Il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Ma so anche che un’unica sorte è riservata a tutt’e due.
ECCLESIASTE, 2,14
1
Oggi la salita che conduce al Santuario dei Marinai è deserta. Alzandosi sul sellino, Müller pedala per la strada immersa nel sole, fiancheggiando porte e finestre sbarrate. Dalla città vecchia e dal porto monta un clamore confuso, mentre il fumo degli incendi sale fino alla collina.
Al santuario, appoggia la bicicletta a una panchina, avviandosi verso il parapetto che domina il mare. Seduto sugli scalini della chiesa, un ragazzo scarno e pallido lo guarda, tendendo la mano. Dopo essersi frugato nelle tasche, Müller fa un gesto di scusa, allontanandosi. Poi, un pensiero repentino lo fa voltare, in tempo per vedere il ragazzo che s’avvicina alla bicicletta, furtivo come un gatto nel sole.
«Was machst du?» grida Müller. «Was machst du?» Corre verso di lui, con una mano afferra il manubrio e con la sinistra un lembo del cappotto del ragazzo che gli si strappa tra le dita. E in quel momento il ragazzo lo guarda, e i suoi occhi sono biglie di odio e di disperazione nel volto sporco. Müller dischiude la mano, e già il ragazzo è lontano, corre via, senza voltarsi.
Müller si piega su se stesso, scosso da un conato di vomito. Sputa un getto di saliva nerastra, poi si rialza e fruga nel cestino fissato al manubrio, in cerca della catena. Mettetela sempre, dottore, s’è raccomandato il solito ciclista nell’affittargli la bici; siamo tutti onesti, ma oggi è il giorno degli sciacalli. E ha girato lo sguardo smarrito sulla folla silenziosa davanti alla stazione.
Assicurata la catena, s’appoggia al parapetto. L’aria è salata e fresca, ma non copre il lezzo del fumo. Più sotto, Genova arde ancora. Immobili cilindri di fumo incombono tra gli scheletri delle case, per ondeggiare e sfrangiarsi più in alto, in quell’assurdo cielo sereno. Tra i bagliori degli ultimi incendi, uomini e donne formicolano intorno alle macerie. Da quassù il porto e le strade sembrano un plastico calpestato da un bambino.
È il gioco di Dio, pensa Müller. Sia Egli benedetto e maledetto. Ad uno ad uno o in piccoli gruppi, altre persone, come richiamate dalla sua presenza, si sono unite a lui, uscendo dalla chiesa, sgusciando dalle case, inerpicandosi lungo la salita. Un giovane prete tiene il braccio intorno alle spalle di una donna che piange silenziosamente. La donna ha un paio di pantofole incrostate di fango, e uno sdrucito cappotto maschile sopra la camicia da notte; guarda verso Sottoripa, dove cumuli fumanti invadono la strada. Stringe tra le dita un crocifisso di latta e, mentre il prete le sussurra all’orecchio, scuote con rabbia la testa e lo scaglia lontano. Senza una parola, il prete si china a raccoglierlo; soffia delicatamente per pulirlo e lo tende alla donna. Con un singhiozzo lei lo avvicina al volto, e poi lo fissa, come cercandone uno sguardo, un segno, e intanto mormora parole soffocate, piene di collera e di pianto.
Il prete ha condotto via la donna, che nell’andarsene ha aperto la mano, lasciando cadere il crocifisso. Müller lo raccoglie, come il prete. Come il prete vi soffia sopra, ripulendolo della polvere. Il Cristo lo fissa con occhi ciechi e lui, senza pensare, lo infila nella tasca della giacca.
«Guardate!» Il vecchio accanto a lui indica verso oriente. Nel centro della città, dove le case sono più fitte, si alza una vampata di fuoco.
«È l’arcivescovado.»
«Sta bruciando.»
«Ma cosa hanno fatto, Madonna, cosa hanno fatto?»
«Brucia, brucia.»
«Tutti. Ci ammazzano tutti.»
