Dal giorno in cui Calder e Lily si incontrano sulle sponde del Lago Superiore, niente è più come prima. Abituato ad ammaliare le ragazze con il suo sorriso, Calder crede che conquistare Lily sarà un'impresa facile. Ma si sbaglia. Lily non è come le altre, adora nuotare e scrivere poesie, e fin dal primo istante capisce che le leggende del lago, che parlano di feroci sirene e crudeli tritoni affamati delle emozioni degli esseri umani, potrebbero avere un fondamento. Lo legge negli occhi di Calder, che dicono più di mille parole e celano un segreto inconfessabile: lui e le sue sorelle sono emersi dagli abissi per vendicare la morte della loro madre. Ma vicino a Lily, poco a poco, Calder rischia di dimenticare la sua missione¿
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Non avevo ucciso nessuno per tutto l’inverno, e devo ammettere che non mi dispiaceva. Certo, lo avrei voluto tanto, ma troppe morti per annegamento sarebbero sembrate sospette e avrebbero alimentato parecchie chiacchiere. Gli abitanti spaventati di una città erano l’ultimo fastidio di cui avevo bisogno. Inoltre, negare al mio corpo ciò che più desiderava cominciava a darmi un piacere perverso. L’autocontrollo era la mia più recente ossessione. Dubito che le mie sorelle avrebbero potuto dire altrettanto.
Sorgendo dalle acque del Mar dei Caraibi, le mie dita scivolarono lungo il banco di coralli morti fino a trovare il reticolo che cercavo. Seguendolo verso la superficie giunsi al punto in cui avevo abbandonato i miei vestiti umani. Il cellulare squillava da qualche parte tra gli abiti ammucchiati. “Maris” pensai digrignando i denti. Nel corso della giornata mi aveva già chiamato così tante volte che avevo smesso di contarle. A ogni tentativo avevo lasciato partire la segreteria telefonica.
Il rumore di un tuffo in acqua distolse la mia attenzione dalla suoneria, e mi voltai di scatto verso l’oceano. A un centinaio di metri c’era una ragazza su un canotto gonfiabile, il corpo delineato da una luce gialla. Non era ancora matura. Magari, se avessi aspettato, la luce gialla si sarebbe tramutata in qualcosa di più brillante – di più soddisfacente – qualcosa per cui sarebbe valso la pena annientare il mio tanto sudato autocontrollo.
Contro ogni sforzo di volontà, il ricordo dell’ultimo omicidio tormentava ogni centimetro del mio cervello. Mi tentava, mi derideva per aver pensato di riuscire davvero a risollevarmi dalla mia vera natura. Le mie dita si contrassero al ricordo vecchio di mesi: la cattura, l’immersione, la forma delle gambe umane che lasciava il posto a coda e pinna, il formicolio al centro del petto mentre inchiodavo la preda sul fondo dell’oceano, assorbivo la luce inebriante, estraendo la brillante emozione dal suo corpo fino a sentire quasi…
“Oh, ma che diamine.”
Ma prima di tuffarmi per raggiungere l’ignara ragazza, il cellulare riprese a squillare. Per un istante provai l’impulso di buttarlo in mare; in fin dei conti era uno di quelli usa e getta. Ma sarebbe stato un gesto un po’ estremo. Perfino per me. Meglio lasciar scattare la segreteria. Insomma, non è che non sapessi perché Maris mi stava telefonando. Il vecchio, familiare richiamo era tornato. Quel richiamo – da un punto in fondo alla gabbia toracica, fra il cuore e i polmoni – mi diceva che era quasi giunto il momento di lasciare il caldo delle Bahamas e tornare dalla mia famiglia nelle nere e fredde acque del Lago Superiore. Era tempo di migrare.
Un brivido mi increspò la pelle delle braccia. “Controllati, Calder” mi dissi. “Fa’ finta di niente. Non devi partire proprio adesso.” Sentivo il ricordo della voce di mia madre che pronunciava le stesse parole, quando stavo per compiere la mia prima migrazione. “Concentrazione, figliolo” mi aveva detto, scarmigliandomi i ricci. “Il tempismo è tutto.”
Nonostante fossero passati quarant’anni, la scomparsa di mia madre mi stringeva ancora il cuore. Rievocarla era una sofferenza. E il Grande Lago rendeva i ricordi ancora più dolorosi. No, non c’era nessuna valida ragione per tornare negli Stati Uniti. Però non avevo altra scelta.
L’impellenza di migrare era irrefrenabile. Molto più potente di quella di uccidere. A ogni fase della luna, a ogni cambio di marea, diventava sempre più impossibile ignorarla. In base all’esperienza sapevo che mancavano solo poche settimane al momento in cui mi sarei ricongiunto alle mie sorelle. Prima della fine di maggio, sarei sfrecciato nell’acqua come un razzo. Guai a chi fosse capitato sulla mia strada.
Il cellulare ricominciò a squillare. Imprecai rassegnato, mi tirai per metà fuori dall’acqua, rovistai fra i vestiti e schiacciai il tasto di risposta.
— Gentile a prendere la chiamata — disse Maris.
— Cosa vuoi?
