Baldini ha avuto sette anni.»
«Ma no» fece la madre sgomenta.
Per quella sera, il cugino non pronunciò più la parola “ragazzata”.
Fausto domandò al professore il nome del comunista con cui aveva l’appuntamento.
«Baba» rispose il professore. «Cioè, Baba è un nomignolo, di cognome si chiama Baldini.»
Sul tardi si fermarono in piazza per aspettare Baba. Fausto scrutava gli uomini che sembravano dirigersi dalla sua parte, ansioso di sapere che aspetto avesse. Per un momento fu certo che uno fosse Baba; ma quello tirò di lungo.
Il vero Baba se lo ritrovò a due passi senza che gli avesse dato nell’occhio. Era basso e tarchiato; poteva avere quarant’anni. Abitava nel Borgo, cioè un poco fuori del paese.
«Dove ce ne andiamo?» disse Fausto.
«Dove volete» rispose Baba. Sembrava incerto e impacciato.
«Andiamo al caffè» fece il professore.
All’Italiano sedettero in un angolo sufficientemente tranquillo.
«Cosa prendi?» chiese il professore a Baba.
«Fa lo stesso;» rispose lui «un caffè.»
Il barista servì il caffè, poi il professore disse:
«L’amico Errera è dell’opinione che si debba far qualcosa. Parlavamo dianzi… Tu che ne pensi, Baba?»
Baba non batté ciglio.
«Già,» fece Fausto «io penso che, per esempio, potremmo cercare delle armi e nasconderle. Ci saranno delle armi in giro. A Sarzana, dove mi trovavo io, i soldati sono fuggiti abbandonando le armi e, prima che arrivassero i tedeschi, è stato possibile penetrare nella caserma e racimolare moschetti, casse di munizioni e di bombe a mano… Qui, a quel che mi ha detto lui, i tedeschi non si sono ancora fatti vedere… Voi, che intenzioni avete?» chiese a Baba.
«Aspettiamo gli ordini dal Partito» rispose Baba.
Fausto non seppe come replicare, e si stabilì il silenzio. Tuttavia restarono seduti intorno al tavolo; sentivano il bisogno che la conversazione rinascesse, su un altro argomento. Fausto si fece forza e disse: «Io mi ricordo di quando lei fu condannato dal Tribunale Speciale. Ero un ragazzo, allora: avevo dodici anni. Mi ricordo proprio di quando dissero in casa: Baldini ha avuto sette anni». Baba teneva la faccia china sul bicchiere del caffè. «Sette anni!» esclamò Fausto goffamente. «Sette anni sono parecchi.»
Baba alzò leggermente la faccia:
«Se li avessi dovuti far tutti sarebbero stati parecchi. Ma con l’amnistia che avemmo, passarono abbastanza presto.»
«Aveste un’amnistia?»
«L’amnistia del Decennale» rispose Baba, e parve sorpreso che Fausto non lo sapesse. In realtà Fausto aveva seguito con grande interesse e, bisogna pur dirlo, parteggiando in pieno per gl’imputati, il processo al Tribunale Speciale; ma poi se n’era completamente dimenticato. Semmai, altri comunisti avevano occupato la sua fantasia, i comunisti russi, Lenin, Trotskij e Stalin. Molto aveva fantasticato sulla scena di un film, nella quale si vedeva in funzione un tribunale rivoluzionario: dei cinque che lo componevano, quattro avevano capigliature arruffate, barbe incolte o baffi ispidi, occhi lampeggianti; il quinto, seduto in un angolo, era un tipo completamente diverso: con la faccia rasata, e l’occhio velato, non parlava, né si muoveva, solo fumava con gesti lenti e misurati. Quando Fausto fantasticava di essere un bolscevico, o comunque un rivoluzionario, e di partecipare a una riunione, sceglieva per sé il posto d’angolo, e si sentiva dotato di un potere straordinario, fatto d’immobilità e di silenzio…
«Io ho fatto in tutto trentasette mesi» concluse Baba. «Ma debbo ringraziare chi mi ha mandato in galera. Prima non sapevo nulla; è in galera che mi hanno insegnato… Non che fossi in grado di imparare molto…» Si confuse e tacque definitivamente.
Fausto gli chiese spiegazioni su questo punto.
«In galera funzionava la scuola di Partito» rispose Baba, e di nuovo parve meravigliato che Fausto lo ignorasse. «Tutti i giorni avevamo le nostre lezioni, francese, storia, geografia, economia politica, storia del Partito… Be’, ora devo andare» disse alzandosi; salutò con fare imbarazzato e uscì dal caffè.
«Non si fidano di noi» disse il professore a Fausto.
«Tu pensi?»
«Mah… sarà forse un’impressione. Ma hai visto com’è stato reticente sulla faccenda delle armi? Io credo che loro di armi ne abbiano e continuino a cercarle. Sembra che il reparto di bersaglieri che era quassù, le abbia abbandonate tutte lungo la strada.»
Nei giorni che seguirono, Fausto tornò a incontrarsi con Baba: insieme col suo collega professore, e anche da solo. Conobbe altri comunisti, Piero, Nello e Vasco. Baba mostrava di star volentieri con lui, ma non si sbottonava. Ogni volta che Fausto gli ricordava la necessità di trovare le armi, e di svolgere comunque una qualche attività, lasciava cadere il discorso.
Intanto, si era cominciato a parlare dei partigiani. Sui primi tempi, Fausto non riusciva a farsene un’idea nemmeno approssimativa. Le voci più contraddittorie correvano allora da quelle parti, come dappertutto. Per esempio, il commerciante Becorpi, arrivato la sera prima da Firenze in corriera, disse a Fausto che la campagna “brulicava” di partigiani. Altri riferirono che nel vicino Monte Voltrajo c’erano cinquantamila uomini in armi, al comando di un ammiraglio inglese e di un generale francese. Correva anche voce che reparti dell’esercito regolare resistessero ancora in varie regioni d’Italia. Altre notizie erano invece nettamente pessimistiche. «Levatevela dalla testa questa storia dei partigiani» disse due giorni dopo lo stesso Becorpi a Fausto e al professore. «Non avete visto che gli aeroplani tedeschi volano a bassa quota sui boschi? Per cosa credete che lo facciano? Se si accorgono di qualcosa, un paio di spezzoni, e via.»
Queste voci Fausto le raccoglieva tutte e contribuiva a diffonderle. La sua natura impressionabile gl’impediva di ragionare freddamente, cosa che con ogni probabilità gli avrebbe permesso di farsi un’idea sufficientemente esatta della situazione. Cedeva volta a volta a questa o quella immagine.
Un pomeriggio uscì di casa subito dopo mangiato. Indossava un trench bianco di foggia antiquata. Era contento del suo aspetto. Prima di uscire, s’era specchiato lungamente, provando tutte le posizioni: staccandosene solo quando lo specchio gli aveva reso un’immagine seducente. Ora, camminando, l’aveva davanti agli occhi.
Stringeva nella tasca il fazzoletto, quasi fosse una rivoltella. Ma ben presto i suoi pensieri furono distratti dall’incomparabile spettacolo della campagna autunnale.
Sui boschi e nei castagneti erano sparsi a dovizia i colori della stagione: oro, fulvo, marrone e bruno. Il cielo era sereno ma rigido. Lontano la campagna sfumava nella nebbiolina; emergeva, in fondo, il profilo azzurrino dei monti.
Brevi folate spazzavano l’aria. Rapidamente scese nella vallata. Davanti alla villa Ormanni risuonavano delle voci femminili; ma Fausto tagliò prima, prendendo un viottolo solitario in mezzo ai ca...