«Asciascin!»
«Pòscito moî orbi!»
«Pòscito ëse ammassòu!»
Müller ha visto abbastanza. Torna a inforcare la bicicletta. Scenderà in città.
È arrivato al porto, alle mura di Malapaga, fendendo la folla che si ammassa verso il molo vecchio, dove il fumo è più fitto; e da lì è risalito, smarrendosi nei vicoli, fino a vico San Giorgio. Via Flavia, gli ha detto Luigi quando lo ha visto uscire dal portone, questa mattina. Non gli ha nemmeno domandato dove andasse. Verso levante, ha aggiunto, un borgo che si chiama Vernazzola, quasi fuori città. Cosa significa “levante”?, ha chiesto lui. Est, dottore, dovete andare verso est, in direzione di Quarto. Est: Osten.
Quando ha svoltato in via Giustiniani, si è trovato la strada bloccata da un cordone umano che si snoda dalla fontana fino alle case ancora fumanti, striate dai bengala. Uomini e donne si passano i secchi in silenzio e lui, senza pensare, è smontato e ha preso posto tra due uomini con indosso maglie blu scuro, da marinaio. Con una breve occhiata, i due gli hanno fatto spazio, e quello alla sua destra gli ha teso una tinozza di zinco colma d’acqua. Lui l’ha passata a sinistra per raccogliere subito un secchio pieno.
Vanno avanti così, muti: curvare la schiena, passare, voltarsi, curvarsi ancora. Non sa quanto tempo trascorra, mentre la schiena gli duole e il respiro inizia a bruciargli nel petto. Non vede più nulla, non sente più nulla, così, quando una mano lo sfiora, quasi lascia cadere il secchio colmo.
«Dottore. Dottor Müller.»
Senza interrompersi, lui alza gli occhi. «Maria» dice soltanto.
Il viso della ragazza è un cencio bianco sotto i capelli rossi e aggrovigliati, ma gli occhi sono pieni dello stupore indignato d’un animale ferito. Ha rimboccato la gonna, fermandola con mollette da bucato sulle gambe prive di calze, e Müller si costringe a distogliere lo sguardo da quei polpacci abbronzati e coperti di graffi.
«Che cosa ci fate qui, dottore?»
Sono venuto a cercare te. È questa la risposta: ma sono parole che gli si fermano in gola, che si smarriscono prima di raggiungere la lingua: quelle italiane, quelle tedesche. Sono venuto a cercare te. Ich kam um dich zu suchen.
Così semplici, così impossibili.
«Sono venuto ad aiutare» dice invece. «A... a dare una mano. Così dite voi, credo.»
«E il vostro lavoro?»
Müller sguscia dal cordone umano senza che il ritmo nemmeno s’incrini.
«Con tutto quello che sta succedendo?»
Ora sono lì, l’uno di fronte all’altra, a guardarsi, e tacciono a lungo, nel silenzio della folla, nel crepitio soffocato delle fiamme che ancora sonnecchiano tra le macerie e consumano la vita di Genova. Un vecchio marinaio alza gli occhi dal secchio, li guarda. Per un momento sorride.
«Sì.» Forse negli occhi di Maria è trascorsa una nuvola, subito scomparsa. «Allora venite. C’è bisogno di voi, e qui non servite.» La ragazza ha un sorriso fuggevole. «Non siete certo un Maciste, dottore. Siete meglio quando usate la testa.»
L’ha seguita in un androne dove il caldo è soffocante e le pareti roventi: le cantine nascondono il fuoco che presto divorerà la casa. Tutt’intorno i pompieri rimescolano tra le rovine con le loro inutili piccozze, in cerca dei focolai d’incendio. Maria lo guida tra i calcinacci e le travi fino alla portineria, di fronte alla quale, semiriversa sugli scalini, giace una vecchia avvolta in una coperta.
«È mia nonna.» La ragazza si è chinata ad accarezzare la fronte della vecchia. «Non è ferita, ma non parla. Non mi dice niente.»
