Meglio erede che morto (Il Giallo Mondadori)
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Meglio erede che morto (Il Giallo Mondadori)

  1. 182 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Meglio erede che morto (Il Giallo Mondadori)

Informazioni su questo libro

I fratelli Povey hanno sempre avuto tante cose in comune, ma adesso ce n'è una che li divide: uno è morto, l'altro no. A bordo di uno yacht in navigazione nel Pacifico, durante una burrasca, l'albero di maestra si è abbattuto e ha ucciso sul colpo Charles. Arthur, che aveva perso i sensi, ha invece un terribile mal di testa e la memoria confusa, ma è salvo. E deve prendere la difficile decisione di gettare in acqua il cadavere del fratello, dopo averlo spogliato, per consegnarlo all'eterno riposo in una tomba senza nome. Glielo impone un senso di pietà umana, ma anche un'elementare norma igienica. Perché non sa quanto a lungo dovrà vagare sull'imbarcazione alla deriva... Ecco, questa è la storia che racconterà alla fine della sua odissea, raggiungendo la terraferma in preda ad amnesie e allucinazioni. Ma la versione di Arthur, l'unica possibile in mancanza di testimoni, non convince proprio tutti. Uno come sir John Appleby che è stato ispettore di Scotland Yard, ora in pensione, ha la netta sensazione che non sia la verità.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
eBook ISBN
9788852028205
MICHAEL INNES

MEGLIO EREDE
CHE MORTO

Traduzione di Antonio Ghirardelli
Mondadori
PERSONAGGI PRINCIPALI
CHARLES POVEY
ARTHUR POVEY
fratelli inglesi
TIMOTHY BUDGERY
medico australiano
SIR JOHN APPLEBY
poliziotto in pensione
LADY JUDITH APPLEBY
moglie di John Appleby
REVERENDO DUNTON
vicario di Long Dream
BUTTER
segretario di Arthur Povey
PERPETUA (POPS) PORTER
arredatrice
COLONNELLO AMBROSE BIRCH-BLACKIE
vicino di casa degli Appleby
JANE BIRCH-BLACKIE
moglie di Ambrose