— È ora. Torna a casa. Subito. — La sua voce, sarcastica al principio, risuonava adesso del solito fanatismo. Sullo sfondo sentivo le voci delle altre mie sorelle, Pavati e Tallulah, un’eco del suo entusiasmo.
— Perché proprio adesso? — chiesi in tono inespressivo. — È ancora aprile.
— Perché fai tanto il difficile?
— Così. — All’altro capo vi fu una lunga pausa. Chiusi gli occhi e aspettai che lo capisse. Non impiegò più di una manciata di secondi.
— Quanto tempo?
— Cinque mesi.
— Accidenti. Calder, perché ti comporti sempre da masochista? Dio, sarai a pezzi.
— So quello che faccio. Tu non ti impicciare, Maris. — Era inutile cercare di darle spiegazioni sulla mia astinenza. Riuscivo a malapena a darle a me stesso. Restai a guardare con malinconia la ragazza del canotto che sguazzava tranquilla verso la riva, continuando a splendere di giallo.
— La tua salute mentale, invece, è affare mio, eccome. Pensi di sapertela cavare da solo? Un omicidio, Calder. Uno solo. Ti farebbe sentire molto meglio.
— Sto bene — dissi sprezzante, a denti stretti.
— Sei un somaro, ma non è questo il punto. Ho una cosa che ti tirerà su il morale.
Alzai gli occhi al cielo e attesi che partisse in quarta. “Buona fortuna” pensai.
— Abbiamo trovato Jason Hancock.
Al suono di questo nome il mio cuore sobbalzò, ma restai calmo per non darle soddisfazione. Niente di nuovo. Il mio silenzio generò qualcosa all’altro capo del filo. Panico? Ora la voce di Tallulah risuonava attraverso il ricevitore, un flusso liquido di parole fin troppo rapide per riuscire ad afferrarle.
Lasciai che lo sguardo vagasse fino alla sottile trina di nuvole sopra di me. Le mie sorelle sembravano convinte. Magari questa volta ci avevano azzeccato. — Bene. Mi metto in viaggio domani.
— No — disse Maris. — Non c’è tempo per venire a nuoto. Prendi l’aereo.
Riagganciò prima che potessi protestare.
Rovesciai la testa indietro, fin dove il collo me lo permetteva, assorbendo gli ultimi raggi ultravioletti. I polpastrelli affondarono nel corallo mentre li immaginavo attorno al collo di Jason Hancock, per trascinarlo sott’acqua e osservare le ultime bolle uscirgli dalla bocca.
Un trillo di voci femminili mi strappò alle mie fantasie. Guardai oltre il muro di cespugli di ibisco e, come mi aspettavo, vidi il bagliore dell’emozione pura emanata dalle loro forme. Distolsi gli occhi dalle aure color sorbetto all’arancio e ignorai ancora una volta la tentazione di uccidere. Le parole di Maris mi risuonarono in testa: “Uno solo. Ti farebbe sentire molto meglio.”
Gli antichi miti su sirenette e sirenetti avevano ribaltato i fatti. Non eravamo soliti attirare le navi contro gli scogli. Gli esseri umani erano le uniche esche lucenti e felici che catturavano la nostra attenzione. Possedevano ciò che noi desideravamo più di ogni altra cosa: ottimismo, entusiasmo, felicità. Ogni emozione positiva bastava a infonderci la furia, costringendoci a partire alla carica, a catturare, ad assorbire la gioia dei loro cuori e portarla nei nostri. Anche un solo grammo di buoni sentimenti bastava a concederci una breve tregua dalla naturale cupezza delle nostre menti. E le ragazze che si stavano avvicinando ne promettevano ben più di un grammo.
Del resto, fin dove volevo spingermi con questo tentativo di austerità? Avevo sentito storie di miei simili quasi morti per l’astinenza dalle luminose emozioni umane, denutriti e infelici, e infine impazziti.
Cominciarono a tremarmi le mani mentre immaginavo di rapire non una ragazza sola, ma tutte quante, il tuffo, l’annegamento, e poi assorbire sotto pelle le loro aure vibranti – il calore, la frizzante euforia. Era ciò che volevo. E sarebbe stato facile ottenerlo. Poteva essere tutto mio. E ne era passato di tempo, tanto, così tanto…
Scossi il capo e attesi che le ragazze passassero. Non era colpa loro se mi ero spinto così in basso. Non meritavano di essere strizzate, gli involucri vuoti ammucchiati sotto gli scogli, solo perché avevano incrociato la mia strada. Le loro risate svanirono man mano che si addentravano nell’entroterra.
Appena sicuro di avere qualche minuto di solitudine, mi tirai completamente fuori dall’acqua turchese e mi adagiai sulla roccia. La trasformazione iniziò prima che riuscissi a riprendere fiato. Per prima cosa, la contrazione; poi la lacerazione, mentre il corpo si tirava e si tendeva contro se stesso. Le ossa si spaccarono e si allungarono, incastrandosi in articolazioni che fino a poco prima non esistevano nemmeno. Restai a dibattermi in silenzio sul corallo, ferendomi le spalle e digrignando i denti per il dolore, finché alla fine non mi rovesciai sul dorso, boccheggiante e sanguinante sulla roccia.
