Tutto cominciò, forse, con una fotografia. Fu mio padre a scattarla. S’ispirò a Jackie Coogan, il protagonista di quel grande film di Charlie Chaplin che fu Il monello (The Kid). Fu mio padre a svilupparne il negativo, a stamparla e a colorarla a mano. Sono trascorsi più di ottant’anni. Qualche tempo fa diventò la copertina di un libro dal titolo C’era una volta un bambino. Quel bambino col berretto sono io, avrò avuto quattro o cinque anni. Non sembro proprio Jackie Coogan? Da un’altra foto fattami mentre dormivo sul seggiolone, mio padre trasse in seguito il manifesto pubblicitario di una purga per ragazzini. «Mentre voi dormite, Kinglax lavora» recitava lo slogan, oppure «Sogni di felicità ». Durante i miei primi film, Gianni Di Venanzo e Pasqualino De Santis, rispettivamente direttore della fotografia e operatore di macchina, si divertivano a chiamarmi «Kinglax».
Può darsi che davvero tutto sia cominciato da lì. Mio padre era un appassionato di cinematografo e di fotografia. Era pure un grande disegnatore e un caricaturista per alcuni giornali napoletani. Allora ce n’erano parecchi. «Il Re di danari», il «Monsignor Perrelli», il «Vaco ’e pressa», cioè «vado di fretta», il giornale dei tifosi. Mio padre, tifoso, non lo è mai stato. Lo accompagnavo spesso allo stadio, a lui piaceva portarmi dietro. Forse, già allora voleva riversare su di me la decisione che lui non aveva saputo prendere, cioè abbandonare tutto per il cinematografo o almeno per il disegno.
Andavamo in un albergo napoletano, molto famoso all’epoca, l’Hotel de Londres, in Piazza Municipio. Lì c’era la squadra del Napoli, a quel tempo piena di giocatori eccezionali, e tra questi il grande Attila Sallustro, un paraguaiano famosissimo che i napoletani adoravano. Eppure mio padre, appena finiva le caricature, se ne tornava a casa, dei giocatori non gliene importava granché. La passione per il cinema, quella sì che era forte. Aveva una splendida macchina di proiezione a passo ridotto Pathé Baby. E anche una macchinetta da presa col motore a molla Pathé Baby 8mm con perforazione centrale.
Se aveva la perforazione centrale erano 9mm e mezzo.
Davvero? Sai che ho sempre pensato fossero 8mm? Comunque, tutto era nello sgabuzzino dove lui continuamente trafficava. C’era una lampada, con una luce rossa e una blu, che segnalava quando si poteva entrare nella camera oscura. Io mi mettevo in un angolo. Teneva sempre sul finestrone una coperta che impediva alla luce esterna di filtrare. Un giorno la tirò via e gli cadde tutto addosso. Rimase seduto per terra come in un suo disegno, con la testa che spuntava fuori dal finestrone che incorniciava la sua rassegnazione come in una comica di Buster Keaton. L’infanzia, la ricordo bene. Forse proprio perché era già fatta di fotografia e di cinematografo. Naturalmente ero il modello preferito di mio padre. Il mondo di quei tempi si adattava molto a queste passioni, consentiva di fare il cinema tra quattro mura, di sviluppare e stampare in casa le fotografie.
Che ricordi hai di quello sgabuzzino, quando andavi ad assistere allo sviluppo dei negativi?
Il profumo delle bacinelle di porcellana bianca in cui papà versava il liquido per sviluppare. Poi prendeva le mollette per i panni e stendeva le foto ad asciugare. Attaccava il negativo e sviluppava. Solo episodicamente si serviva dello stampatore. Ero un bambino, non avevo più di cinque anni, ma tutto ciò mi attraeva. Non sapevo far nulla, ma intanto mio padre mi trasmetteva quella passione.
La domenica, poi, mi portava al cinema. Il primo film che ho visto fu al Torretta, credo si chiamasse L’angelo bianco, un film muto, russo se non sbaglio, o comunque russo era l’attore protagonista. E poco dopo Il monello di Chaplin. C’era in sala uno che suonava il pianoforte e dava l’accompagnamento musicale. Lo vidi al cinema Maximum di viale Elena, strada bellissima che corre parallela a via Caracciolo. C’erano aiuole, palme e, a quel tempo, pochissime automobili. Era la pista prediletta dai pattinatori. Era bello davvero. Quando andammo a vedere Il monello, il Maximum era pienissimo, restammo in piedi. Tenevo per mano papà .
Frequentavo quella sala cinematografica anche il giovedì, quando i bambini pagavano meno. Ci andavo con una zia, sorella di mia madre, molto somigliante a Ginger Rogers. Abitavamo tutti a viale Elena, noi e mia zia, anche lei sposata e coi figli. Mi fai tornare a un’epoca così diversa.
Tuo padre com’era?
Si chiamava Sebastiano, nome che già conteneva tutta la carica della sua vocazione al martirio. Era magro, alto, simpatico, intelligente, ma con un limite. Mi spiego: allora, quando si metteva su famiglia, non si poteva fare più nulla di rischioso, per esempio qualcosa che potesse costare il posto di lavoro. Lui era direttore di un’agenzia marittima privata. Secondo me era un uomo di grandi qualità . Lavorò sempre in quell’agenzia fino a quando ha smesso. Adoravo il lavoro di mio padre, da piccolo amavo andare insieme a lui.
Lavorava lì anche mio zio, fratello di mia madre, talmente appassionato di teatro da diventare «capoclaque». Allora, la claque si usava molto, esistevano delle tesserine, colorate come saponette – rosa, celeste, verde – che mio zio distribuiva ai vari claqueur a seconda del posto assegnato. Galleria, platea, loggione. Lui, poi, dirigeva l’applauso, aveva tutta una sua strategia. Anche mamma era appassionata di teatro, a papà piacevano, oltre al cinema, soprattutto il vaudeville, l’operetta.
Mi spieghi la tecnica dell’applauso?
Mio zio assisteva alle prove generali così da memorizzare lo spettaco...