PROLOGO

1
I fratelli Povey si guardavano negli occhi. Lo sguardo di Charles Povey era più fisso di quello di Arthur Povey, il che era nell’ordine naturale delle cose, poiché Charles era morto. Arthur provava un senso di repulsione profondo al vedersi fissato da un cadavere; come gli occhi dello spettro di Banco, apparso alla festa obbedendo all’appello di Macbeth, anche quelli di Charles erano atoni e privi d’espressione. Arthur non poteva dubitare che i suoi sentimenti fossero quelli di una persona normale; molti altri al suo posto avrebbero trovato sgradevole quell’esperienza, e proprio per quel motivo c’è l’abitudine di chiudere gli occhi delle persone appena decedute: si allunga un dito, così almeno pensava Arthur, e si abbassa prima una palpebra, poi l’altra. Come si farebbe per rimediare al guasto di una di quelle bambole che chiudono gli occhi.
Per qualche istante Arthur si sentì incapace di compiere quel gesto nei confronti di suo fratello Charles; si appoggiò allo schienale della sedia immaginando, poiché aveva un’immaginazione alquanto fervida, una mosca che piano andava a posarsi prima sull’occhio destro di suo fratello e poi si spostava lentamente su quello sinistro, e immaginò quelle pupille fisse e spente. Non che ci fossero molte mosche lì attorno, su quel battello minuscolo, fastidiosamente sballottato nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico.
E Arthur, con una punta di stizza, pensava che Charles era morto così, improvvisamente e senza una ragione al mondo. Non si era tirato da parte con sufficiente rapidità, e come conseguenza del suo comportamento quasi letargico, lui, il fratello minore, si trovava adesso nel più grosso pasticcio della sua vita. Era proprio degno di Charles, un tiro come quello.
E tuttavia bisogna sempre essere onesti. Il guaio in cui Arthur si trovava, per quanto grosso, non era mai tanto grosso quanto lo sarebbe stato il guaio di Charles, se a farsi ammazzare fosse stato lui, semplicemente perché era lui l’esperto di navigazione. Proprio perché era un esperto si era lasciato trascinare in quell’avventura; Charles l’aveva reclutato senza tante cerimonie e senz’altro compenso che il mantenimento puro e semplice, quasi che fosse un qualunque spiantato perdigiorno di quelli che oziano lungo le calate dei porti. Accidenti a Charles e alle sue avventure, una più idiota dell’altra, una più sterile dell’altra. A dargli retta non c’era niente da guadagnare.
Non che quell’avventura in particolare fosse molto pericolosa. Quello yacht era stato, e in gran parte era ancora, solido e ben attrezzato, e in un giornale per marinai d’acqua dolce lo si sarebbe potuto reclamizzare come una barca dotata di tutti gli accessori moderni. Vero che in quel momento, e dopo la grossa tempesta appena passata, mancava di uno o due pezzi d’armamentario piuttosto importanti: soprattutto, mancava l’albero di maestra. E proprio mentre l’albero schiantato cadeva, Charles se n’era rimasto lì come imbambolato, non si era tolto dai piedi, e l’estremità scheggiata come una lama gli aveva bucato la scatola cranica entrandogli dalla nuca. Era stato un momento da incubo, anche perché nemmeno Arthur l’aveva passata liscia: un oggetto qualunque, chissà mai cosa, cadendo assieme all’albero schiantato, gli aveva dato una botta della quale conservava ancora il ricordo sotto forma di un solenne mal di testa.
Piano, quasi con timore, Arthur Povey si palpò il cuoio capelluto, pensando che ci si può fratturare la scatola cranica senza che essa debba cedere sotto la leggera pressione delle dita. Ma che il cuoio capelluto fosse intatto lo dimostrava il fatto che basta la più piccola ferita a farlo sanguinare come un porco scannato, e il suo era asciutto e pulito. Non aveva riportato ferite né fratture, ed era già una gran fortuna. Almeno sembrava...
Quanto alla barca, era malconcia, ma poteva cavarsela anche così. Una volta che fosse ritornato su una rotta percorsa dalle navi, sarebbe bastato che non si addormentasse sulla strada di un’inarrestabile petroliera prima di poter urlare qualcosa di adeguato a sollevare l’altrui compassione per il suo caso. Alla fine ne sarebbe uscito con un certo prestigio e con una buona dose di pubblicità, non di quella remunerativa, che rende quattrini, per essere riuscito a sopravvivere.
Certo che un giornale della domenica avrebbe potuto anche acquistare il racconto della sua avventura, nel qual caso lui avrebbe guadagnato qualcosa.
Accoccolato presso la ruota inerte del timone, Arthur Povey rifletteva; solo sul mare immenso, rimase a pensare a lungo, rendendosi vagamente conto che avrebbe dovuto prendere una decisione e che indugiare non serviva. Il sole color sangue era alto nel cielo, al culmine della sua corsa quotidiana, ma a quel punto l’immaginazione di Arthur, il solo capitale che funzionasse, prese a lavorare di nuovo; e la fantasia gli faceva scorgere il corpo del fratello sotto quel sole che lo corrompeva in modo disgustoso. Il sole fa nascere i vermi anche dalla carogna di un cane... Gli pareva vagamente di aver letto qualcosa del genere, certo un frammento dell’educazione ricevuta, costosa quanto inutile. L’igiene imponeva una rapida sistemazione della salma di Charles; la decenza e la pietà imponevano la ricerca di qualche lembo di tela da vele per cucirvelo dentro prima di consegnare le spoglie mortali agli abissi del mare, e nel libro delle preghiere c’era persino qualcosa che bisognava leggere ad alta voce prima della sepoltura. I Povey erano gentiluomini inglesi, e avevano ricevuto un’educazione raffinata, ma non pareva che le disponibilità di bordo giungessero a tanto. I manuali nautici e alcune riviste blandamente pornografiche formavano tutta la biblioteca che il Gay Phoenix poteva vantare.