Mi rimisi in piedi barcollando e mi vestii alla svelta. Dio, speravo proprio che Maris non mi richiamasse a casa così presto per nulla. Se questo Jason Hancock era quel Jason Hancock, non sarebbe stata certo una delle nostre classiche uccisioni. Non avrei voluto assorbire nulla di ciò che il suo corpo aveva da offrire. Non avrebbe contato neppure come esperimento di autocontrollo. Questa volta si sarebbe trattato di pura e semplice vendetta.
Con quella parola che mi gravava sulla lingua, calai i Ray-Ban sugli occhi e distolsi lo sguardo dall’oceano. Era una trappola inevitabile: giungeva l’ora di tornare a nord.
2
IL FRATELLO RILUTTANTE
Minneapolis brulicava sotto di noi mentre stavamo sorvolando l’aeroporto a bordo di un DC-9. Avevo i quadricipiti paralizzati dalla disidratazione, e senza volerlo mi sfuggì un lamento. Meno male che non cercavo compassione. Tanto nessuno mi avrebbe sentito con il rombo dei motori.
Un uomo d’affari barcollò lungo l’angusto corridoio, urtando con il grasso ventre le spalle degli altri passeggeri.
— Chiedo scusa, chiedo scusa — disse. Un bambino gettò a terra il suo giornaletto di giochi di parole e la matita rotolò dalla mia parte. Slacciai la cintura di sicurezza e mi sporsi oltre il bracciolo per raccogliergliela.
— Giochi di parole! Forte — commentai, appoggiando la matita sul suo tavolinetto.
Il ragazzino annuì. — Mi serve un aggettivo.
“Infelice. Ansioso. Super-incavolato.” — Prova con riluttante — gli dissi con un sorriso ironico. Raddrizzai le gambe e spazzolai via le briciole dei salatini dai pantaloni.
— E come si scrive?
Lo scrissi io per lui, poi respirai a fondo con il naso. L’aria secca e stantia, intrisa dell’alito e della puzza di sudore delle persone, mi filtrò nei polmoni. Dallo zaino presi una bottiglietta di plastica e strizzai le ultime gocce d’acqua nella bocca arsa. Secondo il mio orologio, ero asciutto da diciannove ore. In passato avevo raggiunto il limite di ventiquattro. Maris mi aveva sempre avvisato che oltre non si poteva andare, e io non avevo mai sentito la necessità di sfidarla. Almeno, non su questo punto.
L’assistente di volo era ferma a poche file da me, intenta a controllare che fossero tutti pronti per l’atterraggio. Alzai la bottiglia vuota e la agitai per farle cenno di avvicinarsi. Quando mi guardò, inarcai sarcastico le sopracciglia. “Ehi, dolcezza. Sì, tu. Un po’ più svelta, per favore.”
— Posso esserle d’aiuto, signore?
— Una bottiglietta d’acqua.
— Mi dispiace, ma il servizio bevande è terminato. Abbiamo iniziato la discesa. — Indicò il finestrino per convincermi.
Fuori, tracce di neve sporca e tardiva incrostavano i campi di grano e i fossati lungo le strade del Minnesota. Serrai i denti. “Speriamo che Maris abbia ragione sennò aiuto…” Già in passato c’era stato un falso allarme.
Mi passai le dita fra i capelli neri, tirandone le punte ingarbugliate, e mi aggrappai ai braccioli mentre l’aereo toccava terra, con il senso di perdita di controllo che precede il lento calo di velocità. Tutti si alzarono ancora prima che il segnale delle cinture di sicurezza si spegnesse.
Recuperai dalla tasca del sedile il berretto da baseball con il simbolo del villaggio turistico in cui avevo trascorso l’inverno. Passai le dita sul bordo consunto, quindi me lo calcai sugli occhi. Accesi il cellulare e schiacciai il tasto di chiamata. Maris rispose al primo squillo.
— Siamo atterrati — dissi. — Vieni a prendermi. E accidenti, Maris, al suolo c’è ancora la neve.
— No, non c’è. Adesso rilassati, fratellino. Non ti abbiamo mica fatto tornare dal paradiso dei bikini per nulla. Ne varrà la pena.
— Sicura che questa volta non ti sbagli?
— Assolutamente sicura. E non ti avremmo chiamato se avessimo creduto di farcela da sole. Per quanto detesti ammetterlo, tu sei superiore a noi per molti versi.
Feci una smorfia. Non era vero. Ma non era neppure una falsa lusinga. Maris sceglieva le parole come un chirurgo sceglie il bisturi; nonostante avessimo passato tutto quel tempo distanti, lei sapeva sempre come fare colpo su di me. Alla sola menzione della parola superiore, l’impulso di migrare mi squarciava disperatamente il cuore, sempre più, come un gancio infilzato nella carne.
“Sì, sì. Arrivo” pensai, rispondendo tanto all’impulso quanto a mia sorella.
Mi alzai, abbassando la testa sotto la cappelliera. Feci cenno al ragazzino di precedermi. Lui trascinava e sbatteva lo zaino mentre attrave...