La vecchia ha indosso un abito scuro e odora di talco, di buono. Ha gli occhi fissi nell’oscurità del soffitto sventrato.
«Nonna. Nonna Angela. Rispondimi.» Maria passa una pezzuola bagnata sulla fronte della vecchia, tergendone la polvere nerastra. «Questo è il dottor Müller. È un medico. È... un amico.» Si volta verso di lui, sfiorandolo con lo sguardo, ma Müller non se n’è accorto: prende la mano della vecchia, gelida, inerte. Il polso è flebile e accelerato.
«Shock» mormora. «È sotto shock.»
Con dita rapide esplora il corpo da sopra gli abiti. Può usare solo la sinistra, perché la donna gli trattiene l’altra mano. Non sembrano esserci fratture; non c’è sangue, se non quello di un profondo taglio al sopracciglio. Le sclere e le labbra sono rosee.
«Non ha aspirato troppo fumo, e non credo che ci siano emorragie interne. Ma va portata in ospedale. Ha bisogno di liquidi e di calmanti.»
«Un’ambulanza è riuscita ad arrivare fino in piazza San Giorgio. Fa la spola con il San Martino. Ho avvisato gli infermieri. Tra poco ci raggiungeranno.»
«Va bene, allora. Aspettiamo.»
Müller osserva le dita della ragazza che puliscono la ferita sul sopracciglio della vecchia. Maria la esamina con attenzione, con distacco.
«Ci vorranno dei punti.»
«Siete un’infermiera?»
«Non sono un’infermiera! Le donne non sono solo cuoche o infermiere!»
«Scusatemi.» Müller alza la sinistra di fronte a quella rabbia.
«Scusate voi.» La donna finisce di pulire il taglio e comprime la ferita con una garza, fermandola con due strisce di cerotto. «Studiavo Medicina» riprende a voce bassa. «Poi mio padre è morto e ha lasciato... molti debiti. Ho dovuto smettere, e cercarmi un lavoro.»
«Mi dispiace. Non volevo offendervi.»
«Non mi avete offeso. Fare l’infermiera è un bel lavoro. È dignitoso. Anche fare la cuoca. Mi piace. Non mi avete offesa voi. Ma altri.»
Cosa dire? Nulla; annuire e aspettare.
Così attendono, fino all’arrivo degli infermieri, e Müller fa scivolare a forza le sue dita da quelle della vecchia. «Es wird gutgehen. Alles in Ordnung» le mormora. «Andrà tutto bene» si corregge, e solo allora la vecchia apre la mano e si lascia condurre via sulla barella.
«Un momento!» grida Maria. Ha raccolto, tra le macerie, una bambola di ceramica dall’abito strappato e dalle guance coperte di fuliggine. Raggiunge correndo gli infermieri, le gambe nude sotto la gonna raccolta.
«Era la mia bambola» spiega a Müller, guardando la barella che si allontana. «La tiene sempre con sé.»
Sono rimasti di nuovo immobili a fissarsi, senza parlare. Poi, Maria s’è passata una mano nervosa tra i capelli. Si guarda le gambe, e con un gesto rapido sfila le mollette, lasciando ricadere la gonna.
«Andiamo» dice, il viso arrossato. «C’è ancora molto da fare con i feriti.»
2
«Permettete, signor colonnello?»
«Entra, Vercesi, entra.» Anglesio risponde senza sollevare il capo dalla scrivania. Il crepuscolo, fuori, è limpido e gelido come a gennaio, ma la stufa è spenta. «Dimmi.»
Nel guardarlo, Vercesi ha stretto appena le labbra. È un anno che il colonnello è diverso. Parla poco, e ogni venerdì esce dall’ufficio in anticipo, con quegli occhi da bestia inseguita. Non saluta nemmeno passando davanti agli uscieri. Ma oggi è anche peggio: ha lo stesso sguardo vuoto di un anno fa, subito dopo l’omicidio Ravera.
Vercesi esi...