Arthur Povey aggrottò la fronte, ma quella contrazione gli provocò una fitta dolorosa e lo spinse a toccarsi la nuca, che gli doleva proprio nel punto in cui quella di suo fratello era stata trapassata. Uno spettacolo che Arthur avrebbe evitato di guardare ancora, se avesse potuto.
Uomo più colto di Charles, Arthur provava un senso di irritazione ogni volta che pensava al nome di quello yacht: Gay Phoenix, “allegra fenice”! C’era stato un periodo in cui Charles, da uomo ricco qual era, aveva coltivato la passione dei cavalli da corsa, e pareva che fosse di moda affibbiare a quegli animali tutti i nomi bizzarri che saltavano in testa ai proprietari. Ma con i panfili non era lecito comportarsi allo stesso modo, e Arthur, uomo dalla sensibilità precisa e metodica, non aveva dubbi in proposito.
Quella contrarietà banale non era tale da impegnarlo a lungo in pensieri speculativi, sicché rimase sbalordito quando si accorse di quel che stava accadendo sulla superficie del mare, che ormai abbonacciava in fretta; quella vergine massa liquida aveva preso a danzare intorno a lui formando una miriade di piccole chiazze simili a monete d’oro. Un fenomeno perfettamente familiare, che nondimeno indicava come il sole si appressasse al tramonto, là verso ponente. E lui se n’era rimasto seduto per ore, immobile e come paralizzato! Tornando alla realtà che lo circondava, Arthur sentì improvvisa la paura salire dentro di sé; ma quella sensazione nasceva dalla repentina constatazione della paura che aveva covato dentro per tutte quelle ore, sopita finché era rimasto immerso in altri pensieri. Charles era morto; aveva incontrato la morte in un incidente che rientrava nel numero delle possibilità teoriche sempre presenti e accettate da chi va per mare, ma adesso che la disgrazia era accaduta pareva, nella sua brutalità, assurda e incredibile. Era la conseguenza naturale di quel che avevano passato affrontando la tempesta, ma pareva assolutamente innaturale, un colpo inferto tanto arbitrariamente da provocare un vero e proprio panico, se uno ci rifletteva un po’. Perché mai l’angelo della morte aveva scelto Charles? Con lo stesso criterio avrebbe potuto scegliere lui, e ad Arthur pareva di essere il superstite di un duello alla roulette russa, giocata con un revolver che si carica con un proiettile sì e uno no; lui aveva premuto il grilletto con la canna puntata contro la tempia, ottenendo per tutta risposta soltanto un clic, ma il risultato avrebbe potuto essere l’oblio eterno.
Arthur era come paralizzato anche perché in preda a sentimenti contrastanti per quel che concerneva la salma del fratello; quel cadavere gli ripugnava, avrebbe voluto balzare in piedi, afferrarlo per le gambe e scaraventarlo in mare senza tanti complimenti, buttandolo ai pescecani, ma nello stesso tempo non sapeva decidersi a separarsene. Per inerte che fosse, quel corpo gli pareva tutto ciò che restava del mondo che vive e che respira. Con Charles scomparso per sempre, la solitudine sarebbe stata la sua unica compagna.
Il mal di testa diminuiva, il sollievo era immenso, ma ad Arthur pareva di separarsi da qualcosa che avesse avuto una certa dimensione fisica nella sua scatola cranica, e adesso che se n’andava lasciava un certo vuoto, uno spazio che attendeva di essere riempito con qualcosa di diverso. Arthur si chiedeva se, dopo tutto, non avesse riportato una leggera commozione cerebrale, gli pareva di vedere un campo di calcio e un ragazzo, che poteva essere lui stesso, sfuggire da una confusione di braccia e di gambe per mettersi a correre a caso, girando intorno senza senso, fino a quando lo portavano via negli spogliatoi, e Arthur si chiedeva se anche lui, lasciato libero in uno spazio verde, si sarebbe comportato come quel ragazzo. Quella scena, apparsa nella sua mente senza un nesso plausibile, poteva scaturire da un ricordo anziché dalla fantasia turbata, eppure lui non ricordava niente che la collegasse a un’esperienza del suo passato. Allora prese a pensare che doveva tornare in sé per far fronte alla situazione nella quale si trovava.
Uno spettatore, che non c’era perché persino l’angelo della morte si era dileguato, avrebbe trovato un tantino macabra la prima cosa alla quale Arthur si accinse. Il corpo di suo fratello era coperto solo da un paio di pantaloni corti e da una camiciola. Arthur lo spogliò completamente per buttare gli indumenti in mare, ma quel lavoretto si dimostrò sorprendentemente difficile, perché le membra di Charles parevano quelle di un bimbo riottoso, che non volesse farsi spogliare e mettere a letto. Per un buon minuto Arthur se ne rimase ansante, le gambe larghe per reggersi in equilibrio. Il corpo spogliato era snello, forte e stranamente giovane; un corpo che avrebbe potuto vivere ancora chissà quanti altri anni... proprio come lui avrebbe fatto, lui che aveva due anni meno di Charles.
