PASSARE IL NATALE NEGLI INFERI NON FU UNA mia idea. Se avessi saputo cosa sarebbe successo, mi sarei dato malato. Avrei potuto risparmiarmi un esercito di demoni, uno scontro con un Titano e uno scherzetto che è quasi costato a me e ai miei amici un viaggio nelle tenebre eterne.
Ma no. Dovevo fare il mio stupido esame di inglese. Perciò me ne stavo là alla Goode High School nell’ultimo giorno del semestre invernale, seduto nell’auditorium con altri ragazzi del primo anno, a tentare di finire il mio tema su Una storia tra due città di Dickens – che non avevo letto ma dovevo far finta di sì – quando la signora O’Leary piombò sul palco, abbaiando come impazzita.
La signora O’Leary è il mio cane infernale. È un mostro femmina a pelo lungo delle dimensioni di un furgone, con zanne a rasoio, artigli affilati come acciaio e occhi rossi di brace. È davvero dolce, ma di solito resta al Campo Mezzosangue, il nostro campo per semidei. Ero un po’ sorpreso di vederla lì sul palco, a calpestare l’albero di Natale, gli elfi e tutto il resto del set Magico Inverno.
Tutti alzarono lo sguardo. Ero sicuro che gli altri ragazzi stessero per andare nel panico e scappare verso le uscite, invece cominciarono solo a ridere e sghignazzare. Un paio di ragazze dissero: — Ooooh, che carino!
Il nostro insegnante di inglese, il professor Boring (non sto scherzando, boring significa “noioso” ed è davvero il suo cognome) si aggiustò gli occhiali e aggrottò la fronte.
— Va bene — disse. — Di chi è il barboncino?
Sospirai di sollievo. Grazie agli dei che esiste la Foschia, il velo magico che impedisce agli umani di scorgere le cose per come sono realmente. L’avevo vista distorcere la realtà altre volte, ma la signora O’Leary come un barboncino? Era davvero impressionante.
— Ehm, è il mio, signore — risposi. — Mi scusi, deve avermi seguito.
Qualcuno alle mie spalle cominciò a fischiare la filastrocca Mary ha una pecorella. Altri ragazzi scoppiarono a ridere.
— Basta! — li zittì il professor Boring. — Percy Jackson, questo è un esame di fine semestre. Non posso avere dei barboncini che…
— BAU! — Il latrato della signora O’Leary scosse l’auditorium. Agitò la coda, abbattendo qualche altro elfo. Poi si rannicchiò sulle zampe anteriori e mi fissò come se volesse che la seguissi.
— La porto fuori di qui — dissi al professor Boring. — Tanto avevo finito.
Chiusi il mio test e corsi verso il palco. La signora O’Leary balzò verso l’uscita e io la seguii, con gli altri ragazzi che ancora ridevano e mi gridavano dietro: — Ci vediamo, ragazzo barboncino!
La signora O’Leary corse giù lungo l’Ottantunesima Strada a est, verso il fiume.
— Rallenta! — gridai. — Dove stai andando?
Qualche pedone mi guardò in modo strano, ma eravamo a New York, perciò un ragazzino all’inseguimento di un barboncino probabilmente non era la cosa più assurda che avessero mai visto.
La signora O’Leary guadagnò terreno. Ogni tanto si girava per abbaiare, come a dire: “Muoviti, lumacone!”
Corse per tre isolati verso nord, dritta nel Carl Shurz Park. Nel tempo che impiegai per raggiungerla, aveva già saltato una recinzione di ferro ed era sparita in un enorme muro decorativo fatto di cespugli innevati.
— Oh, per favore — mi lamentai. Non avevo fatto in tempo a prendere il cappotto, a scuola. Stavo quasi congelando, ma mi arrampicai sulla recinzione e mi lasciai cadere in mezzo al fogliame gelato.
Dall’altra parte c’era uno spiazzo: mezzo acro di erba ghiacciata e alberi spogli. La signora O’Leary stava annusando in giro, agitando la coda come una pazza. Non vidi nulla di insolito. Davanti a me, l’East River color acciaio fluiva pigramente. Bianchi pennacchi di fumo si levavano dalla cima dei tetti del Queens. Dietro di me, l’Upper East Side si profilava freddo e silenzioso.
Non ero sicuro del perché, ma avvertii un brivido sulla nuca. Tirai fuori la mia penna a sfera e le tolsi il cappuccio. Immediatamente si trasformò nella mia spada di bronzo, Vortice, la sua lama che brillava debolmente nella luce invernale.
La signora O’Leary sollevò la testa. Le sue narici fremettero.
— Chi c’è, cucciola? — sussurrai.
I cespugli si mossero e un cervo dorato schizzò fuori con un salto. Quando dico dorato, non intendo giallo. Questo animale aveva la pelliccia metallica e delle corna che sembravano proprio di autentico oro a quattordici carati. Vibrava di un’aura di luce dorata, quasi troppo vivida da riuscire a fissarla. Probabilmente era la cosa più bella che avessi mai visto.
La signora O’Leary si leccò le labbra come se stesse pensando: “Hamburger di cervo!” Poi i cespugli si mossero ancora e una figura incappucciata balzò nello spiazzo, una freccia già incoccata nell’arco.
Sollevai la mia spada. La ragazza avanzò verso di me, poi si bloccò.
— Percy? — Si tolse il cappuccio argentato del suo parka. I suoi capelli neri erano più lunghi di quanto ricordassi, ma riconobbi quei luminosi occhi blu e la tiara d’argento che la identificavano come il primo luogotenente di Artemide.
— Talia! — esclamai. — Che cosa ci fai qui?
— Stavo seguendo il cervo d’oro — rispose, come se fosse la cosa più naturale del mondo. — È l’animale sacro di Artemide. Ho immaginato che fosse una specie di segnale. E, ehm… — Annuì nervosamente verso la signora O’Leary. — Vorresti dirmi cosa ci fa quella cosa qui?
— È il mio cucciolo… signora O’Leary, no!
Stava annusando il cervo e praticamente invadendo il suo spazio vitale. Il cervo le diede una testata sul muso. In men che non si dica, i due animali stavano giocando a una strana versione di acchiapparella in giro per lo spiazzo.
— Percy… — Talia aggrottò la fronte. — Non può essere una coincidenza. Io e te che finiamo nello stesso luogo, nello stesso momento?
Aveva ragione. Non esistono le coincidenze nel mondo dei semidei. Talia era una buona amica ma non la vedevo da oltre un anno, e ora, improvvisamente, eccoci qua.
— Qualche dio si sta divertendo con noi — indovinai.
— Probabile.
— Be’, mi fa piacere vederti.
Mi fece un sorriso risentito. — Sì, se usciamo vivi da questa situazione ti offro un cheeseburger. Come sta Annabeth?
Prima che potessi rispondere, una nuvola passò sopra al sole. Il cervo d’oro tremolò e sparì, lasciando la signora O’Leary ad abbaiare a un mucchio di foglie.
Tenni pronta la spada. Talia tese l’arco. Istintivamente finimmo schiena contro schiena. Una chiazza di oscurità passò sopra lo spiazzo e un ragazzo capitombolò atterrando sull’erba ai nostri piedi, come se fosse stato lanciato fuori da essa.
— Ahi — borbottò. Si spazzolò la giacca da aviatore.
Aveva circa dodici anni, capelli scuri, jeans, una maglietta nera e un anello con un teschio d’argento sulla mano destra. Una spada pendeva dal suo fianco.
— Nico? — chiamai.
Gli occhi di Talia si spalancarono. — Il fratello piccolo di Bianca?
Nico ci guardò storto. Dubito che gradisse essere annunciato come il fratello piccolo di Bianca. Sua sorella, una Cacciatrice di Artemide, era morta un paio di anni prima e per lui era ancora un argomento doloroso.