Un’onda urtò la barca con un tonfo sordo, il corpo di Charles scivolò un tantino verso la murata, ma quasi dignitosamente. Arthur fissava le spalle larghe, il ventre piatto del fratello, i fianchi stretti, il petto irsuto di peli biondi. Charles era stato un bell’uomo... ma, quanto a bellezza, Arthur non sfigurava certo, al paragone; i due fratelli si somigliavano molto, anche se erano stati assai diversi nel carattere e nel modo di vivere. Assalito da un dubbio improvviso quanto irrazionale, ancora riluttante a sollevare quella testa per guardare ciò che nascondeva dietro la nuca, Arthur posò una mano sul petto del fratello. Ma il cuore era fermo, e il corpo al quale aveva dato vita era freddo. Mentre teneva la mano sul petto di Charles, Arthur posò lo sguardo sugli organi genitali, e quella vista lo fece tremare. Su quell’aspetto della vita del fratello, Arthur sapeva ben poco.
Allora incominciò a riflettere su ciò che ne sapeva, sia sotto l’aspetto dei rapporti sessuali che sotto altri aspetti ancora. La sua mente frugava nel passato, ma piuttosto a tentoni, quasi che anche i fatti più significativi fossero avvolti nell’oblio. Gli avvenimenti della sua famiglia assumevano contorni vaghi, incerti come le immagini cinematografiche filmate da un inesperto. Poi, di colpo, i ricordi presero a fluire veloci così come, a quanto si dice, il passato rivive nella mente di chi sta per annegare. Certo che lui non stava per annegare; era Charles, semmai, che stava per annegare, anche se il suo sarebbe stato un annegamento postumo. Quanto a lui, avrebbe finito per calcare ancora la terra solida; ce l’avrebbe fatta, nessun dubbio in proposito, anche se la ruota del timone, alla quale si appoggiava in quel momento, già da un po’ non aveva più un timone da azionare. Del resto, quello e altri particolari si sarebbero aggiustati in un modo o nell’altro; lui non aveva problemi impossibili dinanzi a sé... almeno fino a quando restava in mare. I problemi sarebbero venuti dopo, quando fosse tornato fra i suoi simili. Solo allora sarebbe iniziato il tiro alla fune.
Erano pensieri molto contorti, come si vede, e a un certo punto Arthur si chiese se la sua mente funzionava ancora; se la solitudine dell’oceano non l’avesse protetto da sguardi e da giudizi indiscreti, non avrebbe fatto o detto cose tali da farlo rinchiudere in qualche ricovero per malati mentali? Non avrebbe forse fatto qualche passo in una direzione dalla quale non avrebbe potuto tirarsi indietro? La situazione nella quale si trovava gli pareva tutt’altro che disperata, ma era tale che nessun uomo l’avrebbe affrontata volentieri. Eppure restava ancora ampio spazio per riflettere prima d’agire, e lui lo capiva, sia pur confusamente.
Tanto per cominciare, pur nudo com’era, suo fratello era tutt’altro che anonimo. Appesa al collo con una sottile catenina d’argento, Charles portava quella che in tempo di guerra era la piastrina di riconoscimento, la stessa targhettina metallica che in molti eserciti si portava al polso, unita a un braccialetto che non si poteva togliere, simile a una manetta. Era un mezzo per rendere riconoscibile chi la portava, e molti tipi avventurosi lo usano ancora oggi, in previsione di frangenti tali che potrebbero impedir loro di declinare le proprie generalità o di fornire il proprio gruppo sanguigno, oppure di precisare le proprie allergie, evitando che qualche malintenzionato abbia a iniettare droghe o sostanze capaci di ucciderli. Charles aveva convinto il fratello minore a portare una piastrina simile, e Arthur la portava come tanti uomini portano una crocetta, l’immagine di un santo incisa su una medaglietta, o magari un amuleto, o qualche segno cabalistico.
Indulgentemente, quasi distrattamente, Arthur Povey strappò la catenina e la targhetta con tutte le informazioni che recava incise. Tanto, a Charles non occorreva più... e allora tanto valeva che uscisse dal mondo così come c’era venuto. E non valeva nemmeno la pena avvolgerlo in un pezzo di tela facilmente deperibile: le immense forze della natura sempre all’opera, impersonate da quell’oceano mai quieto, avrebbero strappato sprezzantemente tutti i rivestimenti, tutte le coperture. E dunque, tanto valeva che Charles scendesse nudo negli abissi, e che le correnti si assumessero il compito di disperderne le ossa.
Il momento era venuto. Arthur afferrò Charles per le caviglie, ma poi alzò gli occhi e si guardò intorno, scrutando con espressione colpevole la superficie del mare, quasi per assicurarsi che nessuno lo vedesse. Spingere e sollevare richiedeva uno sforzo insospettato, ma dipendeva solo dall’inerzia che presentava il corpo morto da maneggiare. Però era come se Charles, irragionevole e recalcitrante in quel momento come sempre, si rifiutasse di andarsene. Ma doveva andarsene, e alla fine cadde fuori bordo sollevando pochissimi spruzzi, come un sassolino caduto accidentalmente, provocando solo dei bellissimi cerchi concentrici sulla superficie ormai calma del mare.
Arthur Povey scese sottocoperta e tirò fuori la cassetta del pronto soccorso; dentro c’erano bende, tamponi e persino aghi e suture. Fece bollire dell’acqua, poi, con le maggiori precauzioni del mondo, sterilizzò un coltello.
2
Sir John Appleby guardava in direzione del Polo Sud e...

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