— Perché mi avete portato qui? — si lamentò. — Un momento prima ero in un cimitero di New Orleans, e quello dopo a New York. In nome di Ade, che cosa ci faccio a New York?
— Non siamo stati noi a portarti qui — gli assicurai. — Noi siamo… — un brivido mi percorse la schiena — siamo stati portati qui insieme. Tutti e tre.
— Di che parli? — chiese Nico.
— I figli dei Tre Pezzi Grossi — specificai. — Zeus, Poseidone e Ade.
Talia fece un respiro secco. — La profezia. Non penserai che Crono…
Non finì la frase. Sapevamo tutti della profezia: una guerra stava per cominciare, tra dei e Titani, e il prossimo figlio di uno fra i tre dei più importanti che avrebbe compiuto sedici anni, avrebbe dovuto anche prendere una decisione che poteva salvare o distruggere il mondo. Cioè uno di noi tre. Negli ultimi anni Crono, il signore dei Titani, aveva cercato di manipolare ciascuno di noi, separatamente. Ora… stava forse tramando qualcosa mettendoci insieme?
Il terreno rimbombò. Nico sfoderò la sua spada, una lama nera di ferro dello Stige. La signora O’Leary balzò indietro e abbaiò allarmata.
Troppo tardi realizzai che stava cercando di avvisarmi.
Il terreno si spaccò sotto di me, Talia e Nico, e cademmo nelle tenebre.
Mi aspettavo di continuare a cadere per sempre, o di finire spiaccicato in una frittella di semidio quando avessimo colpito il fondo. Ma l’attimo successivo ci ritrovammo in un giardino, tutti e tre ancora strillando dal terrore, il che mi fece sentire piuttosto stupido.
— Cosa… dove siamo? — chiese Talia.
Il giardino era buio. File di fiori d’argento rilucevano debolmente, riflettendosi nelle grosse gemme che delimitavano le aiuole: diamanti, zaffiri e rubini della misura di palloni da calcio. Gli alberi si inarcavano sopra di noi, i rami coperti di fiori d’arancio e frutti dall’odore dolciastro. L’aria era fresca e umida, ma non come l’inverno a New York. Più come una grotta.
— Sono già stato qui — dissi.
Nico colse una melagrana da un albero. — Il giardino della mia matrigna, Persefone. — Fece una faccia cupa e gettò il frutto a terra. — Non mangiate niente.
Non aveva bisogno di ripetermelo. Un solo assaggio del cibo degli Inferi e non saremmo mai più stati capaci di andarcene.
— Attenti — ci avvisò Talia.
Mi girai e la vidi puntare il suo arco verso una donna alta, vestita di bianco.
All’inizio pensai che fosse un fantasma. Il suo vestito le si gonfiava intorno come fumo. I suoi lunghi capelli scuri fluttuavano e si arricciavano come se fossero privi di peso. Il suo viso era bello ma di un pallore mortale.
Poi mi accorsi che il suo vestito non era bianco. Era composto di ogni tipo di colore cangiante – rosso, blu, con fiori gialli che spuntavano nella stoffa – ma era sbiadito in modo strano. I suoi occhi erano simili, di molti colori ma stinti, come se gli Inferi le avessero indebolito la forza vitale. Avevo la sensazione che nel mondo di sopra sarebbe stata bella, persino splendida.
— Sono Persefone — disse con voce sottile e fragile. — Benvenuti, semidei.
Nico schiacciò la melagrana con lo stivale. — Benvenuti? Dopo l’ultima volta, hai il coraggio di darmi il benvenuto?
Mi agitai, perché rivolgersi così a un dio poteva ridurti in batuffoli di polvere. — Ehm, Nico…
— Va tutto bene — disse Persefone freddamente. — È stata solo una piccola discussione in famiglia.
— Discussione? — gridò Nico. — Mi hai trasformato in un dente di leone!
Persefone ignorò il suo figliastro. — Come st...